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nasce ad Ales (Oristano) il 22 gennaio 1891, dove trascorre un’infanzia funestata dall’incarcerazione del padre (per un atto di ‘giustizia trafficata’ in seguito alle elezioni del marzo 1897), dalle conseguenti difficoltà economiche che non lo abbandoneranno per molto tempo e da una caduta che poco dopo sarà forse la causa di una malformazione irreversibile alla colonna vertebrale. Col procedere dell’indebolimento fisico tenderà a diventare ‘tutto cervello’. Dalla sua compagna, Julka Schucht, conosciuta a Mosca nel ’22, ebbe due figli. Le sue prime esperienze come giornalista le ebbe ancora giovane a Cagliari come corrispondente dell’ ‘Unione Sarda’. Dopo aver preso il diploma si trasferì Torino per frequentare l’Università, grazie a una borsa di studio per studenti poveri che vinse in regolare concorso (9° Gramsci, 2° Togliatti, vengono entrambi dalla Sardegna e da allora inizia la loro amicizia). Le privazioni, la denutrizione e il freddo gli procurano un esaurimento fisico, ma non gli spengono la curiosità intellettuale. Fa amicizia con Tasca, l’unico dell’ambiente studentesco ad avere interessi politici, e con Terracini. Nel 1919 fonderanno insieme il settimanale (e dal gennaio 1921 quotidiano) “Ordine Nuovo“. E’ attento a Croce, perché antipositivista e quindi antideterminista, e proverà per lui sempre grande ammirazione per l’importanza data alla sovrastruttura, alla cultura, nel rapporto dialettico con la struttura economica, che in Gramsci diventerà esaltazione del ruolo dell’Intellettuale. Lasciata l’Università nel ’15, segue con passione gli scioperi contro la guerra e si dedica al giornalismo da socialista, ma non firma gli articoli. Il suo idealismo giovanile si esprime col rifiuto del determinismo positivista proprio della “pseudo-scienza”, ma anche del riformismo e del massimalismo socialista della II Internazionale, e con l’esaltazione del volontarismo dei bolscevichi e della soggettività (La rivoluzione contro il capitale, 1918). Si nota già l’antidogmatismo nei confronti del marxismo, che rimarrà uno dei tratti tipici del suo pensiero fino alla morte. In occasione dell’occupazione delle fabbriche del ’20 il gruppo di ‘Ordine Nuovo‘ riesce ad orientare le lotte della classe operaia torinese: considera le Commissioni interne presenti nella fabbrica l’embrione della democrazia consiliare, dei soviet, come autogoverno dei produttori, e quindi del governo operaio. La sconfitta lo fa riflettere sulla necessità del Partito per dirigere i movimenti sociali; isolato nel partito, in contrasto con Bordiga, Tasca, Terracini e Togliatti sui Consigli di fabbrica, sul partito rivoluzionario, sull’atteggiamento dei Socialisti, è convinto che ‘la fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere da parte del proletariato rivoluzionario […] o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria assieme alla classe governativa e nessuna violenza sarà trascurata’. Al Congresso di Livorno del 1921 c’è la rottura coi Socialisti riformisti e la costituzione del P.C.d’I, anche dietro invito dell’Internazionale ad espellere dal partito socialista i riformisti. Intanto numerosi sono gli arresti nel P.C.d’I., tanto da disgregare il vecchio gruppo di ‘Ordine Nuovo‘ e lo stesso gruppo dirigente del partito, già lacerato da forti contrasti interni e, sotto la direzione di Bordiga, molto restio a seguire le direttive dell’Internazionale che arriva a sostituirlo d’autorità alla direzione del partito con Gramsci, l’uomo del ‘dialogo’. Gramsci attuerà quella politica centrista voluta dall’Internazionale ormai stalinizzata e volta non più a portare avanti gli interessi della rivoluzione proletaria internazionale, quanto piuttosto a difendere gli interessi interni dello stato russo. A febbraio del ’24 esce il primo numero de ‘L’Unità‘ e a maggio Gramsci viene eletto deputato in Veneto e gode pertanto dell’immunità parlamentare. Nonostante ciò viene comunque arrestato nel 1926. Il lungo periodo di prigionia a cui verrà sottoposto lo allontanò dalla politica attiva e lo costrinse ad occuparsi, dal carcere, di questioni per lo più storiche e filosofiche (incentrate per lo più sullo studio dell’importanza del ruolo dell’ “intellettuale”). Per questo motivo non si hanno elementi certi sul suo rapporto con lo stalinismo e con l’Opposizione di sinistra. Certo è che inizialmente si oppose a questa ed a Bordiga, ogni tanto però rispuntano documenti che comproverebbero un suo cambiamento di rotta nei rapporti con l’originario leader dei comunisti italiani.Grazie all’attività a Roma di Tatiana Schucht, sorella della moglie Giulia, viene organizzato dagli antifascisti un Comitato internazionale per la salvezza di Gramsci. Nonostante le forti pressioni, il governo fascista gli concede solo il trasferimento al carcere-ospedale di Formia e poi alla clinica Quisisana di Roma, dove Gramsci muore il 27 aprile 1937. Onorato Damen, suo compagno di partito ed in seguito fondatore del Partito Comunista Internazionalista, non manca (come altri marxisti) di ritrovare in egli una visione troppo idealista (quindi non materialista e non marxista) e, soprattutto, pur lodando i sui pregi morali e umani di Gramsci, Damen non manca di rilevare come ciò “non salva Gramsci dalle precise accuse di aver aggiogato il Partito alle esigenze non di una autentica Internazionale rivoluzionaria, ma a quelle di una politica contingente dello Stato russo, anche se operaio”.
L’insegnamento di Gramsci oggi.
Leggere e studiare Gramsci è un’avventura per molti versi difficile ed eccitante. Com’è noto i suoi scritti del carcere sono una serie quasi di appunti sparsi, in cui ci si può addentrare o seguendo l’ordine cronologico, oppure seguendo le chiavi di lettura delle edizioni critiche che propongono degli assemblaggi scelti dagli editori tra prime, seconde e a volte anche terze riscritture dell’Autore. La prima modalità è certamente la più avvincente: la sensazione è quella di essere presi per mano ed essere condotti in una foresta di pensieri di rara profondità, talvolta legati all’attualità che Gramsci viveva nel suo tempo, talvolta con spunti profondamente attinenti all’attualità odierna. La seconda modalità è certamente quella più agevole ed efficiente per il lettore che, come sempre più spesso accade, può dedicare un tempo limitato a questa lettura.
