involuzione

involuzione
Poche cose abbiamo imparato dalla storia all'infuori di questa: che le idee si condensano in un sistema di ortodossia, i poteri in una forma gerarchica e che ciò che può ridare vita al corpo sociale irrigidito è soltanto l'alito della libertà, con la quale intendo quella irrequietezza dello spirito, quell'insofferenza dell'ordine stabilito, quell'aborrimento di ogni conformismo che richiede spregiudicatezza mentale ed energia di carattere.
Io sono convinto che se non avessimo imparato dal marxismo a vedere la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati. O avremmo cercato riparo nell'isola della nostra interiorità o ci saremmo messi al servizio dei vecchi padroni. Ma tra coloro che si sono salvati, solo alcuni hanno tratto in salvo un piccolo bagaglio dove, prima di buttarsi in mare, avevano deposto, per custodirli, i frutti più sani della tradizione intellettuale europea: l'inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose.
Norberto Bobbio

mercoledì 29 giugno 2011

Al-Qaida e la ribellione libica

Un nuovo rapporto spiega la connessione
Joseph Rosenthal, National Review, 23 giugno 2011



Un nuovo rapporto di due think tank francesi conclude che i jihadisti hanno giocato un ruolo predominante nella ribellione della Libia orientale contro il governo di Muammar Gheddafi, e che i “veri democratici” rappresentano solo una minoranza della ribellione. Il rapporto, inoltre, mette in discussione le giustificazioni addotte per l’intervento militare occidentale in Libia, sostenendo che essi sono in gran parte basati su esagerazioni dei media e su “una sfacciata disinformazione.”
Gli sponsor del rapporto sono il Centro Internazionale di Ricerca e Studio sul Terrorismo e di Aiuto alle Vittime del Terrorismo (CIRET-AVT) e il Centro francese per la ricerca sull’Intelligence (CF2R) di Parigi. Le organizzazioni hanno inviato una missione di sei esperti in Libia per valutare la situazione e consultarsi con i rappresentanti di entrambi i lati del conflitto. Dal 31 marzo al 6 aprile, la missione ha visitato la capitale libica Tripoli e la regione della Tripolitania, dal 19 aprile al 25 aprile ha visitato la capitale dei ribelli Bengasi e la regione circostante della Cirenaica, nella parte orientale della Libia.
Il rapporto individua quattro fazioni tra i membri del Consiglio nazionale di transizione (NTC) libico orientale. A parte una minoranza di “veri democratici“, le altre tre fazioni comprendono partigiani della restaurazione della monarchia, che fu rovesciata da Gheddafi nel 1969, estremisti islamici che cercano di creare uno stato islamico, ed ex dignitari del regime di Gheddafi che hanno disertato presso i ribelli, per ragioni opportunistiche o altre. Vi è una chiara sovrapposizione tra gli islamisti e i monarchici, nella misura in cui il deposto re Idris I stesso era il capo della fratellanza Senussi, che gli autori descrivono come una “setta musulmana anti-occidentale che pratica una forma austera e conservatrice dell’Islam.” I monarchici sono quindi, più precisamente, “monarco-fondamentalisti“.
Il più noto dei disertori, il presidente del CNT, Mustafa Abdul Jalil, è anche descritto dagli autori come un “tradizionalista” che è “sostenuto dagli islamisti.” Gli autori sottolineano che Jalil ha svolto un ruolo importante nell’”affare delle infermiere bulgare“, così chiamato per le cinque infermiere bulgare che, insieme a un medico palestinese, sono stati accusati di aver volontariamente infettato centinaia di bambini affetti da AIDS, in un ospedale di Bengasi. Come presidente della Corte d’Appello a Tripoli, per due volte Jalil ha confermato la pena di morte per le infermiere. Nel 2007, le infermiere e il medico palestinese sono stati rilasciati dal governo libico, a seguito dei negoziati in cui l’allora moglie del presidente francese Nicolas Sarkozy, Cecilia, ha giocato un ruolo molto pubblicizzato.
Il rapporto descrive i membri del Gruppo combattente islamico libico, affiliato ad al-Qaida, come “il pilastro principale dell’insurrezione armata.” “Così, la coalizione militare sotto la guida della NATO, sta sostenendo una ribellione che comprende terroristi islamici,” scrivono gli autori. Alludendo al ruolo di primo piano svolto dalla regione Cirenaica nella fornitura di reclute ad al-Qaida in Iraq, aggiungono, “Nessuno può negare che i ribelli libici, che sono oggi sostenuti da Washington, ieri erano solo dei jihadisti che uccidevano soldati statunitensi in Iraq“.
La composizione completa del CNT non è stata resa pubblica. Ma, secondo gli autori, un dichiarato reclutatore di al-Qaida, Abdul-Hakim al-Hasadi, è egli stesso un membro del CNT. (Su al-Hasadi, vedasi il mio report del 25 marzo) Al-Hasadi è descritto dagli autori come “il leader dei ribelli libici.” Anche se i media occidentali, comunemente dicono che lui si occupa della difesa della sua città natale, Derna, nella parte orientale della Libia, il rapporto CIRET-CF2R indica che a metà aprile, al-Hasadi lasciò la Cirenaica per via marittima, per partecipare alla battaglia di Misurata. Si suppone che ha preso le armi assieme a 25 “combattenti ben addestrati“. Misurata è nella Libia occidentale, a soli 135 miglia da Tripoli.
Per quanto riguarda gli effetti di un intervento militare occidentale a sostegno dei ribelli, gli autori concludono:
L’intervento occidentale è in procinto di creare più problemi di quanti ne risolva. Una cosa è forzare Gheddafi a lasciare. E un’altra cosa è diffondere il caos e la distruzione in Libia, a tal fine preparare il terreno per l’Islam fondamentalista. La mossa attuale rischierebbe di destabilizzare tutto il Nord Africa, il Sahel e il Medio Oriente, favorendo l’emergere di una nuova base regionale per l’Islam radicale e il terrorismo.
Quelle che seguono sono alcune evidenze ulteriormente tradotte dal rapporto CIRET-CF2R. Il rapporto completo è disponibile in francese qui.
Sulla battaglia di Misurata:
A poco a poco, la città sta cominciando ad apparire come una versione libica di Sarajevo agli occhi del mondo “libero“. I ribelli di Bengasi sperano che una crisi umanitaria a Misurata convincerà la coalizione occidentale a dispiegare truppe di terra per salvare la popolazione. … Nel corso del mese di aprile, l’organizzazione non governativa Human Rights Watch ha pubblicato le cifre delle vittime relative a Misurata che rivelano che, contrariamente a quanto sostenuto dai media internazionali, le forze lealiste di Gheddafi non hanno massacrato gli abitanti della città. Nel corso di due mesi di ostilità, solo 257 persone – tra cui combattenti – sono state uccise. Tra i 949 feriti, solo 22 – meno del 3 per cento – erano donne. Se le forze del regime avevano deliberatamente preso di mira i civili, le donne hanno rappresentato circa la metà delle vittime. E’ dunque ormai evidente che i leader occidentali – in primis, il presidente Obama – hanno grossolanamente esagerato il rischio umanitario, al fine di giustificare la loro azione militare in Libia. Il vero interesse di Misurata risiede altrove. … Il controllo di questo porto, a soli 220 chilometri da Tripoli, fornirebbe una base ideale per lanciare un offensiva terrestre contro Gheddafi.
Su Bengasi e la regione Cirenaica:
Bengasi è ben conosciuta come un focolaio di estremismo religioso. La regione Cirenaica ha una lunga tradizione islamica che risale alla fratellanza Senussi. Il fondamentalismo religioso è molto più evidente qui che nella parte occidentale del paese. Le donne sono completamente velate dalla testa ai piedi. Non possono guidare veicoli e la loro vita sociale è ridotta al minimo. Gli uomini con la barba predominano. Spesso hanno la macchia nera della piétas sulla fronte [il "zebibah", che si forma con la ripetuta prostrazione durante le preghiere musulmane].
Si tratta di un fatto poco noto che Bengasi sia diventata, negli ultimi 15 anni, l’epicentro delle migrazioni africane verso l’Europa. Questo traffico di esseri umani è stato trasformato in una vera e propria industria, generando miliardi di dollari. Strutture mafiose parallele si sono sviluppate in città, dove il traffico è saldamente impiantato e impiega migliaia di persone, mentre corrompe poliziotti e funzionari pubblici. E’ stato solo un anno fa che il governo libico, con l’aiuto dell’Italia, è riuscito a portare questo tumore sotto controllo.
Dopo la scomparsa della sua principale fonte di entrate e l’arresto di numerosi suoi capi, la mafia locale ha preso il comando finanziando e sostenendo la ribellione libica. Numerose bande e membri della malavita della città sono noti per avere condotto spedizioni punitive contro i lavoratori migranti africani, a Bengasi e nella zona circostante. Dall’inizio della ribellione, diverse centinaia di lavoratori migranti – sudanesi, somali, etiopi ed eritrei – sono stati derubati e uccisi dalle milizie ribelli. Questo fatto è stato accuratamente nascosto dai media internazionali.
Sui “mercenari” africani e i tuareg:
Uno dei più grandi successi [della politica africana di Gheddafi] è stata la sua “alleanza” con i tuareg [una popolazione tradizionalmente nomade presente nella regione del Sahara], che ha attivamente finanziato e sostenuto quando il loro movimento è stato represso in Mali, negli anni ’90. … Nel 2005, Gheddafi ha accordato un permesso di soggiorno illimitato a tutti i tuareg del Mali e Nigeria in territorio libico. Poi, nel 2006, ha invitato tutte le tribù della regione del Sahara, tra cui le tribù tuareg, a formare una entità comune per opporsi al terrorismo e al traffico di droga. … È per questo che centinaia di combattenti provenienti da Niger e Mali aiutano Gheddafi [dopo lo scoppio della ribellione]. A loro avviso, erano in debito con Gheddafi e avevano l’obbligo di farlo… Molte cose sono state scritte sui “mercenari” al servizio delle forze di sicurezza libiche, ma pochi di esse sono accurate. …  Negli ultimi anni, degli stranieri sono stati reclutati [nell'esercito libico].  Il fenomeno è del tutto paragonabile al fenomeno che si osserva a tutti i livelli della vita economica libica. Vi è una popolazione molto ampia di lavoratori stranieri in cerca di occupazione nel paese. La maggior parte delle reclute originariamente provengono da Mali, Ciad, Niger, Congo e Sudan. …
Le informazioni provenienti dalle fonti dei ribelli, sulla presunta intrusione straniera [cioè i mercenari] sono vaghe e devono essere trattate con cautela. … D’altra parte, è un fatto provato – e la missione è stata in grado di confermarla -, che i tuareg del Niger sono venuti a Tripoli per offrire il loro sostegno a Gheddafi. Lo hanno fatto spontaneamente e per un senso di debito. Sembra che i libici di origine straniera e i volontari genuini provenienti da paesi stranieri vengono deliberatamente confusi [nelle relazioni sui "mercenari"]. Qualunque sia il numero effettivo [di combattenti stranieri], costituiscono solo una piccola parte delle forze libiche.
Sul ruolo dei media internazionali:
Fino alla fine di febbraio, la situazione nella parte occidentale della città libica era estremamente tesa e ci sono stati scontri – più che in oriente. Ma la situazione è stata oggetto di esagerazione e di una vera e propria disinformazione mediatica. Ad esempio, un rapporto secondo cui aerei libici hanno bombardato Tripoli è completamente inesatto: Nessuna bomba libica è caduta sulla capitale, anche se sanguinosi scontri sembrano avere avuto luogo in alcuni quartieri. … Le conseguenze di questa disinformazione sono chiare. La risoluzione delle Nazioni Unite [mandato d'intervento] è stata approvato sulla base di tali resoconti dei media. Nessuna commissione di indagine è stata inviata nel paese. Non è esagerato dire che le segnalazioni sensazionaliste di al-Jazeera abbiano influenzato le Nazioni Unite.
Sull’insurrezione a Bengasi:
Non appena le proteste sono iniziate, gli islamisti e i criminali hanno immediatamente approfittato della situazione per attaccare carceri di massima sicurezza, presso Bengasi, dove i loro compagni erano detenuti. Dopo la liberazione dei loro leader, la ribellione ha attaccato stazioni di polizia ed edifici pubblici. I residenti della città si sono svegliati vedendo i cadaveri dei poliziotti appesi dai ponti. Numerose atrocità furono ugualmente commesse contro i lavoratori africani, che sono stati tutti trattati come “mercenari“. Lavoratori africani sono stati espulsi, uccisi, imprigionati e torturati.
Sull’insurrezione a Zawiya (una città nella parte occidentale della Libia):
Durante le tre settimane [in cui la città era controllata dai ribelli], tutti gli edifici pubblici sono stati saccheggiati e dati alle fiamme. … Ovunque vi erano distruzione e saccheggio (di armi, denaro, archivi). Non c’era traccia di combattimenti, cosa che conferma la testimonianza della polizia [che afferma di aver ricevuto ordine di non intervenire]. … Furono anche commesse atrocità (donne che sono state violentate, e alcuni agenti di polizia che sono stati uccisi), così come vittime civili durante queste tre settimane. … Le vittime sono state uccise nella maniera usata dal GIA algerino [Gruppo islamico armato]: gole tagliate, occhi cavati fuori, braccia e gambe amputate, a volte i corpi sono stati bruciati.
Traduzione di Alessandro Lattanzio – Aurora03.da.ru

