involuzione

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Poche cose abbiamo imparato dalla storia all'infuori di questa: che le idee si condensano in un sistema di ortodossia, i poteri in una forma gerarchica e che ciò che può ridare vita al corpo sociale irrigidito è soltanto l'alito della libertà, con la quale intendo quella irrequietezza dello spirito, quell'insofferenza dell'ordine stabilito, quell'aborrimento di ogni conformismo che richiede spregiudicatezza mentale ed energia di carattere.
Io sono convinto che se non avessimo imparato dal marxismo a vedere la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati. O avremmo cercato riparo nell'isola della nostra interiorità o ci saremmo messi al servizio dei vecchi padroni. Ma tra coloro che si sono salvati, solo alcuni hanno tratto in salvo un piccolo bagaglio dove, prima di buttarsi in mare, avevano deposto, per custodirli, i frutti più sani della tradizione intellettuale europea: l'inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose.
Norberto Bobbio

giovedì 6 gennaio 2011

ANCHE FASSINO E D'ALEMA

L'enfasi che la propaganda ufficiale ha attribuito al caso della richiesta di estradizione dal Brasile di Cesare Battisti, si colloca certamente nei meccanismi consueti di un potere politico che ricerca la sua unica legittimazione nell'agitare pretestuosamente l'emergenza-terrorismo. Stavolta, però, ciò che avrebbe dovuto costituire l'ennesimo diversivo, ha finito invece per riportare l'attenzione al centro del problema.
Si possono fare molte speculazioni sui motivi per i quali il presidente brasiliano Lula ha negato l'estradizione. Si è persino favoleggiato per anni sulle arti malefiche della maliarda Carla Bruni e sul suo presunto ruolo nella vicenda-Battisti. L'intervento del pubblicista sionista Bernard-Henry Levy a favore di Battisti ha fatto inoltre ipotizzare che il latitante fosse in possesso di chissà quali segreti con cui condizionare le scelte dei governi.
Tutto è possibile, ma la dietrologia si giustifica quando vi sia palese sproporzione tra cause ed effetti, o tra obiettivi dichiarati e strumenti adottati, quindi non in questo caso, dato che c'era di mezzo Berlusconi con la sua penosa immagine nel mondo. Cosa avrebbe guadagnato infatti Lula ad accontentare il governo italiano? Nulla, dato che attualmente il governo italiano non conta nulla nei rapporti internazionali. Cosa avrebbe invece perso Lula in termini di immagine, sia interna che internazionale, se avesse riconsegnato un rifugiato politico alle brame vendicative dell'universalmente disprezzato satrapo di Arcore? Moltissimo.
Quand'anche le prove giudiziarie contro Battisti fossero state convincenti - e certo non lo erano -, la sostanza politica del problema non sarebbe cambiata, perché è chiaro che un capo di Stato assume le sue decisioni in base a criteri politici e non giudiziari. Il problema quindi, dalla solita e fittizia emergenza-terrorismo, è stato ricondotto alla realtà della delegittimazione internazionale dell'attuale governo italiano. La legittimazione sulla base dell'emergenza-terrorismo funziona ancora per il governo in chiave interna, ma non riesce ad annullare l'handicap dell'effetto-Berlusconi all'estero.
Risulta evidente anche l'ironia involontaria di un governo italiano che, mentre fa la voce grossa con Lula, si cala le brache davanti a Marchionne; lo stesso Marchionne che l'ultimo 28 dicembre è andato con il cappello in mano a Pernambuco per inaugurare, insieme con Lula, un nuovo stabilimento della FIAT in Brasile. Tale stabilimento dovrebbe produrre auto soprattutto per il mercato brasiliano, ciò in linea con la scelta economica di Lula di rilanciare i consumi interni, liberando il Brasile dalla direttiva del Fondo Monetario Internazionale, che lo costringeva a basare la sua economia sulle esportazioni, con la conseguenza di mantenere forzosamente bassi i salari.
Quando Piero Fassino ha intimato ai lavoratori della FIAT di chinare il capo di fronte al ricatto di Marchionne, con la scusa che ora bisognerebbe fare i conti con la Cina ed il Brasile, ha perciò detto la sua ennesima fesseria. La realtà è che l'Italia si deve misurare con un Brasile che attua la piena libertà sindacale e con una Cina che fonda la sua economia sulle partecipazioni statali e sulle banche di proprietà pubblica. Una delle principali banche cinesi è infatti gestita direttamente da un ministro del governo