Su Gramsci è stato scritto molto, moltissimo, molto di più di quanto lui stesso abbia scritto. Questo è un bene, perché ha tenuto il suo pensiero al centro dell’attenzione del mondo politico e culturale italiano e, molto di più, non italiano. Ma purtroppo bisogna dire che le cose che sono state scritte sul suo pensiero e sulla sua vita sono state spesso motivate da disegni ideologici e politici che si sono sovrapposte al pensiero originario del grande rivoluzionario e dirigente politico. Pertanto il nostro parere è: se non avete mai letto qualcosa su Gramsci, non cominciate a farlo ora e iniziate a leggere direttamente le sue pagine: vi affascineranno e troverete da soli i vostri spunti di riflessione. Se invece siete già stati sommersi dalle tante polemiche che sono nate dalla prima pubblicazione delle sue opere a oggi, forse sarebbe il caso di ascoltare il nostro punto di vista. C’è tanto da confutare nelle cose che sono state scritte su Gramsci, sulla sua vita e sulle sue opere, e non si può fare che sommariamente nelle poche pagine che ci ritagliamo qui.
Sulla vita. Come mai Gramsci scrive febbrilmente nei primi anni del carcere e poi si dedica quasi esclusivamente a rivedere i testi da lui scritti, sostanzialmente non producendo nulla di nuovo? Come mai nei due anni di vita dopo l’uscita dal carcere non riprende la scrittura, sebbene sottoposto a libertà vigilata, ma certo in condizioni molto più libere di quelle carcerarie? Sono state imbastite delle vere e proprie spy- story su questi fatti, che coinvolgono il rapporto di Gramsci col Partito Comunista d’Italia e in particolare con Togliatti, col Partito Comunista dell’URSS, storie tutte centrate su un unico assunto: Gramsci durante la prigionia cominciò a dissentire dalla politica ufficiale dell’Internazionale Comunista, ma non poteva rivelarlo perché ricattato in Italia a causa della sua condizione e in URSS a causa della presenza in quel paese della moglie. La base documentaria di queste ipotesi sta sostanzialmente in una sola lettera, quella in cui Gramsci auspicava che nel partito bolscevico si ritrovasse l’unità in seguito ai violenti scontri ideologici e politici che coinvolsero la sua dirigenza. Chiunque avesse mai letto le pagine dei Quaderni potrà sempre e solo trovare critiche anche pesanti al pensiero di Trotskij (chiamato nel suo linguaggio crittografico col nome di Leone Davidovi) e apprezzamenti senza riserve per l’opera politica e ideologica di Giuseppe Bessarione (Josif Stalin), definito il più genuino interprete attuale della filosofia della prassi (il materialismo dialettico). Anche la polemica che si è sollevata riguardante la scomparsa dell’ultimo dei suoi quaderni lascia molto perplessi: ammesso che i quaderni siano 30 e non 29, in questo quaderno mancante (o sottratto) cosa mai ci sarebbe stato? Qualcosa che contraddiceva a tal punto i primi da risultare così scomodo per i dirigenti comunisti sovietici e italiani? Insomma illazioni che non hanno alcuna base documentale.
Quanto alle condizioni di salute di Gramsci, negli ultimi anni di detenzione e durante il periodo di libertà vigilata in clinica, erano talmente precarie da giustificare ampiamente la sua impossibilità di dedicarsi a nuovi approfondimenti o anche solo a poter leggere o scrivere, almeno con la profondità dimostrata nei primi anni. Questo è documentato dalla semplice lettura della cronistoria dei suoi quaderni e anche dalla distribuzione temporale dei nuovi scritti e delle riletture. E questo dovrebbe mettere a tacere ogni illazione su dissidi, ricatti e altre assurdità che possono avere cittadinanza su romanzi di fantascienza politica ma non su seri studi di critica politica.
Sulla ideologia. È stato, ed è tutt’oggi, molto in voga classificare Gramsci come pensatore, come filosofo. E in particolare associarlo al filone idealista italiano, che vede in Benedetto Croce il suo massimo esponente. È vero che Gramsci non può che partire dalla lettura del massimo e più influente filosofo italiano vivente all’epoca, ma qual è il suo rapporto con lui? Questo rapporto è stato paragonato a quello che Marx ha avuto con Hegel, ossia – si dice – del più fedele discepolo che ha continuato la sua opera. Ora ciò si afferma in barba a tutti gli scritti che Marx e Engels, dal loro lato, e Gramsci, dal suo, hanno prodotto. Ma forse non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Come tutti i lettori di Marx ed Engels sanno, il materialismo dialettico è il ribaltamento della dialettica idealista, è la restituzione del meccanismo dialettico dal mondo delle idee a quello della materia, ma soprattutto è un ribaltamento che riporta il pensiero, la filosofia, dalla sterile speculazione alla prassi, all’azione: è benzina per l’azione politica del proletariato. Marx ed Engels non sono filosofi, sono dirigenti politici della classe operaia, non lo sono per loro espressa dichiarazione, ma soprattutto per la loro storia politica. Lo stesso va detto con forza di Gramsci, con le sue stesse parole: «Si potrebbe scrivere un nuovo Anti-Dühring che potrebbe essere un “Anti-Croce” da questo punto di vista, riassumendo non solo la polemica contro la filosofia speculativa, ma anche quella contro il positivismo e il meccanicismo e le forme deteriori della filosofia della prassi.» (Quaderno 8). Non bastano le ripetute affermazioni del Gramsci del carcere, in cui esplicitamente dice che la sua filosofia della prassi è il materialismo dialettico, quello fondato da Marx e che vedeva allora in Stalin il più fedele interprete? Non bastano le pagine di vere lezioni di materialismo storico che Gramsci ci impartisce sul Risorgimento italiano e la sua impareggiabile analisi di classe, sul rapporti tra intellettuali e classi, sul fordismo e le origini e le ricadute che esso ha sulla base materiale americana e sulla sua sovrastruttura? Purtroppo, una volta che si è andata affermando questa falsità, molti filosofi e politici italiani e non, che – invece di partire dalla lettura critica di Gramsci – si sono adagiati su questa lettura fatta da altri, hanno finito per regalare Gramsci all’idealismo, anziché difenderlo come grande dirigente del movimento comunista internazionale che ha nel materialismo storico e dialettico il suo strumento di lotta più affilato.