venerdì 24 giugno 2011

Tenetivi forte!!

L'arma di distruzione di massa digitale

23.06.2011

Etleboro
La guerra cybernetica è già iniziata e il terreno di scontro è l'Europa, e senza dubbio l'Italia. Concluso l'ennesimo attacco dimostrativo, l'Italia continua a subire i colpi del 'fuoco amico', che sembra si stia preparando per sferrare un'offensiva ben più dura. Dopo il black-out delle Poste Italiane, attribuita proprio all'inefficienza del sistema IBM-Lotus, si potrebbero verificare incidenti simili anche con treni, banche, telecomunicazioni, centrali, multe dell'Agenzia delle Entrate. Una regia ben architettata, attuata dall'unione tra Stato e società private. I cosiddetti legionari che sferrano attacchi di oscuramenti di web-site di istituzioni e organizzazioni, in nome di una rivoluzione sintetica, non sono che l'immagine riflessa di un sistema ben più complesso. In questo cyberspazio, fatto di diverse dimensioni, operano forze molto potenti trainate dalle grandi multinazionali dell'informatica, che agiscono con una regia sovranazionale e dei Governi più tecnologicamente avanzati. Il crimine invisibile denunciato dalla Etleboro ONG nel 2006 come vera e propria arma offensiva, rappresenta oggi il punto cieco delle intelligence di tutti i Paesi, che stanno correndo ai ripari perchè la minaccia è seria.
Armi silenziose. La cyberwar si combatte oggi con le 'armi di distruzione di massa digitale', ossia software che agiscono come virus ma hanno all'interno una sorta di 'intelligenza artificiale' che detiene le chiavi per entrare nei sistemi che intendono attaccare e sabotare. I test e le prove tecniche di tutti questi anni, stanno oggi trovando applicazione con una lenta ed inesorabile escalation, sino ad infiltrare le strutture più impenetrabili. Le società e le istituzioni vengono pian piano disseminate di problemi informatici, lenti e duraturi, che vanno a logorare il loro sistema interno, a controllare il traffico di informazioni e a rubare dati. Il nemico invisibile che abbiamo dinnanzi a noi non è certamente l'hacker che si maschera da 'Anonymous' e abbraccia una rivolta populista, bensì una macchina pensante creata da quelle stesse società che creano e vendono i propri software gestionali ad imprese e Governi. Se IBM, Siemes, Windows, Lotus realizzano il 90 per cento dei sistemi informativi utilizzati da Banche, Stati e Società, vuol dire che il cuore del potere di racchiude nelle loro mani, in quanto conserveranno sempre i codici sorgenti e le chiavi per poter entrare nei terminali e nei server dei loro 'clienti'. Non vi è oggi alcuna normativa statale efficace fino al punto da poter avere la totale certezza che i sistemi da loro ideati non verranno puntualmente violati dall'esterno da virus o hacker.

D'altro canto, sono venuti alla luce software invasivi (come lo stesso Stuxnet) il cui studio ha dimostrato che sono stati costruiti avendo a disposizione tutti i dati e le coordinate dei loro bersagli, lo spettro delle frequenze di connessione, la collocazione dei dati, i tempi di azione, insomma hanno all'interno l'intera mappa del sistema da colpire. Spesso hanno anche un programma-traccia in grado di occultare l'intrusione, facendo credere al server o al terminale che controlla gli accessi, che tutto procede nella totale normalità. Si può concludere che per elaborare questo avanzato tipo di virus, occorre avere una reale conoscenza del proprio obiettivo, che può essere sia diretta (dunque mediante la casa madre del software) che indiretta, mediante hackers che fungono così da capri espiatori. Di fatti tali sistemi necessitano di una continua manutensione e aggiornamento, di macchine ed elaboratori molto complesse ed inesistenti sul mercato, insomma di una struttura che può  essere mantenuta solo nell'ambito di progetti che vedono il coinvolgimento di società, politica e Governi.  Si pensi ora alla potenza deleteria di questi attacchi attuati contro centrali elettriche, dighe, sistemi radar, traffico aereo, catene di montaggio industriali, treni, banche e sistemi postali, insomma contro ogni tipo si sistema che utilizza un sistema informatico. Questi virus infatti sono generici, non hanno elementi specifici e non hanno bisogno di un particolare mezzo per bombardare, perchè si possono trasferire anche mediante apparecchi elettronici di uso comune, come notebook o pen-drive. Basta diffonderlo quanto più possibile, e una volta fatto diventa un'arma di distruzione di massa digitale. L'esposizione quindi diventa massima per i Paesi più tecnologicamente avanzati come Stati Uniti, Europa e Giappone. Se si restringe poi ancora di più la cerchia delle menti ingegneristiche di tale arma di distruzione, possiamo individuare anche un solo Paese in grado di possedere ed usare questa tecnologia, e sono proprio gli Stati Uniti.

Macchine dei messaggi. Non dimentichiamo che proprio in America ha origine il fenomeno WikiLeaks, presentatosi al pubblico come progetto della 'Intelligence del Popolo' che avrebbe fatto giustizia con il sabotaggio dei Governi. In realtà WikiLeaks ( da noi definita appunto 'macchina dei messaggi') non avrebbe mai potuto scatenare una guerra mediatica globale, orchestrando non solo il furto dei dati, ma anche la chirurgica scelta delle informazioni da pubblicare su media internazionali. Informazioni tra l'altro che non costituivano un 'segreto', bensì analisi di fonti aperte da parte di diplomatici, che tuttavia ottenevano l'effetto sperato nella manipolazione degli eventi. La natura del progetto di Assange viene rivelata nelle prime battute proprio dalla Etleboro, e dunque anche il suo  collegamento con la CIA e con la Fondazione Soros e che i nobili scopi di cui si fa promotore nascondono grandi mezzi autoritari. Partendo da un piccolo fondo per non destare sospetti, WikiLeaks diventa poi un progetto da 100 milioni di dollari, perchè le agenzie di intelligence contractor del Pentagono e della CIA sono ben note per le attività di riciclaggio di fondi neri, mantenendo così il rubinetto del Congresso sempre aperto. Così, accademici, dissidenti, aziende, imprenditori, spie, agenzie di intelligence di altre nazioni, interi paesi, vogliono far parte di questa enorme partita e cominciano a giocare. Tuttavia  la concorrenza è feroce e le accuse inevitabilmente scattano anche se lavorano insieme. La Cina già riceve da parte degli USA grandi fondi attraverso le attività umanitarie, come i Paesi ex sovietici, Africa e Sud Africa, ma anche Gran Bretagna, Europa, Medio Oriente e Corea.

