Non solo massacrano popoli e distruggono Stati ma se ne vantano pure ed in perfetto stile mafioso si rimpallano pubblicamente a vicenda sicuri di impunità"errori" e "malfunzionamenti" della loro strategia omicida senza uno straccio di pentimento anzi queste esternazioni servono solo per il rilancio di un ennesimo più incisivo ed efficace massacro.
Da vomitare !!
Il continuo deteriorarsi della situazione in Libia sta facendo emergere
insolite recriminazioni e scambi di accuse tra i governi occidentali che
hanno pianificato e partecipato alla distruzione del paese
nord-africano dopo il rovesciamento pilotato del regime di Gheddafi nel
2011. Ad intervenire sulla questione è stato recentemente lo stesso
presidente americano, Barack Obama, che in un’intervista rilasciata al
mensile
The Atlantic ha respinto ogni responsabilità per il
disastro causato in Libia, attribuendone invece l’intera colpa ai suoi
colleghi europei, rei di non avere rivolto sufficiente attenzione alla
crisi sulle sponde del Mediterraneo.
L’intervista è stata
ampiamente riportata soprattutto dalla stampa britannica visti i
riferimenti al presunto atteggiamento del primo ministro, David Cameron,
accusato da Obama di essersi lasciato distrarre da altre questioni dopo
la campagna di bombardamenti NATO sulla Libia.
Se la posizione
di presidente degli Stati Uniti comporta per colui che la ricopre una
sostanziosa dose di doppiezza e ipocrisia, quella mostrata da Obama
nell’intervista sulla Libia è apparsa comunque fuori dall’ordinario. La
responsabilità per avere ridotto deliberatamente il paese più stabile,
socialmente avanzato e ricco dell’interno continente africano in un
inferno settario, dove regnano la violenza, il caos e l’anarchia, è da
assegnare infatti principalmente proprio all’amministrazione Obama e ai
suoi piani strategici difficilmente definibili se non criminali.
Ciò
non toglie, ovviamente, che i governi di Londra e Parigi abbiano
assistito e manovrato essi stessi senza scrupoli per mettere in atto un
piano che prevedeva fin dall’inizio il cambio di regime a Tripoli,
possibilmente eliminando fisicamente il sempre più scomodo leader
libico, con cui peraltro avevano fatto affari nel recente passato.
Tuttavia,
la pianificazione della “rivolta”, così come la manipolazione della
risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU, che nel marzo del 2011 diede
il via libera alle operazioni militari, e queste ultime, patrocinate
dalla NATO, hanno visto nel ruolo di protagonisti assoluti proprio gli
Stati Uniti di Obama, rendendo la sua amministrazione responsabile di
quanto accaduto in seguito.
Obama ha ammesso genericamente che,
riguardo alla gestione USA della crisi libica, vi è “spazio per qualche
critica”, ma essa va riferita esclusivamente al fatto che egli ha avuto
fin troppa fiducia negli europei per la gestione del dopo-guerra. La
direzione dell’attacco di Obama ai suoi alleati va letta anche come una
sorta di invito ad adoperarsi in maniera concreta per far fronte al
dilagare del caos nel paese nord-africano e, soprattutto, contribuisce
ad alimentare il mito di un approccio troppo cauto delle potenze europee
come causa della crisi in atto.
Nel ripercorrere le tappe
obbligate del manuale del cambio di regime forzato tramite intervento
militare “umanitario”, Obama ha poi assicurato che Washington aveva
“messo in atto il piano nel migliore dei modi” in Libia, ottenendo il
necessario mandato dell’ONU e mettendo assieme una coalizione
internazionale disposta a seguire le indicazioni di Washington.
L’intervento
militare NATO, al costo di 1 miliardo di dollari (definito “molto
economico” da Obama se confrontato con altre avvenute belliche USA) per
il presidente “ha evitato l’uccisione di civili su larga scala” e quella
che sarebbe stata “quasi sicuramente una prolungata e sanguinosa guerra
civile”.
Nonostante
la falsificazione che ne fa Obama, l’esecuzione del piano fu tutt’altro
che perfetta, dal momento che l’intervento NATO fece decine di
migliaia di morti per prevenire una strage di civili che nessuna prova
concreta ha mai dimostrato fosse sul punto di essere messa in atto dal
regime. Secondo il presidente americano, però, la situazione della Libia
appare oggi disastrosa per ragioni che non hanno a che fare con questa
impresa criminale, bensì con il mancato impegno dei propri alleati per
stabilizzare la situazione.
Da parte britannica, la risposta alle
accuse di Obama è sembrata essere quella molto prudente di un
sottoposto con il proprio padrone. Un portavoce del governo di Londra ha
servilmente affermato che la Gran Bretagna “condivide il giudizio del
presidente USA circa le sfide che pone la Libia” e confida nello sforzo
con i partner internazionali per sostenere un processo che porti a un
governo stabile in questo paese.