Sulla politica. Qui le cose si fanno ancora più complicate, perché si intersecano con tutta la storia del PCI dall’immediato dopoguerra, fino al suo scioglimento.
Gramsci è l’antesignano delle “vie nazionali al socialismo”? La sua concezione della conquista dell'”egemonia” e della guerra di posizione che conquista una “casamatta” dietro l’altra, sottraendola al nemico, è l’antesignana politica della “lunga marcia nelle istituzioni” che il PCI iniziò al momento della famosa “svolta di Salerno”? La sua concezione della “società civile”, dell'”Occidente” contrapposto all'”Oriente”, è una concezione interclassista che rigetta la dittatura del proletariato e prefigura una alleanza tra “produttori” che contrasta le forze reazionarie intese solo come quelle “parassitarie”? Noi crediamo fermamente di no. Questa lettura è profondamente sbagliata.
Basta leggere le pagine di Gramsci nell’originale per rendersi conto di quanto profondamente marxista-leninista fosse il suo pensiero, di quanto tutta la sua analisi fosse volta a scoprire le crepe di un sistema capitalistico-imperialista, che in Europa era riuscito a frenare l’impeto rivoluzionario e passava al contrattacco, di quanto la sua concezione del Partito e dello Stato fosse indirizzata sempre e solo alla conquista del potere politico da parte dell’avanguardia rivoluzionaria.
Chi aveva interesse a piegare, a torcere il suo pensiero per scopi legati all’attualità e per giustificare e trovare “padri nobili” alle proprie scelte politiche, fece un’operazione – prima di tutto culturale – che segnò pesantemente l’influenza che Gramsci ebbe in Italia e che invece avrebbe potuto avere tutt’altro segno. Anche la scelta di inserire Gramsci nell’empireo dei “pensatori” italiani, persino dei grandi “scrittori”, fu una scelta tesa ad accreditare il PCI come grande partito “nazionale” e i suoi dirigenti come fondatori della nuova società italiana che usciva dal fascismo. La scelta di quella politica imposta a tutto il Partito comunista italiano, l’idea che si potessero “spostare gli equilibri” su un terreno più “avanzato” fa parte della revisione politico-ideologica che abbiamo analizzato nelle pagine precedenti.
La lettura di Gramsci, del Gramsci vero, del grande dirigente del proletariato italiano e internazionale, del grande teorico del marxismo-leninismo, è quello che noi oggi sottoponiamo all’attenzione del proletariato internazionale, dei popoli antimperialisti e anticapitalisti, che vedono nel socialismo la prospettiva rivoluzionaria che può e deve cambiare il mondo.
Necessità di una politica ideologica di massa
Antonio Gramsci ha sempre attribuito un’importanza rilevante alla preparazione ideologica non solo dei militanti comunisti ma delle stesse masse popolari, al fine di condurre una efficace lotta contro il capitalismo e per il socialismo.
In uno scritto del maggio 1925 pubblicato su ” Lo Stato operaio ” del marzo-aprile 1931 egli afferma infatti che: “Noi sappiamo che la lotta del proletariato contro il capitalismo si svolge su tre fronti: quello economico, quello politico e quello ideologico, ma la lotta economica non può essere disgiunta dalla lotta politica, e né l’una né l’altra possono essere disgiunte dalla lotta ideologica. Perché la lotta sindacale, diventi un fattore rivoluzionario, occorre che il proletariato l’accompagni con la lotta politica, cioè che il proletariato abbia coscienza di essere il protagonista di una lotta generale che investe tutte le questioni più vitali dell’organizzazione sociale, cioè abbia coscienza di lottare per il socialismo. I tre fronti della lotta proletaria si riducono ad uno solo, per il Partito della classe operaia, che è tale, appunto, perché riassume e rappresenta tutte le esigenze della lotta generale. Perciò il Partito deve assimilare il marxismo e deve assimilarlo nella sua forma attuale, come leninismo.”
Aspra e sferzante è infatti, a questo proposito, la critica di Gramsci alle tradizioni del movimento operaio italiano: “L’attività teorica, la lotta cioè sul fronte ideologico, è sempre stata trascurata nel movimento operaio italiano. In Italia, il marxismo (all’infuori di Antonio Labriola) è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai rivoluzionari. Mai, le Direzioni del Partito immaginarono che per lottare contro la ideologia borghese, per liberare cioè le masse dalla influenza del capitalismo, occorresse prima diffondere nel Partito stesso la dottrina marxista ed occorresse difenderla da ogni contraffazione. Per lottare, quindi, contro la confusione che si è andata in tal modo creando, è necessario che il Partito intensifichi e renda sistematica la sua attività nel campo ideologico, che esso ponga come un dovere del militante la conoscenza della dottrina del marxismo-leninismo, almeno nei suoi termini più generali.”
E ancora, sempre nello stesso scritto, in merito all’organizzazione del Partito: “Il nostro Partito non è un partito democratico, almeno nel senso volgare che comunemente si dà a questa parola. E’ un Partito centralizzato nazionalmente ed internazionalmente. Perché il Partito viva e sia a contatto con le masse occorre che ogni membro del Partito sia un elemento politico attivo, sia un dirigente. Appunto perché il Partito è fortemente centralizzato, si domanda una vasta opera di propaganda e di agitazione nelle sue file, è necessario che il Partito, in modo organizzato, educhi i suoi membri e ne elevi il livello ideologico per guidare, in qualunque condizione, la lotta della classe operaia e delle masse popolari. La preparazione ideologica di massa è quindi una necessità della lotta rivoluzionaria, è una delle condizioni indispensabili della vittoria.”
Il Partito Comunista In diversi momenti della sua vicenda politica ed umana, Antonio Gramsci ha trattato il tema della funzione storica e dell’organizzazione del Partito Comunista. In un articolo pubblicato su ” L’Ordine Nuovo ” del 4 settembre e 9 ottobre del 1920 egli afferma : “Il Partito Comunista è lo strumento e la forma storica del processo di intima liberazione per cui l’operaio da esecutore diviene iniziatore, da massa diviene capo e guida, da braccio diviene cervello e volontà; nella formazione del Partito Comunista è dato cogliere il germe di libertà che avrà il suo sviluppo e la sua piena espansione dopo che lo Stato operaio avrà organizzato le condizioni materiali necessarie. Il Partito Comunista, anche come mera organizzazione si è rivelato forma particolare della rivoluzione proletaria, compiuta dagli uomini e dalle donne organizzati nel Partito Comunista, che nel Partito si sono plasmati una personalità nuova, hanno acquistato nuovi sentimenti, hanno realizzato una vita morale che tende a divenire coscienza universale e fine per tutta l’umanità.”