Internet sicuro. I progetti informatici del tipo 'Internet Invisibile' o Anonymous servono così ad un duplice scopo. Da una parte si va ad alimentare quella sfera grigia delle intelligence, finanziando attività clandestine con la cooperazione di società private, che possono così prendere il controllo delle informazioni sensibili e usarle per proprie attività lobbistiche. Dall'altra parte, si crea uno stato di 'terrorismo cybernetico' controllato da programmi governativi, che hanno come scopo quello di sabotare i sistemi informatici di Stati (amici e nemici) e controllare così i propri alleati o avversari. Il protrarsi di questi attacchi porterà poi al conseguimento di un altro obiettivo, molto più profondo, ossia quello di far sorgere l'esigenza di un 'Internet sicuro certificato'. In altre parole, il loro scopo è quello di dare vita ad un'altra galassia di internet, in cui potranno accedere solo sistemi la cui sicurezza e non-pericolosità viene certificate da società ed entità specializzate. Sarà questo il mondo della cybernetica, dei database, di users e codici ID, un mondo fatto di usura invisibile, in cui la nostra identità a disintegrarsi nei circuiti informatici gestiti da multinazionali e da data-center.  L'usura si tradurrà invece nel valore che tutti dovremo pagare per accesso alla rete, per cui sarà quantificato in termini di dati che riusciremo a trasmettere o ad acquisire.  In alternativa gli Stati dovranno dotarsi di nuove leggi, di commissioni parlamentari di inchiesta, di un nuovo codice e di una forza di intervento che vada a sanzionare e bloccare ogni abuso o tentativo di effrazione. 

D'altro caso, Internet come lo conosciamo oggi è destinato a scomparire, e i segnali di cedimento sono visibili, e vanno dalla crisi dei socialnetwork al fallimento delle società di web-site, e dello stesso motore di ricerca una volta toccata la sua massima espansione. I sistemi centralizzati sono destinati alla crisi perchè distrutti dagli effetti della ridondanza, e dunque dagli scontri 'interni' creati dalla saturazione e dal caos nelle comunicazioni. Essi saranno sostituiti da sistemi basati su una struttura 'distributiva' e sulla condivisione delle informazioni.   Internet sarà quindi il veicolo della cosiddetta 'green economy', le banche e le telecomunicazioni diventeranno una cyberbank. Le banche centrali avranno invece il loro controvalore nella ricchezza energetica e nelle materie prime. L'energia elettrica da fonti rinnovabili sarà il nuovo petrolio, mentre le interconnessioni saranno le nuove pipelines.  E' in atto quindi una vera e propria trasformazione del sistema economico, e come sempre accade in questi momenti congiunturali, si scatena una guerra aperta per fissare i punti strategici della nostra ricchezza economica. Un'era non molto diversa da quella in cui Enrico Mattei decise di creare l'ENI per dare all'Italia energia a sufficienza per la propria ripresa economica, senza sottostare al dictat delle Sette sorelle. Allo stesso modo, oggi l'Italia vuole costruire un polo energetico basato proprio sull'Energia verde e sulle interconnessioni con i Paesi del Mediterraneo. Un progetto questo che avrebbe il duplice scopo di valorizzare il know-how  tecnologico italiano,  ma anche di garantire la ripresa dell'economia, che passa soprattutto attraverso le piccole e medie imprese. Ovviamente le lobbies petrolifere non vogliono l'indipendenza energetica dell'Italia, e hanno così attuato una strategia del sabotaggio, che passa attraverso la disinformazione nei media, la confusione con il sollevamento delle associazioni e dei movimenti popolari, gli attacchi informatici delle imprese. Anche la lotta Berlusconi-Gruppo de Benedetti è una schermaglia interna per le concessioni energetiche, in cui la politica c'entra ben poco, nonostante sia stata il campo di battaglia di tante guerre. La soluzione, infatti, sta proprio nel superare i circoli viziosi della politica, con la ricostruzione di un tessuto sociale di persone che fanno gli interessi dello Stato. La reazione all'offensiva, per essere efficace, deve essere rapida e devi tradursi nel ricompattamento delle intelligenze italiane e delle aziende produttrici e veicoli di conoscenze. La risposta deve essere invece decisa e mirata, anche attraverso atti dimostrativi contro ONG, media e personaggi che fomentano la campagna denigratoria contro l'Italia. Quanto più veloci saremo, tanto più avremo difeso la nostra sovranità ed integrità territoriale. 

Michele Altamura 
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giovedì 23 giugno 2011

Napoli: la rappresaglia del Pdl

di Alessandro Iacuelli
Una pesante rappresaglia. Di questo si tratta. Perché il “fortino” di Napoli ha resistito alla calata dell'orda elettorale del PDL, che in Campania ha preso Regione, Provincia di Napoli e diversi comuni, ma è mancato il capoluogo per fare il cappotto. Altro che “emergenza rifiuti”, o incapacità del Comune o dell'Asia a ripulire la città. I rifiuti a terra in questo momento sono da rimuovere, ad ogni costo, e subito. Intanto si può ragionare su piani più sensati sulla lunga distanza temporale. Ma come risolvere il problema dell'accumulo di RSU nelle strade di Napoli adesso?
La soluzione era stata trovata, con un accordo fra Prefettura, Regione, Provincia e Comune. Soluzione che avrebbe consentito di liberare Napoli dai rifiuti in 5 giorni, tramite la realizzazione di un sito di trasferimento collocato nella stessa Napoli. A questo punto è scattata la rappresaglia politica dei perdenti. Questa soluzione è naufragata, ed anche in modo poco trasparente e degno degli anni più bui della storia.
Tanto per cominciare, durante la raccolta dei rifiuti nella zona del centro storico cittadino, sono avvenuti alcuni fatti inquietanti che hanno impedito la raccolta dei rifiuti e che sono stati già segnalati alle forze dell’ordine. Come già avvenne all'inizio del 2004, e poi in altre occasioni, si è resa necessaria la vigilanza da parte della polizia verso i mezzi di raccolta. E non è certo per fatti di camorra. Semmai, per la vendetta del sistema politico-affaristico che da sempre lucra sui rifiuti solidi urbani.
La rappresaglia di chi voleva mettere le mani sull'affare di Napoli è cominciata con i dipendenti delle società che, in subappalto, gestiscono la raccolta in alcuni quartieri città. Fomentati nel modo giusto, spaventati dall'ipotesi di perdere il posto di lavoro e lo stipendio, di notte hanno impedito fisicamente la raccolta, e non certo con le buone maniere. Poi c'è l'aspetto politico. Che stavolta ha un solo colore: l'azzurro.
Non solo perché in una delle società che gestiscono la raccolta è impegnato finanziariamente un ex consigliere provinciale di Forza Italia, recentemente arrestato, ma soprattutto grazie all'opera di intralcio al nuovo piano rifiuti comunale messo in opera dal Presidente della Giunta Provinciale, Luigi Cesaro. Suo il compito, da molti mesi, di individuare il luogo dove depositare gli RSU di Napoli: non l’ha fatto. L'ha fatto invece, guarda caso, per tutti i comuni che hanno il PDL in giunta e non per gli altri.
Le tonnellate di rifiuti in più dovevano essere destinate, secondo accordi precedenti, ad altre Regioni. Pertanto fa parte della stessa rappresaglia il “veto” marcato Calderoli sull'invio di monnezza napoletana in territori esterni. Fa parte tutto dello stesso piano, marcato probabilmente Silvio Berlusconi, che all'indomani del risultato del ballottaggio napoletano aveva subito lanciato l'anatema sui napoletani, giurando di farla pagare cara. Lo sta facendo.
E' facile immaginare quanto sia fragile un sistema di rifiuti integrato. Integrato nel senso che non è controllato da una sola istituzione. Al comune spetta la raccolta dai cassonetti, ma la gestione del trasporto e dello stoccaggio, a norma di legge, è nelle mani della Provincia. Poi, spetta alla Regione decidere dove sversarli. E la Regione trova sempre dove sversare i rifiuti dei comuni guidati dal centro-destra, ma per Napoli, puntualmente, il posto non si trova. Se il posto non si trova, i camion dell'ASIA e delle società che lavorano per l'ASIA restano pieni, e il giorno dopo non possono effettuare una nuova raccolta. E il gioco della rappresaglia è fatto.
Siamo ormai oltre le 2600 tonnellate rimaste a terra, nelle strade, a ostruire passaggi. Ma il senso di responsabilità manca e si prosegue nel gioco politico del voler minare la nuova giunta comunale. Sulla pelle della gente.
Il gioco allo sfascio non termina qui. Nei giorni scorsi, è apparso su Youtube un video amatoriale in cui si vede un camion della raccolta rifiuti che, invece di raccoglierli, li spinge da un lato e addirittura riversa in strada il contenuto dei cassonetti accanto. Il video ha fatto il giro della rete, con didascalie tipo “Ecco l'ASIA come raccoglie i rifiuti”. Peccato che il camion sia della società cooperativa Lavajet, che lavora in subappalto per l'ASIA. Il presidente di Lavajet è Giancarlo Vedeo, dirigente provinciale del PDL a Savona.
Il piano di rappresaglia è chiaro: forzare la mano per giungere ad una nuova soluzione di commissariamento straordinario del ciclo dei rifiuti a Napoli e provincia. In tal modo, attraverso la Protezione Civile che risponde direttamente alla Presidenza del Consiglio, l'affare lucroso della monnezza napoletana tornerebbe “nelle mani giuste”, eliminando dai giochi una giunta comunale di un altro colore, che si oppone all'inceneritore che si vorrebbe costruire a Ponticelli, sulla cui costruzione sono pronti a metterci le mani gli imprenditori amici del cuore di quel Calderoli che blocca il decreto sull'esportazione extraregionale. E il cerchio si chiude.
Al momento di scrivere, è stato convocato un altro tavolo presso la Prefettura di Napoli, presenti il presidente della Giunta Stefano Caldoro, con l’assessore all’Ambiente Giovanni Romano, il vicesindaco di Napoli Tommaso Sodano, l’assessore all’Ambiente della Provincia Giacomo Caliendo e rappresentanti di altre province campane. L'accordo raggiunto è che Napoli potrà portare i rifiuti in altre province della stessa Campania.
Potrebbe funzionare, sulla breve durata ovviamente, se non che nel frattempo sono entrati in agitazione proprio i lavoratori di Lavajet, per cui anche per oggi c'è il rischio che i rifiuti non possano neanche essere raccolti, anche facendo fare gli straordinari a uomini e mezzi dell'ASIA. Quando poi Lavajet riprenderà a lavorare, allora assisteremo al prossimo bastone tra le ruote. Marcato ancora una volta PDL.
fonte

lunedì 20 giugno 2011

La Valle dei Lupi Palestina

il film che in Italia nonè ancora arrivato,se mai arriverà...
Recensione:
http://video.google.com/videoplay?docid=992318277189482001#
 film in streaming con sottotitoli in inglese 
http://www.youtube.com/watch?v=ovnhXDNH4rw&feature=player_embedded#at=958





venerdì 17 giugno 2011

Una Fantastica Foto


Questa foto scattata durante i disordini di Vancouver credo non lasci perplesso solo me,più che una foto eccezzionale è un libro aperto che si può leggere in infinite e distinte maniere,si possono trovare implicazioni sociologiche,fisiologiche,economiche,chimiche,estetiche  e pure metereologiche ;-)
Il dibattito è aperto per chi vuole dire la sua...

