involuzione
Poche cose abbiamo imparato dalla storia all'infuori di questa: che le idee si condensano in un sistema di ortodossia, i poteri in una forma gerarchica e che ciò che può ridare vita al corpo sociale irrigidito è soltanto l'alito della libertà, con la quale intendo quella irrequietezza dello spirito, quell'insofferenza dell'ordine stabilito, quell'aborrimento di ogni conformismo che richiede spregiudicatezza mentale ed energia di carattere.
Io sono convinto che se non avessimo imparato dal marxismo a vedere la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati. O avremmo cercato riparo nell'isola della nostra interiorità o ci saremmo messi al servizio dei vecchi padroni. Ma tra coloro che si sono salvati, solo alcuni hanno tratto in salvo un piccolo bagaglio dove, prima di buttarsi in mare, avevano deposto, per custodirli, i frutti più sani della tradizione intellettuale europea: l'inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose.
Norberto Bobbio
Io sono convinto che se non avessimo imparato dal marxismo a vedere la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati. O avremmo cercato riparo nell'isola della nostra interiorità o ci saremmo messi al servizio dei vecchi padroni. Ma tra coloro che si sono salvati, solo alcuni hanno tratto in salvo un piccolo bagaglio dove, prima di buttarsi in mare, avevano deposto, per custodirli, i frutti più sani della tradizione intellettuale europea: l'inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose.
Norberto Bobbio
lunedì 26 settembre 2016
io, attilio folliero: I neonati venezuelani nelle scatole di cartone e l...
io, attilio folliero: I neonati venezuelani nelle scatole di cartone e l...: Attilio Folliero, Caracas 25/09/2016 - Foto tratte da Internet Prima pubblicazione: L'Interferenza Maternidad Santa Ana. Cliccar...
giovedì 22 settembre 2016
io, attilio folliero: Dichiarazione Finale del 17° Vertice dei Capi di S...
io, attilio folliero: Dichiarazione Finale del 17° Vertice dei Capi di S...: Fonte: Ambasciata della Repubblica del Venezuela in Italia Declaración en español 17° Vertice dei Capi di Stato e di Governo del Mo...
venerdì 16 settembre 2016
MONDOCANE: I DUE PESI E LE DUE MISURE DEI PACIFINTI: Regeni ...
MONDOCANE: I DUE PESI E LE DUE MISURE DEI PACIFINTI: Regeni ...: Riporto qui sotto un capitolo di una newsletter , "Pressenza" diretta da Oliveri Turquet, organo del Partito Uman...
Guerra al terrore: un inganno da 5 mila miliardi
di Michele Paris
Un recente studio condotto dalla Brown University negli Stati Uniti ha provato a stimare il costo complessivo dal 2001 a oggi della “guerra al terrore” condotta dalle amministrazioni dei presidenti George W. Bush e Barack Obama. I risultati sono nulla di meno che sbalorditivi e consentono di percepire, anche se con ogni probabilità in maniera parziale, gli effetti distruttivi di un’impresa lanciata per ragioni legate esclusivamente agli interessi economici e strategici di un’altrettanto distruttiva classe dirigente americana.
A tutto il mese agosto di quest’anno, la spesa complessiva sostenuta dagli USA per le guerre ha sfiorato i 5 mila miliardi di dollari. Le voci considerate includono le somme stanziate dal Congresso di Washington per finanziare le operazioni nei teatri di guerra veri e propri, gli interessi sul debito contratto per queste ultime, il bilancio del Dipartimento della Sicurezza Interna e l’assistenza ai reduci fino all’anno 2053.
Il solo costo delle operazioni di guerra all’estero è ammontato in quindici anni a 1.700 miliardi di dollari. Questa cifra viene peraltro considerata a parte rispetto al bilancio ordinario del Dipartimento della Difesa che, nello stesso arco di tempo, si è aggirato addirittura attorno ai 7 mila miliardi di dollari.
Il finanziamento dei conflitti in cui sono coinvolti gli Stati Uniti avviene regolarmente tramite stanziamenti separati, anche se il carattere eccezionale o di emergenza, che spiega appunto le modalità con cui il denaro pubblico viene destinato a questo scopo, ha ormai lasciato spazio alla normalità della guerra permanente. In questo modo risulta evidentemente più facile aggirare eventuali tetti di spesa fissati per le spese militari ordinarie.
I fondi per garantire la sicurezza interna di un paese che, dal 2001, ha assistito a un numero irrisorio di attentati o minacce legate in qualche modo al terrorismo islamico sono stati invece pari a 548 miliardi di dollari. La spesa sostenuta finora per i veterani delle guerre al terrore è stata di 213 miliardi, ma entro il 2053 salirà a quota mille miliardi.
Ingente è anche il peso degli interessi sul debito accumulato dal governo federale per finanziare le guerre, uguale cioè a 453 miliardi. Secondo gli autori dello studio, se gli USA non cambieranno le modalità di finanziamento delle guerre, i soli interessi aumenteranno di mille miliardi nel 2023, per arrivare all’incredibile cifra di 7.900 miliardi nel 2053.
La spesa totale, anche se gigantesca, è destinata ad aumentare nei prossimi anni, dal momento che non è in vista alcun disimpegno degli Stati Uniti all’estero sul fronte militare. Per la guerra in Afghanistan, dove sono tuttora presenti 15 mila soldati americani, l’amministrazione Obama ha chiesto ad esempio più di 44 miliardi di dollari per l’anno fiscale 2017.
A questa cifra vanno aggiunti, sempre per il prossimo anno, 13,8 miliardi per le operazioni contro lo Stato Islamico (ISIS/Daesh) in Iraq e in Siria e 35 miliardi per il funzionamento del Dipartimento della Sicurezza Interna. Per i ricercatori della Brown University, oltretutto, i fondi di cui il Pentagono sostiene di avere bisogno nei prossimi anni sono sottostimati, soprattutto se verranno implementati i piani militari attualmente allo studio.