E, ancora, in un articolo su “L’Ordine Nuovo” dell’11 giugno 1921: “Il Partito comunista è il partito politico, storicamente determinato, della classe operaia rivoluzionaria. La classe operaia è nata e s’è organizzata sul terreno della democrazia borghese, nel quadro del regime costituzionale e parlamentare. Ecco perché,nelle varie fasi del suo sviluppo, essa ha appoggiato i partiti politici più diversi. Con la creazione del Partito Comunista, la classe operaia rompe tutte le tradizioni ed afferma la sua maturità politica. Essa vuole lavorare positivamente per il proprio sviluppo autonomo di classe; essa pone la sua candidatura a classe dirigente ed afferma di poter esercitare questa funzione storica solo in un ambiente istituzionale diverso dall’attuale, in un nuovo sistema statale e non già nel quadro dello Stato parlamentare burocratico.”
Sindacati e Consigli
Il ruolo dei consigli di fabbrica come cellula del futuro Stato operaio è stato uno dei temi su cui Antonio Gramsci ha più riflettuto e scritto. Così, nell’editoriale de “L’Ordine Nuovo” del 11 ottobre 1919 leggiamo: “L’organizzazione proletaria che si riassume, come espressione totale della massa operaia e contadina, negli uffici centrali della Confederazione del Lavoro, attraversa una crisi costituzionale. Gli operai sentono che il complesso della ” loro ” organizzazione è diventato tale enorme apparato, che ha finito per ubbidire a leggi proprie, intime alla sua struttura ed al suo complicato funzionamento, ma estranee alla massa che ha acquistato coscienza della sua missione storica di classe rivoluzionaria.
La dittatura proletaria può incarnarsi in un tipo di organizzazione che sia specifico della attività propria dei produttori e non dei salariati, schiavi del capitale. Il Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione. Poiché nel Consiglio tutte le branche del lavoro sono rappresentate, proporzionalmente al contributo che ogni mestiere ed ogni branca di lavoro dà alla elaborazione dell’oggetto che la fabbrica produce per la collettività, l’istituzione è di classe e sociale. Perciò il Consiglio realizza l’unità della classe lavoratrice, da alle masse una coesione ed una forma della stessa natura di quella da esse assunte nella organizzazione generale della società. Il Consiglio di Fabbrica è il modello dello Stato proletario. L’esistenza del Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia.”
Il Vaticano e l’Italia
Particolarmente netto ed inequivocabile è il giudizio di Antonio Gramsci sul Concordato fra Stato italiano ed il Vaticano compreso nei Patti Lateranensi siglati l’11 febbraio 1929 fra regime fascista e Chiesa Cattolica. Nei ” Quaderni del carcere”, infatti leggiamo: “La capitolazione dello Stato moderno che si verifica per il concordato viene mascherata identificando verbalmente concordato e trattati internazionali. Ma un concordato non è un comune trattato internazionale: nel concordato si realizza, di fatto, una interferenza di sovranità in un solo territorio statale, poiché tutti gli articoli di un concordato si riferiscono ai cittadini di uno solo degli stati contraenti, sui quali il potere sovrano di uno Stato estero giustifica e rivendica determinati diritti e poteri di giurisdizione. Il concordato intacca in modo essenziale il carattere di autonomia della sovranità dello Stato moderno. La Chiesa, in cambio, si impegna verso una determinata forma di governo di promuovere quel consenso di una parte dei governati che lo Stato esplicitamente riconosce di non poter ottenere con mezzi propri, mentre quest’ultimo riconosce pubblicamente ad una casta di suoi cittadini determinati privilegi politici.”
La questione meridionale
A questo tema dedichiamo un ampio capitolo di questo documento, frutto delle riflessioni aggiornate e della ricerca dei nostri militanti. Qui ci limitiamo, quindi, a citare un brano de “L’Ordine Nuovo” del 3 gennaio 1920 che dimostra la concretezza programmatica del pensiero di Gramsci come base per la formazione di un blocco sociale di alleanza popolare. “La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica,emanciperà le masse contadine meridionali asservite alla banca ed all’industrialismo parassitario del Settentrione. La rigenerazione economica e politica dei contadini non deve essere ricercata in una divisione delle terre incolte e mal coltivate, ma nella solidarietà del proletariato industriale, che ha bisogno, a sua volta, della solidarietà dei contadini, che ha interesse a che il capitalismo non rinasca economicamente dalla proprietà terriera e che l’Italia meridionale e le isole non diventino una base militare di controrivoluzione capitalistica. Imponendo il controllo operaio sull’industria, il proletariato rivolgerà l’industria alla produzione di macchine agricole per i contadini di stoffe e calzature per i contadini, di energia elettrica per i contadini; impedirà che , più oltre, l’industria e la banca sfruttino i contadini e li soggioghino come schiavi alle loro casseforti. Spezzando l’autocrazia nella fabbrica, spezzando l’apparato oppressivo dello Stato capitalistico, instaurando lo Stato operaio che soggioghi i capitalisti alla legge del lavoro utile, gli operai spezzeranno tutte le catene che tengono avvinghiato il contadino alla sua miseria, alla sua disperazione; instaurando la dittatura operaia, avendo in mano le industrie e le banche,il proletariato rivolgerà l’enorme potenza dell’organizzazione statale per sostenere i contadini nella loro lotta contro i proprietari, contro la natura, contro la miseria; darà il credito ai contadini, instituirà le cooperative, garantirà la sicurezza personale e dei beni contro i saccheggiatori, farà le spese pubbliche di risanamento e di irrigazione. Farà tutto questo perché è suo interesse dare incremento alla produzione agricola, avere e conservare la solidarietà delle masse contadine, rivolgere la produzione industriale a lavoro utile di pace e di fratellanza fra città e campagna, tra Settentrione e Mezzogiorno“.