martedì 14 giugno 2011

Come educare alla salvezza del Pianeta

::: Alexander Kovriga :::: 13 giugno, 2011 

Consulente per lo sviluppo dei sistemi pubblici e privati. Ph.D. in Economia, Master di formazione top manager (UC Berkeley, Stanford, Texas-Arlington, Lancaster, Aix-Marseille-III, Londra). Ex-capo della istruzione e della scienza, il Segretariato presidenziale (2005-2008). Capo del forum internazionali, analisi di sistemi di gioco e la progettazione dello sviluppo regionale e aziendale. Reporter VI-esima sessione annuale della World Public Forum "Dialogue of Civilizations" (ottobre 2008, o.Rodos).
Dall’Universitas alla Noosfera

Dall’Universitas alla Noosfera
Come educare alla salvezza del Pianeta

(Chi è responsabile di ciò che sta accadendo al nostro Pianeta?
Riflessioni sulla Missione dell’Università nel 21esimo Secolo)

Dott. Alexander Kovriga
(Università Nazionale “V. Karazin”, Ucraina)
Conferenza Pubblica Internazionale presso
Università di Rhode Island, 27 Aprile 2011


Buon pomeriggio a tutti!
Sono molto onorato di essere qui e apprezzo tutti gli sforzi fatti per rendere possibile questo evento.
Voglio ringraziare in particolar modo il Rettorato, il Decano di Arti e Scienze, l’URI Honors Program e il dipartimento di Scienze Politiche per la cortese assistenza nella preparazione di questo incontro presso il vostro bel campus.
Capisco che le previsioni e speculazioni sul futuro costituiscano attività intellettualmente deprecabili. E che nel cercare di parlare del futuro dell’università, nel Paese che ne ospita tante (buone e all’avanguardia) quante il resto del mondo messo assieme, il rischio per me è molto alto.
Ma mi preoccupa che, in un mondo sempre più complesso ed interconnesso, coloro che possono alleviare le nostre paure su ciò che ci riserva il futuro, siano come l’orbo nel regno dei ciechi. Non vedranno molto bene, ma sapranno vedere come fare profitto.    
Direi che questi costituiscono, di fatto, tentativi di privatizzazione del futuro, di sfruttamento per tornaconto personale. Qualcuno potrebbe chiamarlo “saccheggio del futuro”. Nelle scienze sociali la manipolazione della nostra percezione del futuro serve finanche come strategia – un tentativo di prevedere ed assicurare la vittoria di specifiche visioni del mondo.
Spero di convincervi oggi che uno scopo basilare dell’università dovrebbe essere quello di contrastare simili tentativi di privatizzazione del futuro.
Apprezzo molto il motto della vostra università: Pensa in Grande – Noi lo Facciamo.
Nello spirito di questo motto vi dico che, soprattutto oggi che ogni problema regionale ha implicazioni globali,  il pensiero aperto e critico sulla natura e lo scopo dell’università è assolutamente essenziale.

L’Università, come istituzione cardine della civiltà, è sopravvissuta per molto secoli. Ma adesso l’intera struttura dell’educazione superiore, le modalità di trasferimento della cultura, i nostri schemi di pensiero, riflessione e creatività stanno mutando rapidamente.
E’ nostra responsabilità parlare ed agire in difesa del ruolo dell’Università nella società, e riorientarla per fronteggiare le sfide attuali e contribuire alla salvezza e allo sviluppo dell’intero genere umano.
Perché questo tema è così importante adesso? Perché il mondo intero è in una fase di transizione e il Futuro del Pianeta dipende dall’azione delle comunità universitarie e dal loro sviluppo.
Le università sono sempre state incubatrici naturali del futuro, centri per la creazione di nuove conoscenze e abilità, e per la disseminazione di nuove visioni del mondo.
Le catastrofi causate dall’uomo agli inizi del 21esimo secolo ci mostrano che i vecchi paradigmi sull’andamento del globo non sono solo irrimediabilmente superati, ma possono condurci ad una catastrofe(1).
Perché il genere umano si ritrova continuamente coinvolto in situazioni inaspettate con l’affacciarsi continuo di nuove minacce nucleari, demografiche, finanziarie, politiche, legate allo sviluppo, etc.?
A seguito di ogni nuova crisi, vengono fatti enormi sforzi per neutralizzare simili minacce, ma ciò non garantisce che le successive verranno affrontate con successo. Chernobyl; uragano Katrina; crisi finanziaria globale; fuoriuscita di petrolio nel Golfo; Fukushima: perché tutto procede in questo modo?
Perché il Genere Umano non è libero come dovrebbe nel definire il proprio percorso di sviluppo.
Molti degli strumenti tradizionali che incoraggiavano l’autoriflessione ed una ponderata ricerca per uno sviluppo futuro sensato sono stati distrutti, o sono semplicemente “passati di moda”.
Abbiamo limitato la nostra stessa libertà di scelta permettendo a noi stessi di diventare schiavi di stereotipi e di ingenue ideologie, la più grande delle quali è la supremazia del mercato.
Come risultato, la comunità globale è ovunque incapace di comprendere il suo potenziale. Non si assume la responsabilità delle proprie azioni.
Non ammette la propria responsabilità sull’ambiente.
Ir-responsabilità e assenza di obiettività hanno infettato a tutti i livelli le istituzioni, gli stati, le imprese e, ovviamente, i media, e questa è diventata la ragione principale per la quale restiamo sempre indietro nel rispondere a nuove minacce causate dall’uomo che, scientificamente parlando, sono interamente prevedibili.
Sappiamo, è un’inevitabilità statistica, che le centrali nucleari sono soggette a incidenti, ma nessuno di fatto ne risulta responsabile quando ciò accade. Sappiamo che le epidemie devasteranno il pianeta, ma non è predisposto alcun meccanismo di prevenzione al riguardo. Sappiamo che i mercati crollano periodicamente, ma quando collassano tutti paiono sorpresi e nessuno sa cosa fare.
Ovviamente, ognuno è chiamato in causa per la sopravvivenza del pianeta, e tuttavia non esiste ancora un corso di laurea chiamato “Assunzione di rischio e responsabilità per la sopravvivenza del Pianeta”.
Lo sviluppo di una simile disciplina nelle nostre università necessita apparentemente di una rappresentazione molto più complessa dei cicli di lungo termine delle società [e civiltà] rispetto a quelle che siamo al momento capaci di produrre.
Il Genere Umano può ora restare intrappolato in forze così complesse e potenti da superare le proprie capacità di controllo sulle stesse.  Restando prive di controllo, queste ci minacciano con l’estinzione. La teoria della selezione naturale, che è stata così influente nel formare la nostra visione del mondo in settori che spaziano dall’economia alle relazioni internazionali, è divenuta essa stessa fonte di pericolo per la specie.
Nel mondo mediatico attuale è certamente facile limitarsi a disseminare informazioni, ma  cambiamenti basilari nelle visioni del mondo, la creazione di nuove categorie del sapere, la riproduzione e la preparazione delle nuove generazioni nel mettere a frutto tale conoscenza, dipendono ancora dall’Università.
Così si pongono davvero le basi per la sopravvivenza del Genere Umano.

