Si dice che dobbiamo “onorare” il
debito, altrimenti, ove lo Stato italiano non pagasse ciò sarebbe non
solo "disonorevole" ma causerebbe il default, la bancarotta, la
catastrofe economica, la fine del mondo. Si tratta di uno ragionamento
che non si sta in piedi, né dal punto di vista politico, né da quello
morale e, quel che è peggio, non ha alcun rigore scientifico. E’ uno spauracchio la cui validità è pari a quella della minaccia della dannazione perpetua dell’anima in caso di peccato mortale.
Ad
ogni peccato deve corrispondere una espiazione, come nel diritto ad
ogni reato una pena. Nell’un caso e nell’altro si tratta di meccanismi
per normare la vita associata. Chi decide cosa sia peccato o meno, cosa
sia lecito o meno, è sempre un’autorità costituita, sia essa ierocratica
o secolare, la quale infine, grazie al monopolio della forza, commina
la condanna e obbliga il reo a scontare la pena. Ove l’autorità
costituita, pur ostentando la propria terzietà, è invece sempre uno
strumento della classe dominante, o di un’alleanza delle classi
dominanti.
Lo spauracchio ideologico del default
Lo spauracchio ideologico del default
funge oggigiorno da peccato mortale, è il pretesto con cui la potenza
dominante, ovvero il capitalismo finanziario globale, minaccia gli stati
indebitati che in caso di ripudio essi verranno condannati all’inferno,
ove l’inferno è l’esclusione perpetua dai mercati finanziari
internazionali. Come se questa esclusione fosse una specie di embargo o
di blocco economico. Che si tratti di uno spauracchio, di una pistola
scarica, lo dimostra la storia dei numerosi default conosciuti in
epoca capitalistica, tra cui la serie di default a grappolo che negli
ultimi venti anni hanno riguardato svariati paesi tra cui la Russia, la
Turchia, le Tigri asiatiche, quasi tutta l’America latina, fino a quello
memorabile dell’Argentina del 2001.
Ma cos’è un default?
Esso consiste «... nell’inadempimento da parte di uno stato di
un’obbligazione per rimborso di capitale o pagamento di interessi alla
data di scadenza (o entro il periodo di moratoria prefissato). Questi
episodi includono i casi in cui il debito ristrutturato viene infine
estinto a condizioni meno favorevoli di quelle dell’obbligazione
originaria». [Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff. Questa volta è diverso, Il saggiatore 2009 p.38]
Esso non equivale quindi, sic et simpliciter, come si vuole far credere, alla bancarotta, al fallimento. E anche ove il default
diventasse un fallimento, ciò non può riguardare uno Stato. Come
affermò Walter Wriston, presidente del colosso americano Citibank «Gli
stati non falliscono», può fallire un’azienda, o una banca, non uno
Stato. Un’azienda o una banca vanno in bancarotta quando i debiti
accumulati sono tali che non possono essere rimborsati in alcun modo. I
creditori, grazie alla decisione dell’autorità giudiziaria, procedono
allora a pignorare e confiscare i beni patrimoniali del fallito nel
tentativo di recuperare le somme prestate. Il trasferimento di valore
dal debitore al creditore che prima sarebbe dovuto avvenire con il
pagamento di interessi, avviene ora con un atto forzoso, in base alla
regola Mors tua vita mea.
Uno
Stato non può fallire, a meno che non si verifichino quattro condizioni
allo stesso tempo: (1) che esso non disponga più di entrare fiscali e
le sue casse si prosciughino perché cittadini e imprese smettono di
pagare i tributi; (2) che tutta l’economia sottoposta alla sua
giurisdizione cessi di produrre beni e servizi; (3) che i patrimoni che
soggiacciono alla sua giurisdizione si volatilizzino; (4) che non possa
più battere moneta.