Se i numeri sono già di per sé estremamente significativi, lo studio sottolinea nondimeno che essi non possono rendere conto delle conseguenze della guerra sulle popolazioni di Iraq e Afghanistan, né di quelle di paesi come Siria o Pakistan, a cui nel corso degli anni si è allargata la “guerra al terrore”. Nel solo Iraq, la cui società è stata letteralmente distrutta, alcune stime valutano in oltre un milione le vittime seguite all’invasione americana del 2003, mentre i profughi dei paesi interessati dalle guerre degli ultimi quindici anni superano abbondantemente i 12 milioni.
Il numero di vittime tra le forze armate americane e i “contractors” privati in Iraq e Afghanistan è inoltre superiore a 7 mila, mentre più di 50 mila sono i feriti e i mutilati. Difficili da quantificare sono invece i reduci che soffrono di stress post-traumatico e altre forme di disturbo mentale connesse all’esperienza bellica, così come quelli resi permanentemente disabili. Il numero di coloro che rientrano in queste categorie, per i soli Stati Uniti, è certamente nell’ordine delle centinaia di migliaia.
L’intera “guerra al terrore” risulta anche una sorta di enorme inganno ai danni dei cittadini americani e del resto del mondo. Non solo le giustificazioni non corrispondevano alle motivazioni reali che l’hanno innescata, com’è stato dimostrato negli anni successivi all’11 settembre, ma la stessa entità dell’impegno militare e finanziario è stata nascosta all’opinione pubblica.
Lo studio della Brown University ricorda a questo proposito come nell’autunno del 2002, durante la preparazione dell’invasione dell’Iraq, il consigliere economico dell’allora presidente Bush, Lawrence Lindsey, aveva stimato tra i 100 e i 200 miliardi di dollari il tetto massimo del costo della guerra che sarebbe stata lanciata di lì a poco.
Addirittura, Lindsey fu attaccato da più parti e, in particolare, il dipartimento della Difesa del segretario Donald Rumsfeld e la commissione Bilancio della Camera dei Rappresentanti avevano previsto un costo complessivo non superiore ai 60 miliardi di dollari.
Lo spreco di risorse rappresentato dalla “guerra al terrore” documentato per la prima volta dalla ricerca della Brown University è tale da essere quasi difficile da concepire. I 5 mila miliardi di dollari andati perduti in questo modo, sostanzialmente per promuovere o conservare la posizione internazionale del capitalismo americano, possono avere maggiore senso se si considera l’utilizzo che se ne sarebbe potuto fare a beneficio di decine o centinaia di milioni di persone.
Ad esempio, le infrastrutture pubbliche americane, secondo quanto calcolato dalla società USA degli ingegneri civili, sono in uno stato di degrado tale da avere bisogno di investimenti pari a circa 3.200 miliardi nei prossimi dieci anni. Ancora, il debito scolastico complessivo che grava su studenti ed ex studenti negli Stati Uniti ammonta a più di 1.200 miliardi.
La spesa per i buoni alimentari da destinare alle fasce più disagiate della popolazione, soggetta a continui drastici tagli in questi anni perché ritenuta “insostenibile”, è costata infine “solo” 70 miliardi nel 2014 e poco più di 50 nel 2015.
Le voci di spesa sotto continuo assedio nei bilanci federali e che potrebbero essere finanziate con il denaro destinato alle guerre sarebbero molteplici, dall’assistenza sanitaria alle indennità di disoccupazione, dall’edilizia popolare ai fondi pensione dei dipendenti pubblici.
Al contrario, gli stanziamenti per guerre e “sicurezza nazionale” sono destinati a crescere in parallelo agli sforzi per invertire il declino del peso degli Stati Uniti sullo scacchiere internazionale. Se l’impegno per combattere, almeno ufficialmente, qualche migliaia di terroristi ha richiesto quasi 5 mila miliardi di dollari dal 2001 a oggi, c’è da chiedersi quale livello di spesa e quale impatto sulle popolazioni potrebbero avere le guerre del prossimo futuro con potenze militari come Russia o Cina.
http://www.altrenotizie.org
Un recente studio condotto dalla Brown University negli Stati Uniti ha provato a stimare il costo complessivo dal 2001 a oggi della “guerra al terrore” condotta dalle amministrazioni dei presidenti George W. Bush e Barack Obama. I risultati sono nulla di meno che sbalorditivi e consentono di percepire, anche se con ogni probabilità in maniera parziale, gli effetti distruttivi di un’impresa lanciata per ragioni legate esclusivamente agli interessi economici e strategici di un’altrettanto distruttiva classe dirigente americana.
A tutto il mese agosto di quest’anno, la spesa complessiva sostenuta dagli USA per le guerre ha sfiorato i 5 mila miliardi di dollari. Le voci considerate includono le somme stanziate dal Congresso di Washington per finanziare le operazioni nei teatri di guerra veri e propri, gli interessi sul debito contratto per queste ultime, il bilancio del Dipartimento della Sicurezza Interna e l’assistenza ai reduci fino all’anno 2053.
Il solo costo delle operazioni di guerra all’estero è ammontato in quindici anni a 1.700 miliardi di dollari. Questa cifra viene peraltro considerata a parte rispetto al bilancio ordinario del Dipartimento della Difesa che, nello stesso arco di tempo, si è aggirato addirittura attorno ai 7 mila miliardi di dollari.
Il finanziamento dei conflitti in cui sono coinvolti gli Stati Uniti avviene regolarmente tramite stanziamenti separati, anche se il carattere eccezionale o di emergenza, che spiega appunto le modalità con cui il denaro pubblico viene destinato a questo scopo, ha ormai lasciato spazio alla normalità della guerra permanente. In questo modo risulta evidentemente più facile aggirare eventuali tetti di spesa fissati per le spese militari ordinarie.