Ho trovato un unico aspetto positivo in questa crisi.
La prima volta è stata quando il paese nel quale vivevo – l’URSS – si è dissolto, e molti nuovi paesi – Ucraina inclusa – sorsero al suo posto. Come effetto immediato di questi eventi, ho avuto la possibilità di viaggiare per l’Europa e gli Stati Uniti e partecipare ad un certo numero di programmi di alto livello di pianificazione strategica e di management. Infine, lavorando come consigliere per l’istruzione con il precedente presidente d’Ucraina, mi venne affidato il compito di tentare di elaborare un nuovo sistema nazionale di istruzione.
Sono sempre stato uno studente brillante, fino a che non ho cominciato a pormi delle domande. Ho studiato architettura e pianificazione urbana, credendo ingenuamente che gli architetti avessero le capacità sufficienti a creare nuove città e, con esse, una migliore qualità della vita.
Insoddisfatto, al termine di quattro anni di studio, mi recai a Mosca per un incontro con i più grandi professionisti della pianificazione urbana. Qui, presso l’Istituto Centrale di Scienza e Design per Pianificazione Urbana, ho collaborato alla progettazione di una nuova Tractor City per 500.000 persone. Questo esercizio futile mi ha insegnato che è impossibile prevedere con la minima certezza scientifica tutte le ramificazioni delle grandi scelte strategiche e di investimento che ci veniva chiesto di effettuare. Ciò mi ha portato a ripensare totalmente il mio approccio e a considerare se come specie possiamo davvero essere capaci di affrontare il nostro futuro affidandoci esclusivamente alla conoscenza quantitativa e all’esperienza tecnica.
Agli inizi degli anni ’80, presi parte ad un gruppo radicale di intellettuali alla ricerca di nuovi modelli di politica sociale. Per tutto il decennio abbiamo tenuto più di 100 incontri di durata settimanale affrontando complesse problematiche nei maggiori centri intellettuali del Paese.
La perestroika doveva giungere dopo diversi anni, ma le nostre ambizioni erano già molto più grandi. Ci siamo posti come obiettivo la preparazione di un nuovo tipo di specialista – qualcuno in grado di portare nuove tecnologie e progressi socio-economici.
27 anni fa ciò era chiamato, in gergo burocratico, “Programma per l’Intensificazione di Attività Innovative e l’Accelerazione del Progresso Scientifico e Tecnico” (2).
Oggi, in America, credo venga chiamato “conquistare il futuro” [шутка].
Allora, il Ministro dell’Istruzione dell’URSS scelse 4 università – Mosca, Minsk, Riga e Kharkov –  per preparare specialisti nella sfida verso la trasformazione del Paese. Dopo aver completato il mio dottorato nel 1985, fui mandato a Kharkov per dirigere il progetto.
Avevamo carta bianca per costruire un sistema (non sovietico) di formazione manageriale partendo dal nulla. Abbiamo eliminato le discipline tradizionali e pensato invece esclusivamente tramite case-studies e simulazioni di crisi reali. La tesi di laurea prevedeva proposte di risoluzione per simili crisi.
Sebbene ricevessimo ottimi riscontri dal Ministero dell’Istruzione, non appena le riforme neo-liberali si affermarono nel mio Paese, tutti i fondi per progetti sperimentali cessarono e la maggior parte dei nostri laureati emigrò da Mosca verso l’Occidente.
Questa esperienza mi ha insegnato che, affinché le innovazioni nel campo dell’istruzione abbiano successo, devono includere una sfera di  applicazione pratica. E, per riuscire in  simile sperimentazione, è necessario ricevere incoraggiamento e supporto di lungo termine.
Successivamente sono stato nominato responsabile del Dipartimento di Scienze e Istruzione per il Presidente d’Ucraina, appena dopo la “Rivoluzione Arancione” del 2004.
Avevo proposto iniziative tese a rafforzare il ruolo della cultura e delle discipline umanistiche ad ogni livello curriculare, per creare ciò che ho chiamato “Una Nazione di Apprendimento”. Ho incontrato un discreto successo, ma questo venne frustrato dal fatto che ogni iniziativa veniva adesso valutata anzitutto con il criterio del profitto.
Costruire una politica di istruzione sovrana, autenticamente nazionale, è oggi pressoché impossibile per un paese povero. Durante il mio incarico presso la Presidenza, gli attori principali del sistema di istruzione ucraino erano la Banca Mondiale e l’Open Society Institute di George Soros. Ciascuno aveva la propria agenda e l’identità ucraina, nonché il ruolo che l’università poteva giocare nella costruzione della stessa, non erano ivi contemplati.
Ho avuto una bella lezione sull’interdipendenza dei mercati globali durante i miei tre anni nell’amministrazione presidenziale.
Ma senza una visione di strategie di lungo termine e di obiettivi specifici per l’Ucraina, qual è il senso della politica nazionale? Qual è il senso dello stesso esistere di una nazione?

Ed arriviamo così allo scopo dell’Università.
A seguito del collasso economico globale, si è diffuso il luogo comune per il quale staremmo vivendo una profonda crisi. A mio parere, in verità, l’ultima crisi finanziaria è nient’altro che conseguenza di una crisi della civiltà occidentale che sta andando avanti da lungo tempo.
Tale crisi di lungo termine richiede una nuova concezione dell’università e della formazione universitaria che ci conduca oltre i limiti del progetto illuminista di modernità, il quale ha promosso un unico modello di sviluppo umano, e che ha avuto luogo nella propaggine nord-occidentale dell’Eurasia, a scapito di ogni altra storia ed esperienza umana.
Il superamento della crisi interna alla civiltà occidentale è dunque inestricabilmente legato al trascendimento della “fine della storia” (cit.) e dello “scontro di civiltà” (cit.), sostituendo quest’ultimo con una meno netta  concezione della storia e della civiltà globale ed anche del nostro ruolo, più modesto, nelle stesse. Ciò richiederà una modalità qualitativamente nuova di apprendimento, che ambisca a preservare, più che alterare, i valori fondamentali delle civiltà diverse dalla nostra.
Il mio stesso punto di partenza è nell’opera del grande accademico russo-ucraino Vladimir Vernadsky, il quale è noto in Occidente soprattutto per aver introdotto il termine “biosfera”. Secondo Vernadsky, la consapevolezza umana dell’interconnessione della geosfera, e quindi della biosfera, potrebbero finalmente condurre il genere umano ad una consapevolezza dell’interconnessione dell’intero patrimonio cognitivo umano, al quale lui si riferiva con il termine noosfera.
Se pensiamo allo sviluppo del nostro pianeta come a quello di un singolo organismo, come Vernadsky ci incoraggia a fare, le Università assumono non solo la funzione di cervello, ma anche di sistema circolatorio per l’organismo. Esse sviluppano il sapere fondamentale che deve essere distribuito attraverso specifiche organizzazioni sociali e commerciali.
Nel mondo attuale le Università sono le sole organizzazioni a godere di sufficiente autonomia dalle istituzioni politiche ed economiche dominanti e ciò permette loro di considerare nuovi modelli di organizzazione industriale e socio-culturale, nuovi sistemi di produzione e tipologie istituzionali, e nuove modalità di impiego nella prospettiva dell’interesse di lungo termine della razza umana, più che non di quello del bilancio trimestrale o della prossima tornata elettorale.
Vernadsky ha anticipato che la Noosfera potrebbe infine emergere come una forza creatrice capace di agire su scala planetaria. Al riguardo potete seguirne lo sviluppo sul sito web del “Progetto di Coscienza Globale” curato dal professore Roger Nelson da Princeton. [http://noosphere.princeton.edu/]
Implicitamente, tuttavia, si è dibattuto a lungo, in una scuola di filosofia russa conosciuta come cosmismo, che se il genere umano è forza creatrice dell’universo, allora ciò avrà sicuramente implicazioni anche al di là del nostro pianeta.
Essi ritengono che, affinché la specie umana sopravviva, deve estendere le sue forze creatrici per tutto il sistema solare e oltre, ottenendo così l’equivalente funzionale dell’immortalità (3).
O, come diceva in maniera più poetica il filosofo russo Evald Ilienkov: “Lo scopo dell’Umanità è accendere un altro Sole nell’Universo”.
Per impedire la morte del pianeta terra, l’umanità deve abbracciare il suo potenziale di attore cosmico ed aspirare a tutti i nuovi tipi di sapere che ciò richiederà.
Tuttavia, la sfida più immediata è formulare sapere in modalità che ci permettano di comprendere l’interdipendenza del nostro pianeta concepito come un tutt’uno, ed il co-sviluppo di tutte le specie che ci vivono. Questa è la fondamentale precondizione per l’affermarsi della noosfera.
Come sarebbe una simile educazione all’Umanità Cosmica?
Anzitutto, dovrebbe essere in grado di tramandare alle future generazioni il corpus di idee, conoscenze e rappresentazioni che fungono da base per il nostro benessere materiale e spirituale.
Dopodiché, dev’essere designato all’espansione della capacità umana di auto-trasformazione – individuale, sociale, istituzionale e tecnologica. Una formazione crea “capitale umano” solo se supera i modelli esistenti di attività e produzione, senza limitarsi a riprodurre “ciò che funziona”.
Inoltre, essendo una delle grandi istituzioni permanenti dell’umanità, l’università non deve mai dimenticare che la sua vera vocazione è focalizzarsi sulle questioni ultime dell’esistenza umana, non riducendosi a centri d’addestramento per competenze effimere.
Ciò richiederà alcune rivalutazioni e reintegrazioni del patrimonio umano in un contesto globale di educazione, e uno sforzo concertato per rompere le barriere disciplinari e le strutture dipartimentali che bloccano le nostre capacità dal formulare le grandi idee che il Genere Umano necessita.
Una idea di questo tipo che recentemente è emersa nel regno delle relazioni internazionali è il Dialogo delle Civiltà.
Politicamente, dal Trattato di Westfalia, le nazioni sono esistite come contenitori separati, nonostante i loro contenuti culturali, linguistici, religiosi e di altro tipo spesso fuoriuscissero. E’ chiaro adesso che nel mondo attuale dovremmo concentrarci più sulle fuoriuscite che sui contenitori.
Ciò richiederà nuove forme di comprensione culturale e di apprendimento. Come risultato, il progetto di dialogo delle civiltà è stato formulato dal filosofo austriaco Hans Koechler e successivamente promosso da molto leader mondiali e adottato alla 59esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2005.
Dalla prospettiva dello sviluppo della noosfera, il dialogo fra civiltà conduce ad una possibilità di unificazione delle diverse comunità nel perseguimento di comuni obiettivi globali.

Infine, un’altra importante componente dello sviluppo della Noosfera è il ripensamento della funzione dei mercati nell’istruzione.
L’inizio del 21esimo secolo è caratterizzato da crescenti tentativi di privatizzazione di beni tradizionalmente pubblici, come l’istruzione. E’ ormai un luogo comune il considerare l’istruzione semplicemente un bene di mercato come altri.
In quest’ottica, gli accademici commerciano la loro eredità illuminista, promuovendosi come guardiani e creatori di sapere prodotto per il bene superiore dell’umanità. Essi promuovono il libero scambio di idee in una società democratica e dichiarano di lavorare per proteggere la libertà di pensiero, inclusa quella di dissentire dall’ortodossia prevalente. Ma, da una prospettiva neo-liberale, è difficile vedere una diretta correlazione fra i benefici dell’istruzione e quelli del mercato perché quattro anni di università formano un individuo con un sapere molto maggiore di quello richiesto per un lavoro. In termini di mercato ciò è stato criticato in quanto “spreco”, ma non lo è affatto – è potenziale inutilizzato.
Noi dovremo trasformare questo potenziale inutilizzato in qualcosa di più socialmente dinamico. Il sapere così acquisito, ma non utilizzato nel luogo di lavoro, deve ottenere uno sbocco creativo, così da diventare risorsa di nuove brecce scientifiche e culturali.
Attualmente, quando gli studenti lasciano l’università per ingrossare le fila dei lavoratori, tendono a considerare questo primo periodo come separato dal resto della loro vita. Invece di lasciare che la loro creatività produttiva venga dissipata nella vita adulta, dobbiamo trovare uno sbocco per la sua collocazione più naturale e recettiva, dove lo sprazzo della loro curiosità intellettuale era inizialmente  acceso, nella madre delle loro anime: la loro alma mater.
Paradossalmente, mentre i mercati riducono l’offerta universitaria a quei soli corsi di studio che “fanno profitto” (cit.) e solo le competenze lì conferite sono “pratiche” (cit.), essi finiscono per ridurre la complessità intellettuale e impediscono all’Università di servire come luogo di sviluppo per soluzioni creative a problemi sociali.