L’Italia
non può fallire perché di queste quattro condizioni ne sussiste
soltanto l'ultima, visto che da un decennio ha ceduto la sua sovranità
monetaria alla Bce. Non può fallire poiché anche in caso di recessione
grave l’economia italiana resterebbe pur sempre una grande potenza
mondiale, perché anche ove la recessione facesse diminuire le entrate
fiscali esse non potrebbero svanire, perché l’ammontare dei patrimoni
diretti e indiretti che cadono sotto la sua giurisdizione sono,
procapite, tra i più ingenti del pianeta —il patrimonio finanziario
totale degli italiani, ha un valore pari a 3.565 miliardi, due volte e
mezza il Pil, ed è così composto: obbligazioni, titoli esteri, fondi
d'investimento: 44,2%; Titoli di stato italiani: 5%; contante, cc,
depositi bancari e risparmio postale: 29,8%; assicurazioni e fondi
pensione: 17,7%; altro: 3%. [dati Bankitalia 2009]
Ma anche volendo stare al caso di un’azienda, per capire la differenza tra default
e fallimento, si prenda ad esempio il caso di un’impresa che, contratto
un debito con una banca, si trovi nell’impossibilità di rimborsare il
suo debito alla scadenza pattuita. Cosa fa la banca creditrice? La manda
in bancarotta confiscandogli i suoi beni col rischio di avere in
cambio un patrimonio illiquido aleatorio? Per niente! Analizza i suoi
bilanci, il rapporto tra fatturato e ricavi, apprezza i suoi asset,
cerca di capire di che natura sono le difficoltà dell’azienda in
questione. Sceglie quindi di negoziare il suo credito con il debitore,
dilazionando il rimborso, ricontrattando gli interessi ed eventualmente
il capitale. La massima a cui il creditore sempre si attiene è: meglio meno ma meglio. Ciò vale a maggior ragione in situazioni di credit crunch [blocco della moneta circolante], quando il fattore liquidità monetaria è in cima a ogni altra preoccupazione.
Quando
di mezzo c’è il debito sovrano di uno Stato ciò vale a maggior ragione.
Gli stati che non hanno "onorato" i loro debiti coi prestatori esteri,
sono andati in default ma non sono falliti, non hanno chiuso
affatto i battenti. Nessun “tribunale fallimentare internazionale”, che
infatti non esiste, ha posto loro i sigilli. Tranne rarissimi casi
—quattro in tutto, in cui lo stato creditore ha punito con l’aggressione
il debitore: guarda caso la Gran Bretagna e gli USA in veste di
creditori-aggressori. E nemmeno è vero che la “punizione” per gli stati
insolventi sia stata l’espulsione dai mercati internazionale dei
capitali. L’Argentina, che nel 2001 conobbe il default di debito estero
più grande sino ad allora conosciuto, è lì a dimostrarlo. V’è infine un
altro fattore macroscopico che salta agli occhi. Se l’insolvenza per
debito estero giunge solo dopo una bolla, un’abbuffata
finanziaria-speculativa, è altrettanto vero che dopo un default, pere certi versi proprio grazie ad esso, lo stato insolvente conosce una forte ripresa economica. Clamorosi sono i casi delle Tigri asiatiche, della Russia, del Messico, della Turchia, del Brasile e infine proprio dell’Argentina.
Il debito italiano, l’inganno del “debito sovrano” e il default.
Lo
stato è indebitato per la mastodontica cifra di 1.900 miliardi di euro
con chi ha acquistato i suoi titoli di stato. A questa cifra vanno
aggiunti gli interessi i quali vanno crescendo, e vanno crescendo non
perché lo Stato continui a spendere più di quanto incamera, ma a causa
dello smottamento dell’eurozona, il quale determina la fuga dei
creditori dal mercati finanziari europei.
Ma
chi detiene questi titoli. Fatta eccezione per una quota che era del 5%
(dato di tre anni fa e che al massimo è giunta al 10% nell'anno
corrente) in mano a cittadini e imprese italiani, tutto il resto, ovvero
più o meno il 90%, circola nei mercati finanziari mondiali, è transato
nelle borse, e dunque soggetto alle oscillazioni, ai capricci di questi
mercati —che, beninteso, non sono governati da una mano invisibile, ma
soggiacciono alle mosse e ai capricci dei predoni più grandi.