I fondi per garantire la sicurezza interna di un paese che, dal 2001, ha assistito a un numero irrisorio di attentati o minacce legate in qualche modo al terrorismo islamico sono stati invece pari a 548 miliardi di dollari. La spesa sostenuta finora per i veterani delle guerre al terrore è stata di 213 miliardi, ma entro il 2053 salirà a quota mille miliardi.
Ingente è anche il peso degli interessi sul debito accumulato dal governo federale per finanziare le guerre, uguale cioè a 453 miliardi. Secondo gli autori dello studio, se gli USA non cambieranno le modalità di finanziamento delle guerre, i soli interessi aumenteranno di mille miliardi nel 2023, per arrivare all’incredibile cifra di 7.900 miliardi nel 2053.
La spesa totale, anche se gigantesca, è destinata ad aumentare nei prossimi anni, dal momento che non è in vista alcun disimpegno degli Stati Uniti all’estero sul fronte militare. Per la guerra in Afghanistan, dove sono tuttora presenti 15 mila soldati americani, l’amministrazione Obama ha chiesto ad esempio più di 44 miliardi di dollari per l’anno fiscale 2017.
A questa cifra vanno aggiunti, sempre per il prossimo anno, 13,8 miliardi per le operazioni contro lo Stato Islamico (ISIS/Daesh) in Iraq e in Siria e 35 miliardi per il funzionamento del Dipartimento della Sicurezza Interna. Per i ricercatori della Brown University, oltretutto, i fondi di cui il Pentagono sostiene di avere bisogno nei prossimi anni sono sottostimati, soprattutto se verranno implementati i piani militari attualmente allo studio.
Se i numeri sono già di per sé estremamente significativi, lo studio sottolinea nondimeno che essi non possono rendere conto delle conseguenze della guerra sulle popolazioni di Iraq e Afghanistan, né di quelle di paesi come Siria o Pakistan, a cui nel corso degli anni si è allargata la “guerra al terrore”. Nel solo Iraq, la cui società è stata letteralmente distrutta, alcune stime valutano in oltre un milione le vittime seguite all’invasione americana del 2003, mentre i profughi dei paesi interessati dalle guerre degli ultimi quindici anni superano abbondantemente i 12 milioni.
Il numero di vittime tra le forze armate americane e i “contractors” privati in Iraq e Afghanistan è inoltre superiore a 7 mila, mentre più di 50 mila sono i feriti e i mutilati. Difficili da quantificare sono invece i reduci che soffrono di stress post-traumatico e altre forme di disturbo mentale connesse all’esperienza bellica, così come quelli resi permanentemente disabili. Il numero di coloro che rientrano in queste categorie, per i soli Stati Uniti, è certamente nell’ordine delle centinaia di migliaia.
L’intera “guerra al terrore” risulta anche una sorta di enorme inganno ai danni dei cittadini americani e del resto del mondo. Non solo le giustificazioni non corrispondevano alle motivazioni reali che l’hanno innescata, com’è stato dimostrato negli anni successivi all’11 settembre, ma la stessa entità dell’impegno militare e finanziario è stata nascosta all’opinione pubblica.
Lo studio della Brown University ricorda a questo proposito come nell’autunno del 2002, durante la preparazione dell’invasione dell’Iraq, il consigliere economico dell’allora presidente Bush, Lawrence Lindsey, aveva stimato tra i 100 e i 200 miliardi di dollari il tetto massimo del costo della guerra che sarebbe stata lanciata di lì a poco.
Addirittura, Lindsey fu attaccato da più parti e, in particolare, il dipartimento della Difesa del segretario Donald Rumsfeld e la commissione Bilancio della Camera dei Rappresentanti avevano previsto un costo complessivo non superiore ai 60 miliardi di dollari.
Lo spreco di risorse rappresentato dalla “guerra al terrore” documentato per la prima volta dalla ricerca della Brown University è tale da essere quasi difficile da concepire. I 5 mila miliardi di dollari andati perduti in questo modo, sostanzialmente per promuovere o conservare la posizione internazionale del capitalismo americano, possono avere maggiore senso se si considera l’utilizzo che se ne sarebbe potuto fare a beneficio di decine o centinaia di milioni di persone.
Ad esempio, le infrastrutture pubbliche americane, secondo quanto calcolato dalla società USA degli ingegneri civili, sono in uno stato di degrado tale da avere bisogno di investimenti pari a circa 3.200 miliardi nei prossimi dieci anni. Ancora, il debito scolastico complessivo che grava su studenti ed ex studenti negli Stati Uniti ammonta a più di 1.200 miliardi.
La spesa per i buoni alimentari da destinare alle fasce più disagiate della popolazione, soggetta a continui drastici tagli in questi anni perché ritenuta “insostenibile”, è costata infine “solo” 70 miliardi nel 2014 e poco più di 50 nel 2015.
Le voci di spesa sotto continuo assedio nei bilanci federali e che potrebbero essere finanziate con il denaro destinato alle guerre sarebbero molteplici, dall’assistenza sanitaria alle indennità di disoccupazione, dall’edilizia popolare ai fondi pensione dei dipendenti pubblici.
Al contrario, gli stanziamenti per guerre e “sicurezza nazionale” sono destinati a crescere in parallelo agli sforzi per invertire il declino del peso degli Stati Uniti sullo scacchiere internazionale. Se l’impegno per combattere, almeno ufficialmente, qualche migliaia di terroristi ha richiesto quasi 5 mila miliardi di dollari dal 2001 a oggi, c’è da chiedersi quale livello di spesa e quale impatto sulle popolazioni potrebbero avere le guerre del prossimo futuro con potenze militari come Russia o Cina.