Il problema è che la Cina ed il Brasile non hanno rinunciato affatto alla direzione politica dell'economia, mentre l'Italia è diventata una colonia delle multinazionali. Il recente salvataggio di un Berlusconi ormai allo stremo delle sue già non esaltanti capacità mentali, ha ottenuto l'effetto politico di lasciare per intero il palcoscenico al protagonismo di Marchionne. Ciò sta a dimostrare che chi ha voluto mantenere Berlusconi alla Presidenza del Consiglio, ritiene che potrebbe bastare davvero molto poco per rischiare di fare ombra alla stella di Marchionne; segno che la sua leggenda di combattente si è costruita in match truccati.
Dopo che l'ambiguo presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha eseguito per conto delle multinazionali il salvataggio di Berlusconi, costringendo le opposizioni a dilazionare di un mese il voto di sfiducia, ora la ulteriore mazzata, forse definitiva, per il segretario del Partito Democratico, Pierluigi Bersani, è arrivata ancora una volta dall'interno. In questo caso il traditore è stato il principale sponsor di Bersani nel partito, cioè Massimo D'Alema, proprio l'uomo che aveva collocato Bersani nella posizione di massimo dirigente. D'Alema ha infatti sposato in toto la linea di Piero Fassino sul cosiddetto "accordo" di Mirafiori, spingendosi sino a sollecitare i lavoratori FIAT a votare per il sì al referendum/ricatto.
La posizione di Bersani sul cosiddetto accordo risultava di una moderazione irrealistica data la situazione, e appariva soprattutto come un compromesso tra le varie linee del partito sulla questione. Ma il discorso di Bersani partiva quantomeno da un dato di fatto, cioè dagli effetti destabilizzanti sul sistema delle relazioni industriali che il diktat di Marchionne comporta.
Quanto deciso per Mirafiori riguarda in minima parte le sorti della FIAT, poiché costituisce un precedente che, se non contrastato dal potere politico, porrà le basi per uno sconvolgimento del quadro delle relazioni industriali. D'Alema si è posto esclusivamente in base alla dottrina ufficiale di Marchionne, cioè investimenti in cambio di meno diritti del lavoro, riducendo l'eliminazione della rappresentatività sindacale ad un mero problema di tutela del dissenso. Anche volendosi dimenticare che Marchionne si è già rivelato bugiardo e sleale, dato che appena sei mesi fa aveva presentato l'accordo di Pomigliano come dettato dall'emergenza/assenteismo in fabbrica, vale comunque ciò che aveva almeno accennato Bersani, e cioè che in questa occasione Marchionne ha scavalcato il governo e si è posto lui come nuovo gestore extra-istituzionale delle relazioni industriali. In Parlamento giacevano due proposte di legge sulle relazioni industriali, una di Pietro Ichino, senatore del PD, e l'altra del ministro Sacconi; sia l'una che l'altra facevano a gara per compiacere le tesi di Marchionne, il quale però le ha snobbate entrambe per assumere lui il potere sulle relazioni industriali con una sorta di golpe. D'Alema non soltanto ha fatto finta di non vedere questa delegittimazione del ruolo del potere politico, ma è andato anche ad affossare uno dei principali serbatoi elettorali del PD, cioè gli iscritti alla CGIL, e ciò proprio mentre si profila la possibilità di elezioni anticipate. Il segretario generale della CGIL, Camusso, ha proposto l'espediente del sì "tecnico" all'accordo di Mirafiori, nel disperato tentativo di smussare la contrapposizione col PD, ma è chiaro che la stessa CGIL ne esce comunque con le ossa rotte e con una ulteriormente ridotta capacità di convogliare voto organizzato.
La stupidità e l'insipienza dei dirigenti della sinistra non sono in grado di spiegare tutto, e neppure le semplici compromissioni col sistema affaristico possono motivare questa suicida linea anti-partito. La pubblicistica dei giornali borghesi e gli opinionisti come Panebianco o Galli Della Loggia sono particolarmente caustici nel rilevare questo presunto deficit intellettuale del ceto politico. A parte l'inattendibilità del fatto che personaggi come Panebianco o Galli Della Loggia possano valutare l'intelligenza altrui, è anche molto dubbio che la direzione di un partito richieda particolari doti intellettuali, come se si trattasse di dipingere la Cappella Sistina. In generale tutti gli espedienti retorico-polemici dell'opportunismo si riducono al rimproverarti di non essere Dio: non sei in grado di capire la "complessità", non sei capace di guardare la storia dal piedestallo dell'onniscienza, non sei mai abbastanza creativo ed innovativo. Nel suo discorso al Meeting di Rimini invece Marchionne non solo ha rivendicato a sé queste mirabolanti qualità divine, ma ha anche precisato di riuscire a possederle senza pretendere di "avere la verità in tasca". Miracolo nel miracolo!