In conclusione, la crisi globale attuale richiede un approccio radicalmente nuovo al sapere e una concezione radicalmente diversa dell’Università.
Per salvare l’unicità e la complessità della natura, abbiamo bisogno di saperne di più del Mondo nella sua totalità – decisamente agli antipodi rispetto all’approccio attuale su contenitori intellettuali altamente specializzati e segregati. Come accademico, Yulii Khariton, (4) uno dei fondatori del programma di energia atomica sovietico, dichiara: “Dovremmo conoscere dieci volte di più e solo dopo agire”.
Forse il rappresentarsi un simile compito come una missione di soccorso globale, una nuova e pratica Scienza di Preservazione Umana potrebbe infine rimpiazzare la superata e finanche autodistruttiva Scienza Prometeica dell’Illuminismo.
Una simile Scienza di Preservazione Umana potrebbe formulare la visione di una tensione umana non centrata sulle singole funzioni – economica, artistica, intellettuale  – ma che abbia invece al centro l’armonia e l’equilibrio fra le componenti dell’esistenza umana. Dovrebbe servire come base per un “dialogo” attivo delle scienze naturali, umane e sociali, fornendo nuove visioni del mondo per la creazione della Noosfera.
Nell’antica Grecia, la parola “crisi” si riferisce alla rottura di legami.
Non è qualcosa da temere ma piuttosto da prevedere. Non tutte le generazioni ricevono simile opportunità. La scarsa lungimiranza è stato un male comune del genere umano in tutte le epoche ma, a causa della tecnologia e della globalizzazione, essa non è mai stata così pericolosa. Credo che l’Università dovrebbe abbracciare la sua vocazione storica e diventare ancora una volta il punto focale per la costruzione di una nuova ontologia, che superi le barriere disciplinari: superare le costrizioni intellettuali del paradigma neo-liberale e l’egocentrismo tipico del razionalismo post-illuminista.
Forse, come incubatrice di una Nuova Antropologia Salvifica Globale essa ci insegnerà come controllare gli strumenti sviluppati dalla scienza per il bene comune. Lo sviluppo sociale comune è in continua espansione e l’intero Universo è lo spazio per la sua implementazione.
Molte grazie per la vostra attenzione.

1)        Come sappiamo grazie agli studi dell’autorevole professore canadese di pianificazione urbana William Rees (Università della British Columbia), per mantenere il livello di consumi dell’uomo medio occidentale sono richiesti dai quattro ai sei ettari di terra produttiva. E nel mondo le terre fertili possono soddisfare solo da 1,4 a 1,7 miliardi di persone. Ciò significa che qualcuno sta pagando per questo livello di consumi – altre nazioni o le prossime generazioni.
2)        Oggi parliamo di nuove frontiere per gli sviluppi industriali e tecnologici, vertenti sul sapere economico, su tecnologie innovative ed efficienti. Tutte queste tematiche sono state già discusse e certi pratici obiettivi formulati. Cosa è successo a loro e in quale grado costituivano fantasmi ed utopie troppo lontane dalla realtà – è la domanda cruciale.
3)        L’esistenza della vita sulla terra è vista come anti-entropica, come progresso della cultura umana verso maggiore ordine e complessità. Alcuni hanno persino teorizzato che il fine ultimo del Genere Umano in questo universo sia quello di invertire l’entropia, una nozione resa celebre nell’opera di Isaac Asimov “The Last Question” e in quella di Arthur C. Clarke “The 9 Billion Names of God”, entrambe considerate fra le dieci migliori opere di fantascienza di tutti i tempi.
4)        Inventore della bomba termo-nucleare.

Traduzione di Giacomo Guarini

fonte 

L’arresto del generale Mladić

Intervista a Yves Bataille 

Geostrategie.com – Il generale Ratko Mladić è stato arrestato nei pressi di Belgrado. Cosa cambierà ora per la Serbia?
Yves Bataille – I Sanhedrin di La Haye avranno un nuovo ospite, ovviamente serbo. Il rituale dell’arresto e della liberazione degli esponenti della resistenza serba è arrivato a una conclusione. Il vecchio capo di stato maggiore dell’Armata della Repubblica Srpska, il generale Ratko Mladić, è l’ultima grande figura ricercata dalla “giustizia internazionale”. Il governo attuale della Serbia, che è stato rimproverato di non aver fatto abbastanza per fermare il generale Mladić, riceverà un buon incentivo dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti ma sarà ancora più esecrato dai Serbi. Ciò rafforzerà il punto di vista di quelli che considerano il governo di Boris Tadić un governo di traditori.
G – Sono stati lanciati degli appelli a scendere in strada. Ci saranno delle manifestazioni?
YB – Nel momento in cui vi parlo sono già incominciate. Bisognerà fare attenzione ai prossimi quindici giorni, perché questi avvenimenti, congiunti ad altri, potranno far scendere in strada un cordone di protesta senza precedenti.
La dichiarazione dell’”indipendenza” del Kosovo ha provocato delle manifestazioni di massa nelle strade. Ci ricordiamo che è stato dato fuoco all’ambasciata americana e ai McDonald’s. Quando l’UE ha voluto imporre il suo “Gay Pride”, migliaia di giovani serbi sono scesi in strada e hanno affrontato con determinazione la polizia ed i gendarmi. Oggi quattro elementi si congiungono per stimolare nuove manifestazioni: quello dell’anniversario dei 78 giorni di bombardamenti NATO contro la Repubblica Federale di Yugoslavia (RFY) del 1999, quello dei bombardamenti della NATO contro la Libia, l’annuncio di una riunione generale (nuovamente a Lisbona) della NATO a Belgrado il 13, 14 e 15 giugno, e infine l’arresto del generale Mladić. Tutti quanti fattori politici e emozionali in grado di alimentare una contestazione politica radicale. In seguito ai bombardamenti e all’annuncio della riunione della NATO, la Serbia era già seduta su una polveriera. L’incarcerazione del generale Mladić è un fattore che aggrava il rischio. Il governo lo sa, e perciò ha rafforzato le misure di sicurezza davanti al Parlamento, alla radio, alla televisione e alle ambasciate occidentali.
G – Lei è molto impegnato nell’azione di sostegno alla Serbia. Che cosa intende per “cordone di protesta senza precedenti” e “assisteremo a nuovi sconvolgimenti”?
YB – La piazza pubblica e la strada sono oggigiorno il terreno privilegiato di un’azione, ma di un’azione marcata dalla novità dell’utilizzo di risorse sociali come Internet, Facebook e Twitter, armi del nemico che si sono rivoltate contro di lui. Il gruppo di Facebook “Support for Muammar Gaddafi from the people of Serbia”, che ha superato i 70.000 iscritti, ha già fatto scendere in strada migliaia di manifestanti. Si sta creando una coscienza. I più lucidi dicono che non è più opportuno negoziare l’avversione, ma la si deve inquadrare. Le manifestazioni che non ne hanno prodotte altre sono prive d’interesse. Conviene infierire colpi al regime e per questo è necessario rispondere a una coordinazione, l’unità alla base e all’interno dell’azione contro il regime e contro il Sistema. La situazione sembra matura per applicare la famosa dinamica azione-repressione-nuova azione. La repressione promessa da un governo che ha affermato di non sopportare i disordini provocati porterà a nuove manifestazioni. Alcuni dicono che non ci si deve comportare come dopo l’attacco dell’ambasciata americana, cioè fermarsi. Al contrario questa volta si dovrà andare avanti e ancora avanti, fino allo scontro finale, fino alla rottura. Slobodan Homen, il commissario politico dell’ambasciata americana al governo ha capito che si moltiplicano le minacce contro i nazionalisti. Homen è un vecchio membro di OTPOR, il gruppo studentesco di opposizione a Slobodan Milosević creato dalla CIA.
Le prime manifestazioni hanno avuto luogo dopo l’annuncio dell’arresto del generale Mladić. A Belgrado la polizia ha disperso dei gruppi che convergevano verso Piazza della Repubblica, luogo abituale delle proteste. A Novi Sad si sono creati degli scontri tra un migliaio di manifestanti guidati dai nazionalisti di Obraz e dal 1389 e la polizia.
G – Come si può associare il sostegno alla Libia con quello al generale Mladić?
YB – Ci si può stupire per la mobilitazione serba per la Libia, ma vi è una spiegazione. I Serbi non hanno dimenticato l’aggressione al loro paese. È per questo che si mostrano solidali a una Libia attaccata dagli stessi nemici e con i medesimi procedimenti. Come ha detto uno psicologo, dal 19 marzo i Serbi si sono identificati con gli aggrediti. C’è anche un altro fattore che si conosce meno a Parigi, e cioè gli antichi legami tra i due paesi. La Serbia mantiene l’eredità di una relazione instauratasi pochi anni fa nel quadro del Movimento dei Paesi non-allineati (MNA). Nel 1999 la Libia di Gheddafi ha sostenuto i Serbi e in seguito si è rifiutata di riconoscere l’”indipendenza” del Kosovo.
Sulla Libia, sulla NATO, sull’Europa di Bruxelles, tutti gli autentici movimenti nazionalisti e socialisti sono sulla stessa lunghezza d’onda. Questa univoca opposizione ha portato alla convergenza di forze che, in altri paesi, sono concorrenti o antagoniste. È una specificità serba. Lì un socialista internazionale sarà sempre più vicino a un nazionalista che a un liberale atlantista. La scissione non è tra una destra e una sinistra ma tra i difensori del popolo e della nazione e i collaboratori dell’Occidente (Stati Uniti, Unione Europea, NATO etc.). Inoltre il campo della politica è stato incredibilmente scosso. Si allontana dal Parlamento giorno dopo giorno, il che non impedisce ad alcuni gruppi nazionalisti di raccogliere firme per entrarvici. Sono nati dei sindacati rivendicativi, il numero di associazioni culturali e studentesche aumenta come quello di gruppi patriotici, che formano il sottobosco di un movimento più vasto.
Il Movimento extra-parlamentare si pone come portavoce del popolo e della nazione contro il regime collaborazionista di Boris Tadić. I membri del governo sono visti come traditori imposti dal nemico e che agiscono contro il paese. Alle elezioni del 2008 i socialisti dell’SPS hanno salvato Tadić sostenendo il governo, ed è stata organizzata una scissione all’interno del Partito radicale serbo (SRS) per indebolirlo. Quest’ultimo si è infine rinforzato con la scomparsa di scena degli elementi che stavano alla base di tale scissione (Nikolićt, Vucić) e degli ex scissionisti e non dei minoritari, come il generale Božidar Delić, i quali hanno poi rinforzato i ranghi dell’SRS.
Il generale Mladić è presentato in Occidente come un “criminale di guerra”, colui che ha assassinato 8.000 musulmani bosniaci a Srebrenica. Ci fanno credere che sotto la sua direzione i Serbi si sono abbandonati ad un massacro. Oggi la documentazione è sufficientemente importante da rendersi conto che non si tratta che di propaganda di guerra. A Srebrenica e nei dintorni sono stati uccisi tanti Sebi quanti musulmani bosniaci (circa 3.000 per entrambe le parti). La mediatizzazione del “massacro di Srebrenica” è della stessa natura di quella che ha portato a dire due mesi fa che Gheddafi ha bombardato la sua gente con gli aerei. Ci si inventa ogni volta un massacro per poter poi giustificare i veri massacri, quelli della NATO. In Bosnia i moujahidin afghani importati dai servizi anglosassoni con l’aiuto dell’esercito turco hanno giocato lo stesso ruolo degli “insorti” islamici di Bengasi. D’altronde si è tentato poco tempo fa di creare a Misurata la medesima messa in scena di Srebrenica, ma questa non ha funzionato (pensando alla storia delle bombe a frammentazione si sa che sono state sganciate dalla NATO).
G – Qual è il ruolo degli intellettuali serbi nel movimento di protesta?
YB – La Serbia è un paese dove esistono ancora degli intellettuali, vera gente di cultura. Non come in Francia, dove dei “citrulli pomposi” detengono il monopolio della diffusione delle idee e discutono tra di loro su tutti i canali televisivi per dire tutti la stessa cosa. In Serbia gli Americani hanno fallito nella loro offensiva sul Fronte culturale. Con la Fondazione Soros, essi hanno sì provato a comprare l’Unione degli Scrittori, ma non ci sono riusciti. Essi hanno speculato sulla povertà degli scrittori, sul loro disperato bisogno di denaro. Il solo ambito in cui sono riusciti a fare qualcosa tramite i media (soprattutto la televisione) che controllano, è quello della diffusione della subcultura di massa democratica occidentale a base anglosassone. I concerti rock, la diffusione dei reality televisivi. Essi sovvenzionano la promozione di questi elementi di disturbo, pagano le ONG, finanziano i siti internet. Gli Americani sono stati fino ad oggi molto generosi con le loro quinte colonne. I Russi sono incapaci di fare la stessa cosa. Quindi senza i russi, ai quali non si deve dare un assegno in bianco perché sono slavi ortodossi… il popolo serbo manifesta sempre la sua preferenza per le canzoni e le danze tradizionali, la musica bizantina, i canti sacri. Per ciò che viene dall’alba dei tempi e ricorda l’epopea. Moderno ma tipicamente serbo, il Festival delle Trombe di Guča, che riunisce ogni anno in un piccolo villaggio decine di migliaia di partecipanti, ha raggiunto una fama mondiale, per nient’altro che la sua qualità mentre la voga dei canti ortodossi, bizantini e neo-pagani non smette di aumentare. Questa affermazione culturale esplica la vitalità del movimento politico extra-parlamentare irrigato dalle idee trascinanti delle resistenza popolare.
Un esempio della sinergia tra cultura e politica: quando dopo le manifestazioni contro il provocatore Gay Pride il capo del Movimento Obraz e venti dei suoi compagni sono stati imprigionati, centinaia di scrittori, poeti e gente dello spettacolo hanno firmato una petizione per chiedere la loro liberazione. È molto attuale vedere degli intellettuali legati al movimento nazional-patriottico pertecipare a riunioni e manifestazioni di strada o addirittura capeggiarle.
C’è un fossato abissale tra la coscienza nazionale espressa dagli intellettuali serbi e i leader d’opinione occidentali. Dopo l’arresto del generale Mladić, la stampa occidentale ci ha riproposto i cliché che ci propina da quindici anni. Nessuna oggettività e sempre lo stesso vocabolario ostile. Si è fatto resuscitare questo linguaggio come scongelandolo. Giornalisti e politici si felicitano dell’arresto del “macellaio dei Balcani” (il titolo di una futura edizione della televisione de “la 2”) e evocano i benefici terapeutici del tribunale di La Haye. La stampa industriale continua a rimarcare quest’opinione e a ripetere queste menzogne. Credendo di vedere nell’“arresto di Mladic” (come dice) la fine di una storia, questo mezzo superficiale e artefatto non si rende conto che l’arresto del generale Mladić non mette fine al combattimento. La guerra continua con un movimento politico-sociale di contestazione generale che è la Nuova Resistenza Popolare all’azione e il movimento vittorioso di domani.
Yves Bataille, esperto conoscitore della Serbia, consigliere del movimento serbo SEDEP, co-autore de La lotta per il Kosovo (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2007), è membro del Comitato scientifico di Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici (Italia).
Traduzione di Alessandro Parodi 
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venerdì 10 giugno 2011