In merito al confronto ideologico nel PCU(b)
Nella seconda metà degli anni ’20, nel PCU(b) (che diventerà PCUS nel 1952) divampa un duro scontro politico sulle modalità e le forme di costruzione del socialismo che vedono contrapposte la maggioranza guidata da Stalin e la minoranza guidata da Trockij, Zinov’ev e Kamenev. Antonio Gramsci il 14 ottobre 1926 scrive una lettera riservata, da lui firmata a nome dell’Ufficio Politico del PCdI ed inviata a Mosca. In essa, dopo aver espresso attenzione e preoccupazione si afferma: “L’Ufficio Politico del PCdI ha studiato, con la maggiore diligenza ed attenzione che le erano consentite, tutti i problemi che oggi sono in discussione nel Partito Comunista dell’ Unione. Noi, finora abbiamo espresso un’opinione di Partito solo sulla questione strettamente disciplinare delle frazioni. Dichiariamo ora che riteniamo fondamentalmente giusta la linea politica della maggioranza del CC del Partito Comunista dell’ Unione. Ci impressiona il fatto che l’atteggiamento delle opposizioni investa tutta la linea politica del CC toccando il cuore stesso della dottrina leninista e dell’azione politica del Partito dell’Unione. E’ il principio e la pratica della dittatura del proletariato che vengono posti in discussione, sono i rapporti fondamentali di alleanza tra operai e contadini che vengono turbati e messi in pericolo, cioè i pilastri dello Stato operaio e della Rivoluzione. E’ questo per noi l’elemento essenziale delle vostre discussioni, è in questo elemento la radice degli errori del blocco delle opposizioni e l’origine dei pericoli latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella ideologia e nella pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della socialdemocrazia e del sindacalismo, che ha impedito finora al proletariato occidentale di organizzarsi in classe dirigente.“. Il pieno appoggio alla linea della maggioranza del CC del PCU(b), guidata da Stalin, smentisce il presunto antistalinismo, in mala fede attribuito a Gramsci dai suoi esegeti opportunisti e revisionisti, fuori e dentro il PCI.
Egemonia, guerra manovrata e guerra di posizione
Una delle più disoneste manipolazioni del pensiero gramsciano, forse la peggiore, viene attuata dai suoi esegeti revisionisti distorcendo il concetto di egemonia, centrale in tutta la sua elaborazione, contrapponendolo al concetto leninista di dittatura proletaria. Lo scopo dell’operazione consiste nel tentativo di attribuire a Gramsci la paternità ideale e teorica dell’accettazione revisionista e opportunista della democrazia borghese, del parlamentarismo e delle forme legali di lotta come valori universali. Partendo da una falsa contrapposizione del “Gramsci immaturo”, cioè del dirigente rivoluzionario dell’Ordine Nuovo e delle lotte del Biennio Rosso, al “Gramsci maturo” delle riflessioni carcerarie, ridotto al ruolo di filosofo speculativo, i revisionisti cercano di spacciare il naturale sviluppo, anche autocritico, del pensiero gramsciano in merito alla sconfitta delle insurrezioni operaie del 1919-1920 come un “salto” (Paolo Spriano), una presa di distanza dalla teoria rivoluzionaria di tipo leninista.
Certamente, la manipolazione viene resa più facile dal linguaggio in codice che Gramsci è costretto ad usare per evitare le maglie della censura carceraria, per cui, in tutti i suoi scritti dalla prigionia, uno stesso termine viene utilizzato con significati diversi, a volte etimologici, altre volte come alias di concetti che, per ragioni di sicurezza, non potevano essere definiti col loro nome. Tuttavia, una lettura attenta e priva di malafede consente di desumere dal contesto il giusto significato.
E’ il caso del concetto di egemonia. In alcuni casi viene usato con il significato etimologico di “guida, capacità di direzione”, in altri è sinonimo criptato di dittatura proletaria. Su questa apparente ambiguità il revisionismo ha imbastito l’assurdo teorema della presunta opzione gramsciana per uno stato operaio, basato sulla sola creazione del consenso, che di fatto riconoscerebbe la democrazia borghese, i suoi istituti e i suoi principi come valori universali, cioè a prescindere dal loro contenuto di classe. Nulla di più falso! Lasciamo alle parole di Gramsci il compito di confutare questa menzogna: “... la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come «dominio» e come «direzione intellettuale e morale». Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a «liquidare» o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini o alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene saldamente in pugno, diventa dominante, ma deve continuare ad essere anche «dirigente»” (A. Gramsci, Quaderni del Carcere, ed. Einaudi 1975, p. 2010-2011).
Nel concetto di egemonia, Gramsci sottolinea l’unità dialettica tra dominio e direzione, tra coercizione e consenso, tra forza e convinzione e, così facendo, ribadisce la concezione leniniana della dittatura proletaria come la più alta forma di creazione del consenso all’interno del blocco sociale coagulato intorno alla classe operaia, ma anche come la più implacabile forma di coercizione, anche violenta, del blocco avversario. E ancora: “Il proletariato può diventare classe dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice…” (A. Gramsci, La costruzione del Partito Comunista, ed. Einaudi, 1971, p. 140).
E’ la riproposizione della politica delle alleanze della classe operaia concepita da Lenin come condizione imprescindibile per il successo della rivoluzione e l’instaurazione della dittatura proletaria. Gramsci, giustamente, si sofferma spesso sulla componente consensuale dell’egemonia, in quanto cruciale per la creazione e la tenuta del blocco sociale rivoluzionario. L’esercizio dell’egemonia dipende dalla capacità di “dare soluzioni concrete ai problemi concreti” delle masse non proletarie, di far comprendere loro che l’attuazione degli interessi proletari coincide con la realizzazione dei loro stessi interessi, che la classe operaia, liberando sé stessa, libera l’intera società. L’egemonia è quindi anche capacità “… di conservare l’unità ideologica di tutto il blocco sociale che appunto da quella determinata ideologia è cementato e unificato.” (A. Gramsci, Il Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Editori Riuniti, p. 7), allo scopo di mantenere unito un blocco sociale disomogeneo e con contraddizioni di classe interne (pensiamo, ad esempio, alla contraddizione tra l’elemento operaio e quello piccolo-borghese contadino). In qualsiasi blocco sociale, questa “universalità” della classe egemone è affermata dagli intellettuali a lei organici, la cui funzione è appunto quella di garantire la tenuta e la compattezza del blocco sociale sul piano ideologico. Nel caso del proletariato, questa funzione è svolta dal partito rivoluzionario, il “moderno principe”, intellettuale collettivo organicamente legato alla classe operaia, che non si limita alla semplice creazione del consenso, ma agisce sulla realtà trasformandola, in un’inscindibile legame tra teoria e prassi, tra idea e azione.