L'elettoralismo costituisce in realtà un'operazione elementare alla portata anche di menti molto limitate. Berlusconi, depenalizzando il falso in bilancio, ha fatto un favore a se stesso e contemporaneamente ha riscosso i voti gestiti dalla Confindustria e dalla Confcommercio; e con il condono edilizio ha salvato le sue palazzine abusive, e contemporaneamente ha rimediato i voti per vincere le elezioni regionali. La destra compra i voti distribuendo licenze di delinquere e di evadere il fisco, mentre la sinistra si dovrebbe conquistare l'elettorato difendendo le garanzie sociali.
Il Pd, che dovrebbe curare i propri orticelli elettorali, dalla GGIL alla Lega delle Cooperative, invece plaude a Marchionne che glieli scompagina entrambi distruggendo le garanzie sociali. La Lega delle Cooperative rischia infatti di essere la prossima vittima della disarticolazione del sistema delle relazioni industriali. Ciò che ha consentito sinora in Italia lo sviluppo di un solido e diffuso sistema autonomo di piccola e media impresa era proprio la garanzia costituita dalla rappresentatività sindacale, che impediva la proliferazione del sindacalismo giallo gestito dalla malavita organizzata, un fenomeno che altrove costituisce uno degli strumenti di intimidazione con cui le multinazionali riescono a vincolare la piccola e media imprenditoria al proprio carro. Distrutto il sistema delle relazioni industriali, sarà più facile per le multinazionali costringere i padroncini a delocalizzare le loro produzioni nei Paesi dell'Est Europa, come la Serbia, feudo di quella Philip Morris di cui Marchionne è "director". Si tratta di una vera e propria rapina coloniale di impianti e tecnologie.
La connessione tra Marchionne, la Philip Morris e il business delle delocalizzazioni in Serbia è di una evidenza così sfacciata e macroscopica che, a quanto pare, stavolta la solita retorica degli slogan epocali non è stata sufficiente a coprirla, perciò Eugenio Scalfari, per sollevare altro fumo, è stato costretto ad escogitare nuove panzane come quella del Marchionne esecutore delle volontà dei sindacati della Chrysler. Che a Marchionne ed alle multinazionali non gliene freghi nulla del comparto produttivo italiano, è dimostrato proprio dal fatto che questi "accordi" stanno distruggendo il maggiore fattore di controllo del lavoro, cioè il sindacato.
Quando un dirigente di partito agisce contro il suo partito e la sua base elettorale, se ne può dedurre che egli in effetti stia affidando le sue sorti personali a ben altri lidi ed a ben altre prospettive di carriera. Ed anche qui la dietrologia non c'entra, dato che c'è il noto precedente di Giuliano Amato, che ha lasciato l'attività politica per essere accolto come alto dirigente della multinazionale Deutsche Bank.
Certo, si potrà sempre dire che è una pura coincidenza il fatto che uno che quando stava al governo faceva gli interessi delle multinazionali, poi abbia trovato la sua occasione di carriera proprio nella dirigenza di una multinazionale.
La Chiesa Cattolica ha sempre condannato come eretica la tesi secondo cui la Chiesa dovrebbe essere povera, ed in effetti i preti hanno ragione, perché una Chiesa che rinunciasse alle sue ricchezze non conterebbe più nulla. Di conseguenza, anche la dottrina liberista dello Stato "leggero", cioè alleggerito dei suoi monopoli, delle sue imprese e dei suoi patrimoni immobiliari, porta inevitabilmente all'effetto-Congo, cioè ad uno Stato talmente povero che anche la più scalcagnata delle multinazionali è in grado di mettere in campo risorse maggiori e di comprarsi in blocco la classe dirigente locale. Venti anni di privatizzazioni stanno determinando in Italia la stessa situazione, per cui oggi la politica non è neppure lontanamente in grado di prospettare possibilità di carriera e arricchimento comparabili con quelle offerte dalle multinazionali. Non a caso il mito ed il falso bersaglio della politica strutturata in "casta", sono stati creati dai media come il "Corriere della Sera" proprio nel momento in cui la "casta" in quanto tale aveva cessato di esistere, diventando un'appendice delle multinazionali.

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