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mercoledì 14 settembre 2016
io, attilio folliero: Enzo Apicella dal 16 settembre in mostra a Napoli ...
io, attilio folliero: Enzo Apicella dal 16 settembre in mostra a Napoli ...: Attilio Folliero, Caracas, 13/09/2016 Articoli e caricature di Enzo Apicella in questo blog Sito web di Enzo Apicella Pagina Facebook d...
APE.ENNESIMO FAVORE A BANCHE ED ASSICURAZIONI
di Fabrizio Casari
La proposta del governo Renzi per l’anticipo della pensione ai nati tra il 1951 e il 1953, più che una soluzione rappresenta un insulto alle condizioni e all’intelligenza dei pensionati. Regali a banche ed assicurazioni da un lato e prelievo ai pensionati dall’altro, la storiella della nonna che si gode i nipotini, pietra miliare della narrazione renziana della prima ora, rischia di diventare la storia dei nipotini che chiedono l’elemosina per i nonni.
Un’intera generazione si trova esodata o rischia di divenirlo: da un lato perché ritenuta troppo anziana per convenire alle aziende, che preferiscono i salari d’inserimento e le mille forme truffaldine che consentono di pagare salari da terzo mondo ai giovani, piuttosto che sostenere stipendi con seniority importanti. Dall’altra quella stessa generazione è ritenuta troppo giovane per accedere alla pensione anticipatamente e si sceglie quindi di lasciarli in mezzo al guado senza nemmeno una scialuppa.
Non si tratta di risorse disponibili. Ci sono scelte di politica finanziaria e di business che intervengono, più che valutazioni sulla sostenibilità del sistema. In effetti, proprio l’incertezza sul quando e quanto della pensione contribuisce a spingere l’accesso dei pensionandi alla previdenza privata complementare, che si alimenta dell’incertezza e/o dell’insufficienza di quella pubblica. La pensione si allontana, quindi, anche perché se si avvicinasse il business si ridurrebbe.
L’ultima trovata del governo Renzi s’inquadra esattamente in questo contesto. Si offre l’anticipo di tre anni a chi può andare in pensione a fronte di una decurtazione pesante del già scarso assegno ma solo tramite un prestito ventennale con le banche. Non sono possibili percorsi diversi.
E qui si pone la pietra miliare del provvedimento: le banche, che hanno ottenuto dalla BCE la liquidità che va obbligatoriamente immessa nel mercato dei prestiti, troverebbero in questa manovra un modo di erogare denaro, sicure del suo rientro. Si dirà: come fanno ad esserne sicure, visto che la salute non è detto consenta a tutti di arrivare agli 85 anni ed oltre? Non a caso per i mutui ci sono solo porte chiuse e il raggiungimento massimo di 75 anni di età è considerata questione raramente superabile; come mai allora in questo caso si può arrivare agli 85 anni? Presto detto: nel caso di morte prematura o d’inadempienza intervengono le assicurazioni a garanzia! Ovvero l’altra gamba del tavolo degli istituti di credito.
La domanda è d’obbligo: ma perché non viene data la possibilità, a chi può, di anticipare i tre anni di contributi rimanenti in un’unica soluzione e, con il conseguente ricalcolo dei coefficienti, offrirgli la pensionabilità immediata? In fondo chi può pagarsi i tre anni di contribuzione volontaria non avrebbe motivo di ricorrere al prestito oneroso. Invece no, non è possibile: il prestito è obbligatorio per l’operazione. Invece il pagamento diretto dovrebbe essere almeno considerato. Il sospetto che l’operazione sia destinata a rimpinguare le casse di banche e di assicurazioni non può essere rimosso senza dare questa possibilità.
Sono infatti banche ed assicurazioni i due soggetti che guadagnano con l’operazione. La prima erogando prestiti con interessi con il denaro ricevuto dalla BCE, le seconde assicurando lautamente il rischio d’insolvenza causa decessi prematuri. Ma i pensionati non avrebbero nulla da guadagnare nell’operazione, visto che pagherebbero per venti anni l’anticipazione di tre! E per di più pagherebbero con interessi pesanti l’anticipazione del loro denaro.
Dai calcoli dello stesso governo, la decurtazione doppia, ovvero la riduzione dell’assegno e il pagamento degli interessi, renderebbe l’anticipazione del pensionamento un salasso economico che ricadrebbe interamente sul loro reddito per venti, lunghissimi anni. Per fare un esempio, un assegno pensionistico previsto intorno ai 1500 euro al mese, diverrebbe di circa 1200. Il 30% in meno, quando in Francia e in altri paesi europei siamo intorno al 2-4% in meno all’anno.
La fascia media verrebbe privata complessivamente di una percentuale importante dell’assegno e si deve poi considerare che - dato mai sottolineato - ammesso che lo si scelga, contrarre un prestito ventennale su una pensione media, semplicemente impedirebbe di fatto ogni altra esposizione.
Quale? Per esempio un mutuo per acquistare una casa per sé o per i propri figli, come si usava quando l’Italia era un paese normale nel quale l’ascensore sociale esisteva. Questo si concretizzava anche nei sacrifici dei padri a vantaggio dei figli e l’entrata in pensione dei genitori costituiva uno snodo importante, data la certezza dell’entrata e l’arrivo del TFR maturato in una vita di lavoro.
L’incertezza congenita sui trattamenti pensionistici non può proseguire. Sarebbe ora di stabilire un principio: se si vuole rimanere al lavoro fino ai 70 anni, si è liberi di farlo, ma si può andare in pensione dopo almeno 35 anni di contributi versati, che quasi mai peraltro corrispondono agli anni lavorati (questi, di solito, sono molti di più). Ci si dovrebbe andare con i contributi maturati, eventualmente decurtati o anche bloccandoli fino alla soglia della pensione minima prevista del ricalcolo attivo, ma va garantito che, a versamenti contributivi effettuati, corrisponda l’assegno previdenziale.