Nella sua radicale critica al meccanicismo del marxismo volgare, Gramsci ammonisce che il capitalismo è in grado di superare anche la più rivoluzionaria delle crisi; il capitalismo non cade da solo se manca l’azione del soggetto rivoluzionario, cioè del partito e in questo individua le cause della sconfitta del Biennio Rosso 1919- 1920: le condizioni oggettivamente rivoluzionarie, determinatesi dopo la guerra imperialista mondiale, hanno dato vita ad un forte movimento insurrezionale del proletariato, la cui sconfitta è dovuta al difetto di condizioni soggettive, cioè alla mancanza di un partito rivoluzionario. Con buona pace dei revisionisti, Gramsci non ha alcun ripensamento né sul merito, né sulle forme di lotta, ma constata semplicemente il dato di fatto dell’assenza, in quella fase, di un partito comunista, capace di organizzare la lotta insurrezionale e guidarla alla vittoria.
Come in Gramsci è chiarissimo il ruolo dei consigli di fabbrica come embrione e modello della futura statualità proletaria, che ci autorizza “…ad affermare che il soviet è una forma universale e non è un istituto russo e solamente russo…” (A. Gramsci, Ordine Nuovo, ed. Einaudi, 1954, p. 147), così è altrettanto esplicita in lui la funzione del partito in condizioni di dittatura proletaria: “… il partito comunista educa il proletariato ad organizzare la sua potenza di classe e a servirsi di questa potenza armata per dominare la classe borghese e determinare le condizioni in cui la classe sfruttatrice sia soppressa e non possa rinascere. Il compito del partito comunista nella dittatura è dunque questo: organizzare potentemente e definitivamente la classe degli operai e dei contadini in classe dominante; controllare che tutti gli organismi del nuovo Stato svolgano realmente opera rivoluzionaria; rompere i diritti e i rapporti antichi inerenti al principio della proprietà privata” (A. Gramsci, Ordine Nuovo, ed. Einaudi, 1954, p. 42).
Un partito, quindi, che è fulcro e direzione del potere operaio, che ne verifica l’attuazione pratica e che si pone fuori e al di sopra della legalità e del diritto finora vigenti. Nulla a che vedere con la via revisionista, imboccata successivamente dai gruppi dirigenti del partito fondato da Gramsci.
L’altra grande mistificazione revisionista trae lo spunto da diversi scritti, in cui Gramsci analizza la fine della fase rivoluzionaria immediatamente successiva alla guerra imperialista mondiale e alla Rivoluzione d’Ottobre, in Italia e in Europa, ragionando di “guerra manovrata e guerra di posizione”. Premesso che dobbiamo avere sempre ben presente che si tratta di riflessioni esposte in forma di appunti, quindi prive di organicità, in una situazione di costrizione fisica e psicologica, le quali, pertanto, non possono assumere il valore di un’opera compiuta, redatta in condizioni di libertà, né tanto meno essere erette a dogma indiscutibile, anche in questo caso ci sembra comunque forzata in estrema malafede l’interpretazione che di questi concetti hanno dato i revisionisti. In posizione di forte critica all’interpretazione trotzkista della concezione marxiana di “rivoluzione permanente”, Gramsci scrive: “E’ da vedere se la famosa teoria di Bronstein [Trotzki] sulla permanenza del movimento non sia il riflesso politico della teoria della guerra manovrata …, in ultima analisi il riflesso delle condizioni generali-economiche-culturali-sociali di un paese in cui i quadri della vita nazionale sono embrionali e non possono diventare «trincea o fortezza». In questo caso, si potrebbe dire che Bronstein, che appare come un «occidentalista» era invece un cosmopolita, cioè superficialmente nazionale e superficialmente occidentalista o europeo. Invece Ilici [Lenin] era profondamente nazionale e profondamente europeo. … Mi pare che Ilici aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel 1917, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente … Questo mi pare significare la formula del «fronte unico» … In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente … lo Stato era solo una trincea avanzata dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale.” (A. Gramsci, Quaderni del Carcere, ed. Einaudi 1975, p. 866- 865). E ancora: ” Questa mi pare la questione di teoria politica la più importante, posta dal periodo del dopo guerra e la più difficile ad essere risolta giustamente. Essa è legata alle questioni sollevate dal Bronstein, che in un modo o nell’altro, può ritenersi il teorico politico dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatta. Solo indirettamente questo passaggio nella scienza politica è legato a quello avvenuto nel campo militare, sebbene certamente un legame esista ed essenziale. La guerra di posizione domanda enormi sacrifici a masse sterminate di popolazione; perciò è necessaria una concentrazione inaudita dell’egemonia e quindi una forma di governo più «intervenzionista», che più apertamente prenda l’offensiva contro gli oppositori e organizzi permanentemente «l’impossibilità» di disgregazione interna: controlli di ogni genere, politici, amministrativi ecc., rafforzamento delle «posizioni» egemoniche del gruppo dominante ecc. Tutto ciò indica che si è entrati in una fase culminante della situazione politico-storica, poiché nella politica la «guerra di posizione», una volta vinta, è decisiva definitivamente.” (A. Gramsci, Quaderni del Carcere, ed. Einaudi 1975, p. 801-802).
Anche di queste considerazioni di Gramsci si sono serviti, stravolgendole, i teorici revisionisti per affermare una sua presunta presa di distanza dall’esperienza dell’Ottobre sovietico e dell’insurrezione armata, attribuendogli, a sproposito, la paternità di una concezione gradualistica del processo rivoluzionario. Il tentativo manifesto della manipolazione è quello di dare nobili natali alle successive deviazioni revisioniste che hanno portato alla mutazione genetica e alla dissoluzione del PCI, dall’accettazione aprioristica della democrazia e della legalità borghesi, alla concezione di una via parlamentare al socialismo, alla partecipazione condivisa e convinta alle istituzioni dello Stato borghese, anche a quelle non elettive. Nulla di tutto ciò è presente nell’opera, teorica e pratica, di Gramsci.