Cercare il Sole. Dopo Fukushima,

Mario Agostinelli

Acqua, energia, beni comuni:
un referendum sulla vita

Si è tentato in ogni modo di sequestrare l’informazione e di esorcizzare il dibattito sui referendum nello scellerato tentativo di sottrarre ai cittadini la più cogente e costruttiva opzione sul futuro che l’agenda politico-sociale abbia riservato negli ultimi anni agli elettori.
Evitare il quorum è stato e rimane l’ossessivo obiettivo di cinque mesi di trucchi governativi; purtroppo il tempo sottratto alla discussione ha impoverito tutti noi di una riflessione e di una maturazione collettiva sullo spostamento dell’attenzione dall’economia alla vita. Invece, dal rifiuto della privatizzazione dell’acqua e dal rigetto definitivo del nucleare, utilizzando il confronto pubblico come un’esperienza civile insostituibile, sarebbe potuta crescere una lettura coerente sul saccheggio passato e futuro che ha condotto alla rarefazione delle risorse necessarie e indispensabili a vivere, alla mercificazione e monetizzazione di ogni forma di vita e salute, alla privatizzazione delle decisioni pubbliche relative alla valorizzazione e uso dei beni e dei servizi comuni. Non ci è stata data la possibilità di una discussione limpida e si è così volutamente indebolita quella funzione discriminante tra due concezioni opposte che l’istituto del referendum sa svolgere positivamente nelle fasi storiche, come è avvenuto ad esempio ai tempi del divorzio e dell’aborto. Perché di vera discriminante si tratta per l’appuntamento di giugno, e i casi dell’energia e dell’acqua sono tra i più emblematici e di rilevanza strategica per il divenire delle società umane e della biosfera del pianeta.

Proverò qui di seguito ad impostare la questione dell’alternativa tra atomo e sole non solo sul piano della sfida tra tecnologia e sicurezza, o del conflitto tra interpretazione prometeica e precauzionale del ruolo della scienza; intendo ripercorrere, alludendo all’universo anche come metafora, la messa in discussione della sopravvivenza della specie, la necessità di una condivisione dello spazio e del tempo tra uomo e natura, la constatazione dell’incompatibilità tra giustizia sociale e spreco dei beni comuni, stringendo così nucleare e acqua dentro un’unica interpretazione.
Consideriamo i termini ‘vita’ e ‘universo’. La grandezza dell’universo è legata alla sua età – circa 13 miliardi di anni –, ma questa longevità non è affatto una coincidenza: ci sono voluti miliardi di anni per formare i mattoni necessari a qualunque forma di complessità chimica come quella del fenomeno che chiamiamo “vita”, così dipendente, come sappiamo, dall’acqua. Tali mattoni si sono formati in seguito a una lenta sequenza di reazioni nucleari all’interno delle stelle: dall’idrogeno all’elio e, su su per peso atomico, fino al carbonio, all’ossigeno, all’azoto – componenti essenziali per la vita –, e ancor più su al ferro, e quindi all’uranio, relativamente instabile. Se l’universo non avesse tanto tempo, sarebbe così denso di energia in tutti i suoi punti da non consentire l’esistenza di pianeti raffreddati e stelle assai distanti che li irraggiano e li illuminano. Il fatto che ci siano esseri viventi e, quindi, osservatori come noi, risulta possibile perché l’universo, puntiforme ai tempi del big bang, ha raggiunto col trascorrere di un grande lasso di tempo dimensioni pari a miliardi di anni luce e si è raffreddato; così è stato possibile l’apparire della vita su un pianeta del sistema solare, vita che si è evoluta e differenziata fino ai nostri giorni e che verrebbe meno senza acqua o con troppo consumo istantaneo di una energia accumulata nei millenni, quando l’uomo non abitava ancora la Terra.
La vita di cui facciamo parte è un fenomeno recente, fragile, che si nutre quotidianamente di energia esterna che proveniente dal sole per mantenersi e riprodursi. Un’energia diffusa, discontinua, decentrata, intrappolata grazie alla fotosintesi e immagazzinata nelle molecole dei carboidrati prima che sfugga nello spazio sotto forma di calore. L’intera biosfera fa da accumulatore e trasduttore dell’energia solare, alimentando il sistema biologico e trasferendo il calore dalle zone calde a quelle più fredde e svolgendo la funzione di termoregolatore del clima. L'esistenza degli oceani e dei mari – l’acqua ! – fa sì che una buona metà dell’energia solare incidente venga assorbita dai processi di evaporazione e sia trasportata dall'equatore ai poli sotto forma di "calore latente", cioè di aria umida che si trasforma in pioggia o neve. Ad ingentilire il clima sulla terra concorre anche la biodiversità, dato che i differenti organismi si comportano come trasduttori specializzati nel degradare l'energia solare attraverso una catena di piccoli salti.