Solo il rapporto tra questi due elementi può essere considerato legittimo, espressione del patto che intercorre tra Stato e cittadino, con quest’ultimo che versa i suoi contributi previdenziali per riaverli al momento della pensione. Per 35 anni finanzia le casse dello Stato che li restituisce (in parte) spalmandoli su una media di venti anni. Il continuo allontanarsi dell’età pensionabile pone invece uno sbilanciamento grave tra gli anni di contributi e quelli della pensione e si configura come un vero e proprio scippo dello Stato ai cittadini. Che se avessero la possibilità di scegliere, ormai si guarderebbero bene dal versare contributi che mai più riceveranno.
E’ vero che la tenuta dei conti è problema serio, ma le proposte avanzate per favorire l’accesso anticipato (prima fra tutte quella dell’ex ministro del Lavoro Damiano) sono ragionevoli, compatibili e risolutive per portare in pochi anni a regime il meccanismo e garantire così il necessario equilibrio finanziario.
Riportare le norme alla corretta dinamica tra contributi versati e pensione percepita, oltre che restituire ai cittadini la certezza del diritto, consentirebbe una ripresa rapida dei consumi interni, volano strategico dell’economia e motore indiscutibile per la ripresa, condizione decisiva per la crescita del PIL e la conseguente riduzione del deficit. Ma servirebbe un governo nel vero senso della parola.
Questo assemblaggio di parvenu non lo è. Incapace di costruire una politica economica, inabile a determinare una ristrutturazione logica del sistema di welfare, il governo Renzi continua a fare della propaganda, che è l’unica cosa alla quale si dedica ininterrottamente.
Così tenterà di spacciare l’APE come un’iniziativa a favore dei pensionati, nascondendo come essi sono solo lo strumento per una ulteriore operazione speculativa del comparto creditizio e assicurativo, in nome e per conto del quale questo governo lavora senza sosta e con ogni fantasia. Dov’è la novità?
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La proposta del governo Renzi per l’anticipo della pensione ai nati tra il 1951 e il 1953, più che una soluzione rappresenta un insulto alle condizioni e all’intelligenza dei pensionati. Regali a banche ed assicurazioni da un lato e prelievo ai pensionati dall’altro, la storiella della nonna che si gode i nipotini, pietra miliare della narrazione renziana della prima ora, rischia di diventare la storia dei nipotini che chiedono l’elemosina per i nonni.
Un’intera generazione si trova esodata o rischia di divenirlo: da un lato perché ritenuta troppo anziana per convenire alle aziende, che preferiscono i salari d’inserimento e le mille forme truffaldine che consentono di pagare salari da terzo mondo ai giovani, piuttosto che sostenere stipendi con seniority importanti. Dall’altra quella stessa generazione è ritenuta troppo giovane per accedere alla pensione anticipatamente e si sceglie quindi di lasciarli in mezzo al guado senza nemmeno una scialuppa.
Non si tratta di risorse disponibili. Ci sono scelte di politica finanziaria e di business che intervengono, più che valutazioni sulla sostenibilità del sistema. In effetti, proprio l’incertezza sul quando e quanto della pensione contribuisce a spingere l’accesso dei pensionandi alla previdenza privata complementare, che si alimenta dell’incertezza e/o dell’insufficienza di quella pubblica. La pensione si allontana, quindi, anche perché se si avvicinasse il business si ridurrebbe.
L’ultima trovata del governo Renzi s’inquadra esattamente in questo contesto. Si offre l’anticipo di tre anni a chi può andare in pensione a fronte di una decurtazione pesante del già scarso assegno ma solo tramite un prestito ventennale con le banche. Non sono possibili percorsi diversi.
E qui si pone la pietra miliare del provvedimento: le banche, che hanno ottenuto dalla BCE la liquidità che va obbligatoriamente immessa nel mercato dei prestiti, troverebbero in questa manovra un modo di erogare denaro, sicure del suo rientro. Si dirà: come fanno ad esserne sicure, visto che la salute non è detto consenta a tutti di arrivare agli 85 anni ed oltre? Non a caso per i mutui ci sono solo porte chiuse e il raggiungimento massimo di 75 anni di età è considerata questione raramente superabile; come mai allora in questo caso si può arrivare agli 85 anni? Presto detto: nel caso di morte prematura o d’inadempienza intervengono le assicurazioni a garanzia! Ovvero l’altra gamba del tavolo degli istituti di credito.
La domanda è d’obbligo: ma perché non viene data la possibilità, a chi può, di anticipare i tre anni di contributi rimanenti in un’unica soluzione e, con il conseguente ricalcolo dei coefficienti, offrirgli la pensionabilità immediata? In fondo chi può pagarsi i tre anni di contribuzione volontaria non avrebbe motivo di ricorrere al prestito oneroso. Invece no, non è possibile: il prestito è obbligatorio per l’operazione. Invece il pagamento diretto dovrebbe essere almeno considerato. Il sospetto che l’operazione sia destinata a rimpinguare le casse di banche e di assicurazioni non può essere rimosso senza dare questa possibilità.
Sono infatti banche ed assicurazioni i due soggetti che guadagnano con l’operazione. La prima erogando prestiti con interessi con il denaro ricevuto dalla BCE, le seconde assicurando lautamente il rischio d’insolvenza causa decessi prematuri. Ma i pensionati non avrebbero nulla da guadagnare nell’operazione, visto che pagherebbero per venti anni l’anticipazione di tre! E per di più pagherebbero con interessi pesanti l’anticipazione del loro denaro.