Intanto, per capire la riflessione gramsciana, occorre tenere ancora una volta presente il momento storico in cui scrisse questi appunti, contenuti nei Quaderni N° 6 e N° 7, cioè dal 1930 al 1932 e, soprattutto, circoscriverla al reale oggetto di analisi. Sono passati più di dieci anni dalla sconfitta delle insurrezioni operaie del Biennio Rosso in Italia e dei tentativi rivoluzionari in Polonia, Ungheria e Germania. Il movimento operaio è uscito battuto da quelle esperienze, l’ondata rivoluzionaria si è arrestata, è iniziata una fase controrivoluzionaria, con l’ormai decennale affermazione del fascismo in Italia e l’ascesa del nazismo in Germania, il tentativo di fermare il fascismo sul piano militare, con l’esperienza degli Arditi del Popolo e delle Squadre d’Azione Comunista, è fallito. D’altro canto, l’Unione Sovietica non solo resiste, ma cresce. Su questi fatti, storicamente circoscritti, riflette Gramsci, valutando le tattiche che il movimento operaio aveva applicato nei dieci anni trascorsi dalla fine dei tentativi rivoluzionari, interrogandosi sulle ragioni della sconfitta. La riflessione avviene tenendo conto della lotta tra la linea della maggioranza del PCU(b), guidata da Stalin, contro le posizioni di Trotzki, ormai espulso dal partito e dall’Unione Sovietica.
Nel primo testo citato, Gramsci si riferisce al fallimento delle insurrezioni operaie in Europa – e solo a quelle -, non all’esperienza dell’Ottobre. Usa il passato, quindi non fa affermazioni a valenza generale, ma a valenza particolare, con precisa collocazione spazio-temporale; ragiona di tattica, non di strategia, cioè non mette in discussione né l’obiettivo (la dittatura proletaria), né il metodo in sé (l’insurrezione armata), ma acutamente rileva l’inadeguatezza dell’applicazione di una tattica in sé giusta nel momento sbagliato, cioè quando ormai era incominciata la fase controrivoluzionaria; giustamente fa notare l’assenza di una “ricognizione” preventiva, di un’analisi scientifica dei rapporti di forza reali all’interno di ciascun paese. E’ questa la lezione storica che Gramsci trae dalle vicende degli anni 1919-1920 in “Occidente”, cioè in Europa: la maggiore articolazione della società civile in questi paesi rispetto “all’Oriente”, alla Russia e il sostanziale equilibrio tra società civile e società politica, tra apparato di creazione del consenso e apparato di dominio, influiscono sui rapporti di forza tra le classi e rendono necessario un intenso ed efficace lavoro per la conquista dell’egemonia e la costruzione del blocco sociale rivoluzionario prima (prima, non invece!) dell’assalto frontale, per crearne le condizioni. In sostanza, una tattica non esclude l’altra, ma, a seconda della situazione reale, la guerra di posizione può servire a creare le condizioni soggettive per la guerra di movimento. Gramsci non dice che in Occidente l’unica tattica praticabile in qualsiasi tempo è quella della guerra di posizione, ma dice che nel 1919-1920, in quel preciso periodo storicamente determinato, questa sarebbe stata l’unica tattica applicabile in Europa.
Nel secondo brano riportato più sopra, Gramsci sviluppa ulteriormente ciò che Lenin aveva compreso già nel 1921, cioè che l’ondata rivoluzionaria si era arenata e che un assalto frontale al capitalismo in Europa sarebbe stato destinato al fallimento e avrebbe messo in pericolo la sopravvivenza stessa del primo stato proletario al mondo.
Lenin, Stalin e Gramsci, in forte sintonia e in contrapposizione all’avventurismo trotzkista, capiscono che è giunto il momento di passare alla guerra di posizione, cioè ad erigere quelle “trincee e casematte”, questa volta proletarie, che avrebbero consolidato la costruzione del socialismo “in un paese singolarmente preso”. Per Gramsci il passaggio a questa nuova, durissima, fase di guerra di posizione comporta “una concentrazione inaudita dell’egemonia“. Emerge in questo suo scritto il nesso dialettico tra direzione e dominio all’interno del termine “egemonia”, che viene a coincidere con quello di dittatura proletaria.
La guerra di posizione, quindi, è una tattica, determinata dalle concrete condizioni storiche, applicabile sia alla fase preparatoria dell’assalto rivoluzionario, sia alla fase successiva di costruzione del socialismo. Non è, per Gramsci, l’alternativa “all’abbattimento violento della società borghese” (K. Marx, F. Engels, Il Manifesto del Partito Comunista), né è sinonimo di via parlamentare, che non è guerra, ma compartecipazione, né comporta l’osservanza della legalità borghese, così come la “conquista delle trincee e delle casematte” non significa affatto l’insediamento, lautamente retribuito, nelle istituzioni borghesi. Neppure implica una visione gradualistica, per cui prima si dovrebbe conquistare l’egemonia e poi il potere. Anche a volere scindere i due concetti, intendendo l’egemonia come sola capacità di direzione e non anche come esercizio del dominio, è evidente che, se teniamo presente il nesso indissolubile tra teoria e prassi che caratterizza tutto il pensiero gramsciano, l’egemonia non può che costruirsi attraverso l’azione concreta per la conquista del potere, attraverso l’iniziativa rivoluzionaria.
Sono questi solo alcuni frammenti dell’articolato e profondo pensiero di Antonio Gramsci su alcuni dei principali temi della sua elaborazione e della sua battaglia politica “nel mondo grande e terribile“, come era solito chiamare il contesto in cui si trovò ad operare. Da essi i comunisti possono, ancor oggi, trarre spunto ed ispirazione per la loro lotta, in un mondo non meno “grande e terribile” di quello in cui visse e lottò il fondatore del Partito Comunista d’Italia.