L’atteggiamento di Londra è
rimasto fin troppo misurato nonostante Obama abbia ricordato un
ulteriore motivo di critica al governo Cameron. L’inquilino della Casa
Bianca ha addirittura rivelato come la “relazione speciale” tra i due
paesi è stata a rischio dopo che il governo Conservatore si era mostrato
poco disponibile ad aumentare tempestivamente le spese militari fino al
2% del PIL, come richiesto da Washington a tutti i membri NATO per far
fronte alle necessità dell’imperialismo USA.
Durante il summit
dei G-7 nel giugno 2015, Obama aveva chiesto a Cameron di mantenere gli
impegni in questo senso, apostrofandolo con parole non troppo garbate.
L’invito aveva comunque ottenuto gli effetti sperati, visto che il
Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, responsabile di devastanti
tagli alla spesa sociale in questi anni, un mese dopo avrebbe incluso
l’aumento delle spese militari nella sua nuova proposta di bilancio.
Il
rammarico per il sostanziale fallimento o le complicazioni in cui si
risolvono le politiche basate sul rovesciamento di regimi sgraditi
attraverso interventi militari diretti o la creazione a tavolino di
movimenti di protesta o “rivoluzionari”, ha spinto Obama nella medesima
intervista a The Atlantic ad assegnare allo stesso Cameron parte della
responsabilità anche per la mancata aggressione contro la Siria
nell’agosto del 2013.
In quell’occasione, gli Stati Uniti e i
loro alleati in Europa e in Medio Oriente erano riusciti a fabbricare un
casus belli per rimuovere Assad con la forza, ovvero orchestrando un
attacco con armi chimiche in Siria, condotto con ogni probabilità dai
“ribelli” armati, e attribuendone la responsabilità al regime di
Damasco.
L’episodio doveva rappresentare lo scavalcamento da
parte di Assad di una “linea rossa” fissata proprio da Obama e che
avrebbe giustificato una nuova operazione militare contro un regime
nemico. I piani di Washington andarono però in frantumi principalmente a
causa della fortissima ostilità popolare, negli USA e non solo, per
un’altra guerra di aggressione in Medio Oriente.
Obama sostiene
che uno dei fattori decisivi nella clamorosa marcia indietro che
dovettero fare gli Stati Uniti, quando i piani militari erano già
pronti, fu l’incapacità di Cameron di assicurarsi una maggioranza in
Parlamento a favore dell’intervento militare. In realtà anche negli
Stati Uniti il Congresso non fu in grado di garantire
all’amministrazione Obama un voto per dare il via libera alla guerra in
Siria, avviata comunque in seguito con il pretesto di combattere lo
Stato Islamico (ISIS).
In merito nuovamente alla Libia, non solo
gli Stati Uniti furono assieme alla Francia e alla Gran Bretagna i primi
responsabili della guerra di aggressione, fondamentalmente per ragioni
legate al controllo delle risorse energetiche del paese e per
neutralizzare gli sforzi di unificazione pan-africana di Gheddafi in
chiave anti-imperialista, ma su di loro pesa principalmente anche la
colpa per il disastro che ne è seguito.
Per cominciare, gli Stati
Uniti, così come i loro alleati, non disponevano di un piano efficace
per stabilizzare il paese - e di riflesso l’intero Nordafrica - pur
sapendo, o dovendo sapere, quale era il groviglio tribale dal potenziale
esplosivo che caratterizzava la realtà libica.
In
maniera ancora più grave, infine, gli Stati Uniti hanno utilizzato la
Libia come un vero e proprio incubatore e fonte di approvvigionamento
del fondamentalismo jihadista in Siria con l’identico scopo di
rovesciare un regime la cui unica colpa è quella di intralciare le mire
egemoniche americane.
Queste decisioni si sono talvolta
trasformate in un boomerang, come aveva dimostrato l’assalto alla
rappresentanza diplomatica degli Stati Uniti a Bengasi l’11 settembre
2012, operato da un gruppo di guerriglieri che, con ogni probabilità,
aveva lavorato per Washington contro Gheddafi; durante l'attacco venne
ucciso l’ambasciatore Christopher Stevens e altri tre cittadini
americani del servizio di sicurezza.
Il livello di
sconsideratezza di simili politiche, peraltro ben radicate nelle
pratiche più o meno clandestine di Washington per fare i conti con i
propri rivali, hanno finito per aggravare ancora di più la situazione in
Libia, dove oggi, oltre allo scontro tra due governi contrapposti, in
cui confluiscono una miriade di clan e fazioni, sono presenti migliaia
di militanti dell’ISIS.
Se, dunque, personaggi come Cameron o,
forse ancor più, l’ex presidente francese Sarkozy, meriterebbero senza
dubbio un posto sul banco degli imputati in un ipotetico processo per
crimini di guerra in Libia, è altrettanto indiscutibile che il ruolo di
primo piano spetterebbe di gran lunga proprio a quell’Obama che cerca
oggi di scaricare le responsabilità del disastro sui propri alleati.
di Michele Paris
FONTE