Dai calcoli dello stesso governo, la decurtazione doppia, ovvero la riduzione dell’assegno e il pagamento degli interessi, renderebbe l’anticipazione del pensionamento un salasso economico che ricadrebbe interamente sul loro reddito per venti, lunghissimi anni. Per fare un esempio, un assegno pensionistico previsto intorno ai 1500 euro al mese, diverrebbe di circa 1200. Il 30% in meno, quando in Francia e in altri paesi europei siamo intorno al 2-4% in meno all’anno.
La fascia media verrebbe privata complessivamente di una percentuale importante dell’assegno e si deve poi considerare che - dato mai sottolineato - ammesso che lo si scelga, contrarre un prestito ventennale su una pensione media, semplicemente impedirebbe di fatto ogni altra esposizione.
Quale? Per esempio un mutuo per acquistare una casa per sé o per i propri figli, come si usava quando l’Italia era un paese normale nel quale l’ascensore sociale esisteva. Questo si concretizzava anche nei sacrifici dei padri a vantaggio dei figli e l’entrata in pensione dei genitori costituiva uno snodo importante, data la certezza dell’entrata e l’arrivo del TFR maturato in una vita di lavoro.
L’incertezza congenita sui trattamenti pensionistici non può proseguire. Sarebbe ora di stabilire un principio: se si vuole rimanere al lavoro fino ai 70 anni, si è liberi di farlo, ma si può andare in pensione dopo almeno 35 anni di contributi versati, che quasi mai peraltro corrispondono agli anni lavorati (questi, di solito, sono molti di più). Ci si dovrebbe andare con i contributi maturati, eventualmente decurtati o anche bloccandoli fino alla soglia della pensione minima prevista del ricalcolo attivo, ma va garantito che, a versamenti contributivi effettuati, corrisponda l’assegno previdenziale.
Solo il rapporto tra questi due elementi può essere considerato legittimo, espressione del patto che intercorre tra Stato e cittadino, con quest’ultimo che versa i suoi contributi previdenziali per riaverli al momento della pensione. Per 35 anni finanzia le casse dello Stato che li restituisce (in parte) spalmandoli su una media di venti anni. Il continuo allontanarsi dell’età pensionabile pone invece uno sbilanciamento grave tra gli anni di contributi e quelli della pensione e si configura come un vero e proprio scippo dello Stato ai cittadini. Che se avessero la possibilità di scegliere, ormai si guarderebbero bene dal versare contributi che mai più riceveranno.
E’ vero che la tenuta dei conti è problema serio, ma le proposte avanzate per favorire l’accesso anticipato (prima fra tutte quella dell’ex ministro del Lavoro Damiano) sono ragionevoli, compatibili e risolutive per portare in pochi anni a regime il meccanismo e garantire così il necessario equilibrio finanziario.
Riportare le norme alla corretta dinamica tra contributi versati e pensione percepita, oltre che restituire ai cittadini la certezza del diritto, consentirebbe una ripresa rapida dei consumi interni, volano strategico dell’economia e motore indiscutibile per la ripresa, condizione decisiva per la crescita del PIL e la conseguente riduzione del deficit. Ma servirebbe un governo nel vero senso della parola.
Questo assemblaggio di parvenu non lo è. Incapace di costruire una politica economica, inabile a determinare una ristrutturazione logica del sistema di welfare, il governo Renzi continua a fare della propaganda, che è l’unica cosa alla quale si dedica ininterrottamente.
Così tenterà di spacciare l’APE come un’iniziativa a favore dei pensionati, nascondendo come essi sono solo lo strumento per una ulteriore operazione speculativa del comparto creditizio e assicurativo, in nome e per conto del quale questo governo lavora senza sosta e con ogni fantasia. Dov’è la novità?
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mercoledì 7 settembre 2016
La dichiarazione di guerra del partito degli affari contro il Movimento 5 Stelle è stata affidata a giornali, radio e televisioni di proprietà o di complemento.
di Fabrizio Casari
Sarà Beppe Grillo, oggi, a chiudere la riunione fiume del Direttorio del M5S sul “caso Roma”. Ma quale che siano le deliberazioni che verranno adottate, una cosa è chiara: la guerra dei palazzinari e del partito trasversale delle olimpiadi, della gestione dei rifiuti e della manutenzione delle opere pubbliche, è ormai dichiarata. La dichiarazione di guerra del partito degli affari contro il Movimento 5 Stelle è stata affidata a giornali, radio e televisioni di proprietà o di complemento.
Il PD, che avrebbe milioni di motivi per tacere su Roma, urla e i giornali di riferimento del Premier ne diffondono la voce. La Sindaca, dal canto suo, pare prigioniera di errori suoi e dei suoi consiglieri. Insomma, Roma è stretta tra alcuni errori di gestione del governo della neo sindaca e l’aggressione mediatica della stampa di regime.
Ma il rumore di nemici non assolve gli errori grillini, frutto di mancanza di qualità politica e, ancor più, di comunicazione (anche se davvero il rapporto con i medi militarizzati non è questione da risolvere con qualche mago degli Uffici Stampa). L’impressione, fino ad oggi, è che il M5S e la stessa Raggi non avessero calcolato prima il peso di quello che sarebbe stata la reazione dei poteri forti alla vittoria di un governo contrario ai suoi interessi.
Governare Roma è certamente compito improbo. La mole dei problemi, che in una qualunque metropoli sono pari al suo volume, nel caso di Roma subiscono una ulteriore difficoltà per l’intreccio spaventoso di corruzione e incapacità delle amministrazioni precedenti. Il tutto poggiato su un letto di spine rappresentato da un debito mostruoso che oscilla tra i 13 e i 14 miliardi i Euro.
Dunque la neonata giunta Raggi ha di fronte a sé una difficoltà di gestione davvero impossibile da non riconoscere, su cui s’innesta una oggettiva scarsa esperienza. La competenza davvero non può essere rivendicata vista la sostanziale iniziazione del M5S e della sua Sindaca alla politica e all’amministrazione pubblica. Fatte salve infatti le legittime aspirazioni a governare da parte di chiunque, va ricordato - soprattutto ai Cinque Stelle - che il governo di un sistema complesso ha bisogno di competenze, professionalità, esperienze e abilità politiche.