Perché questa lunga digressione? Perché ricorrere al sole e alle tecnologie energetiche associate alle fonti naturali corrisponde a sintonizzarsi temporalmente e spazialmente con i processi vitali sopra descritti. Al contrario, far ricorso alla combustione istantanea di composti fossili – carbone, gas, petrolio –, immagazzinati nelle viscere della terra come frutto di milioni di anni di lavoro del sole sulle primitive forme di vita, significa tendere a riprodurre oggi le condizioni chimico-fisiche di un pianeta in cui l’uomo non era ancora apparso, dove non sarebbe sopravissuto per l’eccesso di anidride carbonica e per l’elevata temperatura. Ma c’è di più: dal secolo scorso l’uomo ha escogitato una ulteriore forma di conversione di energia per soddisfare il suo eccesso di produzione e consumo, che non ha nulla a che vedere né con la combustione né con la vita presente o passata. Si tratta della trasformazione di massa in energia, ottenuta in una macchina apposita, chiamata reattore nucleare. Una macchina che concentra in uno spazio contenuto una densità di energia spaventosa, incompatibile con la vita che la circonda. Una energia che, se esce dal controllo e si libera nella biosfera, produce effetti e lascia scorie che modificano gli equilibri naturali e allontana dalle condizioni in cui è nata e si è riprodotta la specie umana. Non a caso le emissioni intorno ai reattori e le scorie atomiche intaccano nel profondo i tessuti cellulari, mentre decadono con tempi lunghissimi, di migliaia di anni.
Andando al cuore del problema, un reattore a fissione, funzionante come quelli ad altissima potenza che Berlusconi vuole acquistare da Sarkozy, è in termini energetici un incidente latente “moderato e controllato”. Contenuto e tenuto a bada da barre, circuiti di raffreddamento, contenitori a tenuta stagna, complessi sistemi software, fintantoché non se ne scopre l’insostenibile contenuto termico e radiante, a seguito di qualche malfunzionamento non eliminabile in principio, in quanto dovuto all’ambiente reale di cui l’impianto è entrato a far parte. Un contesto vero e non sulla carta, come quello dell’incidente effettivamente accaduto di Fukushima, fatto di eventi e catastrofi naturali, di errori umani, di inaffidabilità gestionale e tecnica connaturati alla vita quotidiana.
In realtà, la terrificante densità energetica delle trasformazioni atomiche controllate (la fissione di un grammo di uranio corrisponde alla combustione di 2 tonnellate di carbone), è incompatibile con la capacità e la velocità di smaltimento della biosfera che ci circonda e alimenta: al punto che quando la “macchina” si rompe, gli effetti si propagano nello spazio e nel tempo ben oltre i limiti della nostra esperienza.
La scelta di abbandonare il nucleare non è quindi roba da ingegneri, ma riflessione alla portata di qualsiasi persona responsabile ed è per questo che il referendum - non qualche emendamento dell’ultima ora! - diventa anche questa volta decisivo.
Scegliere tra sole e atomo comporta un cambio nella scala dei tempi, una riconquista di una dimensione non distruttiva del nostro rapporto con la natura; significa inoltre favorire la ricerca di produzioni socialmente desiderabili, la creazione di occupazione e lavoro stabili, in riequilibrio finalmente con l’eccesso di schiavi meccanici forniti dai fossili e dal nucleare ad un carissimo prezzo. Come potremmo allora riconquistare l’acqua pubblica, senza tener conto della cogenza della crisi climatica, del consumo dell’“oro blu” per tradurre il calore della combustione dei fossili e della fissione dell’uranio in consumi innaturali, senza chiarire che, se la sosteniamo col consenso popolare, siamo alla più grande svolta di politica economica dopo lo sconquasso liberista, riportando invece in primo piano i beni comuni come il sole e l’acqua, due fonti di vita, di giustizia climatica e sociale, di lavoro qualificato e di occupazione dignitosa?



Mario Agostinelli, Roberto Meregalli, Pierattilio Tronconi
Cercare il Sole. Dopo Fukushima, Ediesse, Roma
Prefazione di Riccardo Petrella
Introduzione di Enrico Panini

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sabato 4 giugno 2011

Giuseppe Marletta in che "Stato" si trova !!


di Rosa Ana De Santis Il caso di Giuseppe Marletta, architetto catanese di 42 anni, ha fatto il giro dei quotidiani. La denuncia disperata di sua moglie davanti alle porte dell’ospedale Garibaldi di Catania ha portato di nuovo all’attenzione dell’opinione pubblica una esperienza esistenziale al limite, che gronda desiderio di giustizia. Un’operazione banale ai denti, poco più di un anno fa, ha lasciato quest’uomo immobilizzato su un letto, tracheotomizzato, raramente cosciente e con momenti di dolore acutissimo ben stampati sul suo viso quando viene sottoposto alla procedura dell’aspirazione o al trattamento della sua piaga da decubito di 10 cm all’altezza dell’osso sacro.
La moglie Irene non risparmia dettagli di questo calvario nella speranza che la conoscenza di questa condizione persuada le persone a comprendere quello che lei chiede per suo marito: liberarlo dalle sofferenze. Ma è soprattutto alle Istituzioni che Irene lancia il suo appello.
Ogni mese 1000 euro vanno per la struttura specializzata in cui Giuseppe è ricoverato. Nessun indennizzo e nessun sostegno arriva dallo Stato, tantomeno si è fatta chiarezza sulle cause che hanno portato un uomo sano a precipitare in questa condizione dopo un intervento banale e di routine. Eppure è in una struttura pubblica che Giuseppe ha nei fatti perso la sua vita e la sua salute e le indagini avviate non hanno ancora portato a niente.
Il Ministero della Salute, attraverso la voce del Sottosegretario Roccella, ha respinto le richieste della signora Marletta, dichiarando di non poter partecipare ai costi. Ma sta facendo qualcosa di più l’agenda politica del Ministero e di tutto il governo. Sta impedendo, legge alla mano, di poter permettere a Giuseppe - che mai avrebbe voluto sopravvivere in certe condizioni - di poter decidere quello che dopo lunghissima battaglia giudiziaria fu permesso ad Eluana.
Ed è a lei e alla pietà, che Beppino Englaro ha invocato vanamente per troppi anni, che Irene s’ispira, indignandosi per uno Stato che l’ha di fatto abbandonata con l’aggravio immorale di non voler risparmiare sofferenze inutili a Giuseppe e di impedire con ogni strumento che ne siano rispettate le volontà.
A dire il vero Irene chiede soprattutto che le Istituzioni si occupino di suo marito, che lo Stato intervenga a sostenere una famiglia, come la sua, con due figli piccoli e uno stipendio da insegnante, che non può farcela ad affrontare costi così pesanti.
La denuncia del caso di Giuseppe è importante, infatti, proprio per capire e svelare fino in fondo tutta l’ipocrisia di un paese che difende strenuamente la vita in ogni sua forma e a prezzo di qualsiasi dolore, fino al punto di calpestare la volontà individuale, ma senza investire nulla di serio e di concreto su quella stessa sacralità della vita tanto osannata. La famiglia Englaro, almeno, ha potuto permettersi per 17 lunghissimi anni che Eluana fosse accudita nel migliore dei modi possibili.
Ma per coloro che non hanno strumenti economici lo Stato, proprio quello che sigla le leggi sulla vita, ha il dovere assoluto di intervenire. Per questo il diniego del Ministero non è accettabile e per questo la difesa della vita si svela per quello che è realmente: una montatura politica e mediatica, una propaganda per il plauso del Vaticano che non ha alcuna credibilità.
Se questo paese ha scelto di non essere liberale, di mantenere sotto traccia una vocazione cattolica, sarebbe meno grave se lo fosse davvero, fino in fondo e se non utilizzasse piuttosto i casi di sofferenza umana per costruire campagne di terrore sull’eutanasia senza aiutare le persone che versano in condizioni disperate. Questa schizofrenia di valori senza il welfare che servirebbe a renderli possibili, costruisce non soltanto una privazione di libertà pesantissima per le persone e un accanimento che manca di pietà, ma rappresenta anche un’odiosa non credibilità istituzionale che arriva ai cittadini come l’annuncio di un abbandono, come lo sconto autoregolamentato di una politica zoppicante.
Bisogna decidere se si vuole costruire lo Stato minimo, quello che lascia l’assoluta libertà, o se si tifa per lo Stato etico, quello che entra nella vita di ogni cittadino. Orribile il primo senza di welfare, orribile il secondo per la vocazione liberticida. La storia dell’Europa moderna ci avrebbe dovuto guidare alla scelta di una soluzione comprensiva e sintetica di entrambe le tradizioni.
Il caso italiano è invece pericolosamente orientato e voler essere tutto l’uno e tutto l’altro. Solo questo può spiegare perché Giuseppe debba rimanere imprigionato in un letto, a qualsiasi costo emotivo e di dolore fisico, e perché tutto quello che serve per accudirlo, medicarlo e non abbandonarlo a se stesso non sia onere delle casse dello Stato.
Questo strano mostro giuridico, quello che partorirà la legge amata dalla Roccella, che chiede potere assoluto sulla vita di ogni singolo cittadino, assumendo quasi un’investitura sacra di giudizio nel merito dei valori, e che si disinteressa di entrare nel merito emotivo ed economico della situazione, diventa solo un’odiosa restrizione.
Quella che ha avuto il suono di un’implacabile condanna sulla scelta di Eluana. Un pubblico ammonimento, un peccato cui rimediare in fretta. Quello che dentro i confini di questa Sacra Romana Repubblica rischia di lasciare Giuseppe alla sua agonia. La politica della pietà e dell’impegno non è in agenda. La parola d’ordine è la vita, purché sia a costo zero e tutta decisa a Montecitorio secondo indicazioni vaticane.
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