Per
la precisione il debito italiano è in mano a banche (tra cui le banche
centrali e la stessa Bce), fondi privati e sovrani, fondi ad alto
rischio [hedge], gruppi assicurativi, sia italiani che stranieri.
Di questo 85% di debito circa 60% è posseduto da creditori esteri,
mentre il 40% è posseduto da banche e assicurazioni italiane. Quando
parliamo di banche si devono intendere le grandi banche d’affari (o di
investimento) tipo Unicredit o Intesa, non le tradizionali banche
commerciali; banche che agiscono come i fondi speculativi, che
utilizzano i risparmi raccolti per moltiplicare i profitti, con
investimenti ad alto rischio. Le banche a cui è consentito, attraverso
il principio della leva [leverage], di poter investire (e
speculare per) cifre superiori di cinque, dieci o quindi volte il
capitale a loro disposizione. Questo è il meccanismo che sta alla base
dei fallimenti bancari, che secondo chi scrive saranno la miccia
dell’imminente collasso europeo —il caso della banca franco-belga DEXIA è
solo l’aperitivo.
Fu
responsabilità storica degli Amato, dei Draghi e dei Ciampi se a
partire dagli anni ’80, a globalizzazione montante, il debito pubblico
italiano, che era al 90% debito interno, diventò debito estero, venne
immesso nei mercati finanziari speculativi internazionali, e se fu
consentito alle banche di mutarsi da commerciali a d’affari, la qualcosa
andò in parallelo al colossale processo di concentrazione bancaria,
favorito dai governi “tecnici” e di centro-sinistra.
Si
trattò di due passaggi decisivi, di due trasformazioni gigantesche. In
ossequio alla libera circolazione dei capitali e al mito della
globalizzazione il sistema bancario italiano entrò con tutti e due i
piedi nella bisca del capitalismo-casinò, gettò la propria liquidità nel
gioco d’azzardo. Il debito pubblico, diventando da interno ad estero,
venne sottratto alla giurisdizione dello Stato. Qui l’inganno clamoroso
della locuzione di “Debito sovrano”: in verità lo Stato non è sovrano
del suo debito dal momento che questo è in mano alla speculazione
internazionale, e il suo andamento e i suoi rendimenti sfuggono del
tutto alla sovranità dello stato indebitato e dipendono dal mercato,
dalle mosse dei grandi squali della finanza predatoria. Nel contesto di
un sistema segnato dal predominio del capitale finanziario,
effettivamente sovrani sono soltanto i predoni-creditori, mentre stati
come l’Italia, a maggior ragione perché sovradeterminati in quanto
membri dell’Unione europea, sono stati-vassalli e per nulla sovrani.
La prima ragione per andare ad un default programmato
del debito estero ( che può declinarsi in varie forme, dal ripudio puro
e semplice, alla moratoria alla ristrutturazione negoziata) è quindi
propria questa: che solo attraverso questo ripudio lo Stato può
riconquistare una fetta della sua propria sovranità politica, cessando
di fungere da Stato-esattore anti-popolare per nome e per conto della
finanza predatoria internazionale.
La
seconda ragione per ripudiare il debito estero è lampante. Quali
benefici può avere il popolo italiano dal fatto che lo Stato agisce come
esattore di prima istanza per drenare risorse ingentissime a vantaggio
della finanza predatoria mondiale, anglosassone anzitutto? Nessuno.