Sì, politiche, perché diversamente da quanto sembra ormai essersi inculcatosi nel main stream in 20 anni di berlusconismo, governare non è questione tecnica, non è affare di gestione amministrativa. E’, invece, questione tutta politica, alla quale coerentemente si deve adeguare il modello di amministrazione e gestione che da quell’impostazione politica deriva. Certo, l’onestà e la trasparenza, cavalli di battaglia dei pentastellati, non possono mancare; ma queste sono una precondizione, non un programma di governo.
Ovviamente, nel contesto di una realtà criminogena ed incapace come quella dimostrata dalle amministrazioni che l’hanno preceduta, l’onestà del M5S ha giocato un ruolo preponderante al suo plebiscito, frutto soprattutto di un voto di castigo ai partiti “storici” più che una adesione al programma elettorale del M5S.
Ebbene, secondo molti, i primi due mesi della Giunta Raggi non hanno corrisposto alle attese. Anche qui si sconta più del dovuto la retorica dei “cento giorni”; una vulgata diffusa che non ha nessun motivo d’esistere, ma non è questo il punto. Anzi, va detto che la pulizia della città è risultata riscontrabile quanto apprezzabile, e l’obiezione per la quale sarebbe stato semplice pulire la città in quanto ad agosto una parte degli abitanti vanno in ferie, è un’autentica sciocchezza.
Se i romani vanno in ferie (sempre meno e per minor tempo) l’affluenza dei turisti è decuplicata rispetto agli altri mesi dell’anno, il che, sul piano numerico, pareggia i conti e oltre. Poi andrebbe ricordato che la schifosa gestione dell’Ama da Alemanno in poi non s’interrompeva nemmeno ad agosto, dunque meglio sorvolare.
Eppure, lo spettacolo offerto dalle correnti interne ai 5 Stelle di Roma non entusiasma. Si tratta ora di ripartire facendo tesoro degli errori. Non è possibile affrontare la macchina amministrativa del Campidoglio senza competenze e relazioni, ma queste non vivono solo negli avanzi delle giunte precedenti. Ci sono competenze e professionalità sparse che possono essere utilizzate con profitto.
Sono molte le zone d’ombra su quanto avviene, a cominciare dal ruolo dell’ ANAC che non si capisce a che titolo viene consultata, così come non è chiaro il ruolo di alcuni personaggi della giunta, dal vicesindaco a scendere. Urge buon senso. Certo non si può chiedere alla Sindaca di costruire una giunta solo con il consenso del direttorio del movimento; ha tutto il diritto di scegliere i collaboratori per gli incarichi di natura fiduciaria, ma è pur vero che non può essere ignorata la sensibilità del Consiglio Comunale e, dunque, del Movimento romano.
E se non è realisticamente possibile ritenere obbligatoria l’adesione
al M5S da parte di ogni assessore o funzionario chiamato a lavorare in
giunta, nemmeno si può rivendicare il cambiamento e poi affidarsi a
persone e curricula ampiamente sperimentati nel flagello delle
precedenti amministrazioni.
In particolare desta inquietudine quel filo relazionale tra la Sindaca e gli studi legali Sammarco e Previti, che a Roma significano cose precise e affatto gradevoli. Seppure la Raggi ha avuto esperienze professionali legate ai due studi - il che non è certo un reato - essi non possono riprodursi oggi, meccanicamente, in un contesto che è, gioco forza, politico.
Questa crisi d’inizio lavori dovrebbe anche contribuire all’apertura di una riflessione interna al Movimento Cinque Stelle. In particolare nel riconsiderare a norma di codici il valore giuridico dell’apertura di un fascicolo in un regime di obbligatorietà dell’azione penale. Una ipotesi di reato comporta quasi in automatico successivi avvisi di garanzia che, come indica la loro stessa denominazione, sono uno strumento di garanzia, non l’anticamera di una condanna.
Va dato atto ai 5 Stelle di non appartenere alla folta schiera di coloro per i quali la legge per nemici si applica e per gli amici si interpreta. Ma il procedimento è vario e non può essere ricondotto alla semplificazione forcaiola. Un Pm non è un giudice e sovrapporre i ruoli è un errore che non può divenire un programma.
Senza una condanna, almeno in primo grado, equiparare la persona che riceve un avviso di garanzia ad un colpevole, equivale a definire che l’accertamento giudiziario non ha valore, per il semplice fatto di essere inseriti in un inchiesta dovrà portare ad una sentenza di colpevolezza.
Così ottenendo, per converso e paradossalmente, l’affermarsi subdolo della teoria per la quale se tutti sono colpevoli, allora nessuno lo è. Nemmeno i nemici.
http://www.altrenotizie.org/
Sarà Beppe Grillo, oggi, a chiudere la riunione fiume del Direttorio del M5S sul “caso Roma”. Ma quale che siano le deliberazioni che verranno adottate, una cosa è chiara: la guerra dei palazzinari e del partito trasversale delle olimpiadi, della gestione dei rifiuti e della manutenzione delle opere pubbliche, è ormai dichiarata. La dichiarazione di guerra del partito degli affari contro il Movimento 5 Stelle è stata affidata a giornali, radio e televisioni di proprietà o di complemento.
Il PD, che avrebbe milioni di motivi per tacere su Roma, urla e i giornali di riferimento del Premier ne diffondono la voce. La Sindaca, dal canto suo, pare prigioniera di errori suoi e dei suoi consiglieri. Insomma, Roma è stretta tra alcuni errori di gestione del governo della neo sindaca e l’aggressione mediatica della stampa di regime.
Ma il rumore di nemici non assolve gli errori grillini, frutto di mancanza di qualità politica e, ancor più, di comunicazione (anche se davvero il rapporto con i medi militarizzati non è questione da risolvere con qualche mago degli Uffici Stampa). L’impressione, fino ad oggi, è che il M5S e la stessa Raggi non avessero calcolato prima il peso di quello che sarebbe stata la reazione dei poteri forti alla vittoria di un governo contrario ai suoi interessi.
Governare Roma è certamente compito improbo. La mole dei problemi, che in una qualunque metropoli sono pari al suo volume, nel caso di Roma subiscono una ulteriore difficoltà per l’intreccio spaventoso di corruzione e incapacità delle amministrazioni precedenti. Il tutto poggiato su un letto di spine rappresentato da un debito mostruoso che oscilla tra i 13 e i 14 miliardi i Euro.
Dunque la neonata giunta Raggi ha di fronte a sé una difficoltà di gestione davvero impossibile da non riconoscere, su cui s’innesta una oggettiva scarsa esperienza. La competenza davvero non può essere rivendicata vista la sostanziale iniziazione del M5S e della sua Sindaca alla politica e all’amministrazione pubblica. Fatte salve infatti le legittime aspirazioni a governare da parte di chiunque, va ricordato - soprattutto ai Cinque Stelle - che il governo di un sistema complesso ha bisogno di competenze, professionalità, esperienze e abilità politiche.
Sì, politiche, perché diversamente da quanto sembra ormai essersi inculcatosi nel main stream in 20 anni di berlusconismo, governare non è questione tecnica, non è affare di gestione amministrativa. E’, invece, questione tutta politica, alla quale coerentemente si deve adeguare il modello di amministrazione e gestione che da quell’impostazione politica deriva. Certo, l’onestà e la trasparenza, cavalli di battaglia dei pentastellati, non possono mancare; ma queste sono una precondizione, non un programma di governo.
Ovviamente, nel contesto di una realtà criminogena ed incapace come quella dimostrata dalle amministrazioni che l’hanno preceduta, l’onestà del M5S ha giocato un ruolo preponderante al suo plebiscito, frutto soprattutto di un voto di castigo ai partiti “storici” più che una adesione al programma elettorale del M5S.
Ebbene, secondo molti, i primi due mesi della Giunta Raggi non hanno corrisposto alle attese. Anche qui si sconta più del dovuto la retorica dei “cento giorni”; una vulgata diffusa che non ha nessun motivo d’esistere, ma non è questo il punto. Anzi, va detto che la pulizia della città è risultata riscontrabile quanto apprezzabile, e l’obiezione per la quale sarebbe stato semplice pulire la città in quanto ad agosto una parte degli abitanti vanno in ferie, è un’autentica sciocchezza.
Se i romani vanno in ferie (sempre meno e per minor tempo) l’affluenza dei turisti è decuplicata rispetto agli altri mesi dell’anno, il che, sul piano numerico, pareggia i conti e oltre. Poi andrebbe ricordato che la schifosa gestione dell’Ama da Alemanno in poi non s’interrompeva nemmeno ad agosto, dunque meglio sorvolare.
Eppure, lo spettacolo offerto dalle correnti interne ai 5 Stelle di Roma non entusiasma. Si tratta ora di ripartire facendo tesoro degli errori. Non è possibile affrontare la macchina amministrativa del Campidoglio senza competenze e relazioni, ma queste non vivono solo negli avanzi delle giunte precedenti. Ci sono competenze e professionalità sparse che possono essere utilizzate con profitto.
Sono molte le zone d’ombra su quanto avviene, a cominciare dal ruolo dell’ ANAC che non si capisce a che titolo viene consultata, così come non è chiaro il ruolo di alcuni personaggi della giunta, dal vicesindaco a scendere. Urge buon senso. Certo non si può chiedere alla Sindaca di costruire una giunta solo con il consenso del direttorio del movimento; ha tutto il diritto di scegliere i collaboratori per gli incarichi di natura fiduciaria, ma è pur vero che non può essere ignorata la sensibilità del Consiglio Comunale e, dunque, del Movimento romano.
In particolare desta inquietudine quel filo relazionale tra la Sindaca e gli studi legali Sammarco e Previti, che a Roma significano cose precise e affatto gradevoli. Seppure la Raggi ha avuto esperienze professionali legate ai due studi - il che non è certo un reato - essi non possono riprodursi oggi, meccanicamente, in un contesto che è, gioco forza, politico.
Questa crisi d’inizio lavori dovrebbe anche contribuire all’apertura di una riflessione interna al Movimento Cinque Stelle. In particolare nel riconsiderare a norma di codici il valore giuridico dell’apertura di un fascicolo in un regime di obbligatorietà dell’azione penale. Una ipotesi di reato comporta quasi in automatico successivi avvisi di garanzia che, come indica la loro stessa denominazione, sono uno strumento di garanzia, non l’anticamera di una condanna.
Va dato atto ai 5 Stelle di non appartenere alla folta schiera di coloro per i quali la legge per nemici si applica e per gli amici si interpreta. Ma il procedimento è vario e non può essere ricondotto alla semplificazione forcaiola. Un Pm non è un giudice e sovrapporre i ruoli è un errore che non può divenire un programma.
Senza una condanna, almeno in primo grado, equiparare la persona che riceve un avviso di garanzia ad un colpevole, equivale a definire che l’accertamento giudiziario non ha valore, per il semplice fatto di essere inseriti in un inchiesta dovrà portare ad una sentenza di colpevolezza.
Così ottenendo, per converso e paradossalmente, l’affermarsi subdolo della teoria per la quale se tutti sono colpevoli, allora nessuno lo è. Nemmeno i nemici.
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martedì 6 settembre 2016
lunedì 5 settembre 2016
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domenica 4 settembre 2016
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