“Onorare” questo debito equivale ad accettare una rapina, equivale anzi a
fornire denaro al predone malgrado quest’ultimo punti alla tempia una
pistola scarica. E’ come se uno fornisse al boia la corda con cui
impiccarsi. Il vantaggio del default programmato è che lo Stato
disporrebbe delle sue risorse, che non finirebbero nel Pozzo di San
Patrizio del capitalismo-casinò, ma potrebbero essere immesse nel
mercato interno, per realizzare un piano generale per il lavoro, per
sanare il paese dalle sue ferite strutturali, per finanziare la ricerca,
l’istruzione pubblica, lo stato sociale, o anche solo per permettere
alle aziende di finanziarsi a costi meno onerosi. Non c'è dubbio che un default, per
quanto autodeterminato e programmato implica un periodo di sacrifici
anche per le masse popolari, ma esso evita ad esse di subire un massacro
sociale di proporzioni epocali.
La
terza ragione di questo ripudio è che lungi dal rappresentare un
cataclisma, la temporanea fuoriuscita dai mercati finanziari di
capitale, può essere un grosso vantaggio. Stare in questi mercati può
essere relativamente conveniente in fasi di espansione dei mercati
finanziari, quando cioè si possono ottenere prestiti a tassi molto
vantaggiosi. Tutti gli indicatori mostrano che dopo il 2008 prendere
soldi in prestito sui mercati finanziari costa sempre più caro, che i
prestatori si comportano come cravattari, come strozzini. Gli interessi
che lo Stato deve pagare in questi giorni sono oramai al 7% (tre volte e
passa più alti della Germania: in barba al fatto che saremmo in
un’Unione!) con effetti devastanti per le imprese italiane che pagano
interessi sempre più cari quando chiedono soldi alle banche. Quello
greco è un caso clamoroso: se vuole vendere i suoi titoli a dieci anni
Atene è obbligata dai mercati a pagare il 25% di interessi. Se si tiene
conto che il Fmi presta soldi, anche a paesi a rischio come ad esempio
quelli africani ad un tasso del 3/5%, quello verso la Grecia è un caso
lampante di usura. Ci sarebbe da portare in tribunale come banditi tutti
i prestatori.
Si deve
uscire sì da questi mercati, riconvertendo il debito estero in interno,
rivendendo i titoli di stato ai cittadini italiani ad un tasso ad
esempio del 5%. Ciò che non solo metterebbe al riparo i risparmi degli
italiani (preoccupazione di cui tutti i globalisti si riempiono la
bocca), ma le casse dello Stato dalle scorribande della cleptocrazia
imperialista.
Che
fine fanno i debiti contratti dallo Stato con le banche? E qui veniamo
alla quarta ragione. Occorre nazionalizzare il sistema bancario e
passare ad una banca unica nazionale a gestione pubblica, con la
clausola che viene fatto divieto alle banche di agire come banche
d’affari. In caso di nazionalizzazione, di presa di possesso delle
banche creditrici da parte dello Stato, è evidente che lo stato
diventerebbe creditore di se stesso, ovvero il debito verrebbe
annullato. Dato che negli ultimi vent’anni le banche hanno spinto i
risparmiatori a sbarazzarsi dei tioli per comperare le loro proprie
obbligazioni, lo Stato si farebbe garante di questi risparmi
cristallizzati in obbligazioni bancarie, convertendoli appunto in titoli
di stato.
La quinta ragione è che un default programmato
unilaterale, data la consistenza dell’economia e del debito italiani,
manderebbe all’aria l’eurozona e spingerebbe, non solo noi, a ritornare
alla sovranità monetaria, a battere moneta in proprio, potendo così di
nuovo agire su una leva che ha una importanza straordinaria, sia dal
punto di vista politico che da quello squisitamente economico, in
funzione pro-ciclica o anticiclica. Che l’euro sia una gabbia mortale è
dimostrato, senza andare troppo lontano, dai paesi membri dell’Unione
europea che hanno mantenuto le loro valute nazionali: essi conoscono
quasi tutti una crescita del Pil mentre chi usa l’euro, ora anche la
Germania, sono in recessione. La sovranità monetaria, permettendo di
agire sui cambi (svalutazione) e sui prezzi (inflazione), consente di
agire sia sulle partite correnti (import-export) che sulla curva dei
debiti pubblici e quindi su come si ripartisce la ricchezza nazionale.