nasce ad Ales (Oristano) il 22 gennaio 1891, dove trascorre un’infanzia funestata dall’incarcerazione del padre (per un atto di ‘giustizia trafficata’ in seguito alle elezioni del marzo 1897), dalle conseguenti difficoltà economiche che non lo abbandoneranno per molto tempo e da una caduta che poco dopo sarà forse la causa di una malformazione irreversibile alla colonna vertebrale. Col procedere dell’indebolimento fisico tenderà a diventare ‘tutto cervello’. Dalla sua compagna, Julka Schucht, conosciuta a Mosca nel ’22, ebbe due figli. Le sue prime esperienze come giornalista le ebbe ancora giovane a Cagliari come corrispondente dell’ ‘Unione Sarda’. Dopo aver preso il diploma si trasferì Torino per frequentare l’Università, grazie a una borsa di studio per studenti poveri che vinse in regolare concorso (9° Gramsci, 2° Togliatti, vengono entrambi dalla Sardegna e da allora inizia la loro amicizia). Le privazioni, la denutrizione e il freddo gli procurano un esaurimento fisico, ma non gli spengono la curiosità intellettuale. Fa amicizia con Tasca, l’unico dell’ambiente studentesco ad avere interessi politici, e con Terracini. Nel 1919 fonderanno insieme il settimanale (e dal gennaio 1921 quotidiano) “Ordine Nuovo“. E’ attento a Croce, perché antipositivista e quindi antideterminista, e proverà per lui sempre grande ammirazione per l’importanza data alla sovrastruttura, alla cultura, nel rapporto dialettico con la struttura economica, che in Gramsci diventerà esaltazione del ruolo dell’Intellettuale. Lasciata l’Università nel ’15, segue con passione gli scioperi contro la guerra e si dedica al giornalismo da socialista, ma non firma gli articoli. Il suo idealismo giovanile si esprime col rifiuto del determinismo positivista proprio della “pseudo-scienza”, ma anche del riformismo e del massimalismo socialista della II Internazionale, e con l’esaltazione del volontarismo dei bolscevichi e della soggettività (La rivoluzione contro il capitale, 1918). Si nota già l’antidogmatismo nei confronti del marxismo, che rimarrà uno dei tratti tipici del suo pensiero fino alla morte. In occasione dell’occupazione delle fabbriche del ’20 il gruppo di ‘Ordine Nuovo‘ riesce ad orientare le lotte della classe operaia torinese: considera le Commissioni interne presenti nella fabbrica l’embrione della democrazia consiliare, dei soviet, come autogoverno dei produttori, e quindi del governo operaio. La sconfitta lo fa riflettere sulla necessità del Partito per dirigere i movimenti sociali; isolato nel partito, in contrasto con Bordiga, Tasca, Terracini e Togliatti sui Consigli di fabbrica, sul partito rivoluzionario, sull’atteggiamento dei Socialisti, è convinto che ‘la fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere da parte del proletariato rivoluzionario […] o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria assieme alla classe governativa e nessuna violenza sarà trascurata’. Al Congresso di Livorno del 1921 c’è la rottura coi Socialisti riformisti e la costituzione del P.C.d’I, anche dietro invito dell’Internazionale ad espellere dal partito socialista i riformisti. Intanto numerosi sono gli arresti nel P.C.d’I., tanto da disgregare il vecchio gruppo di ‘Ordine Nuovo‘ e lo stesso gruppo dirigente del partito, già lacerato da forti contrasti interni e, sotto la direzione di Bordiga, molto restio a seguire le direttive dell’Internazionale che arriva a sostituirlo d’autorità alla direzione del partito con Gramsci, l’uomo del ‘dialogo’. Gramsci attuerà quella politica centrista voluta dall’Internazionale ormai stalinizzata e volta non più a portare avanti gli interessi della rivoluzione proletaria internazionale, quanto piuttosto a difendere gli interessi interni dello stato russo. A febbraio del ’24 esce il primo numero de ‘L’Unità‘ e a maggio Gramsci viene eletto deputato in Veneto e gode pertanto dell’immunità parlamentare. Nonostante ciò viene comunque arrestato nel 1926. Il lungo periodo di prigionia a cui verrà sottoposto lo allontanò dalla politica attiva e lo costrinse ad occuparsi, dal carcere, di questioni per lo più storiche e filosofiche (incentrate per lo più sullo studio dell’importanza del ruolo dell’ “intellettuale”). Per questo motivo non si hanno elementi certi sul suo rapporto con lo stalinismo e con l’Opposizione di sinistra. Certo è che inizialmente si oppose a questa ed a Bordiga, ogni tanto però rispuntano documenti che comproverebbero un suo cambiamento di rotta nei rapporti con l’originario leader dei comunisti italiani.Grazie all’attività a Roma di Tatiana Schucht, sorella della moglie Giulia, viene organizzato dagli antifascisti un Comitato internazionale per la salvezza di Gramsci. Nonostante le forti pressioni, il governo fascista gli concede solo il trasferimento al carcere-ospedale di Formia e poi alla clinica Quisisana di Roma, dove Gramsci muore il 27 aprile 1937. Onorato Damen, suo compagno di partito ed in seguito fondatore del Partito Comunista Internazionalista, non manca (come altri marxisti) di ritrovare in egli una visione troppo idealista (quindi non materialista e non marxista) e, soprattutto, pur lodando i sui pregi morali e umani di Gramsci, Damen non manca di rilevare come ciò “non salva Gramsci dalle precise accuse di aver aggiogato il Partito alle esigenze non di una autentica Internazionale rivoluzionaria, ma a quelle di una politica contingente dello Stato russo, anche se operaio”.
L’insegnamento di Gramsci oggi.
Leggere e studiare Gramsci è un’avventura per molti versi difficile ed eccitante. Com’è noto i suoi scritti del carcere sono una serie quasi di appunti sparsi, in cui ci si può addentrare o seguendo l’ordine cronologico, oppure seguendo le chiavi di lettura delle edizioni critiche che propongono degli assemblaggi scelti dagli editori tra prime, seconde e a volte anche terze riscritture dell’Autore. La prima modalità è certamente la più avvincente: la sensazione è quella di essere presi per mano ed essere condotti in una foresta di pensieri di rara profondità, talvolta legati all’attualità che Gramsci viveva nel suo tempo, talvolta con spunti profondamente attinenti all’attualità odierna. La seconda modalità è certamente quella più agevole ed efficiente per il lettore che, come sempre più spesso accade, può dedicare un tempo limitato a questa lettura.
Su Gramsci è stato scritto molto, moltissimo, molto di più di quanto lui stesso abbia scritto. Questo è un bene, perché ha tenuto il suo pensiero al centro dell’attenzione del mondo politico e culturale italiano e, molto di più, non italiano. Ma purtroppo bisogna dire che le cose che sono state scritte sul suo pensiero e sulla sua vita sono state spesso motivate da disegni ideologici e politici che si sono sovrapposte al pensiero originario del grande rivoluzionario e dirigente politico. Pertanto il nostro parere è: se non avete mai letto qualcosa su Gramsci, non cominciate a farlo ora e iniziate a leggere direttamente le sue pagine: vi affascineranno e troverete da soli i vostri spunti di riflessione. Se invece siete già stati sommersi dalle tante polemiche che sono nate dalla prima pubblicazione delle sue opere a oggi, forse sarebbe il caso di ascoltare il nostro punto di vista. C’è tanto da confutare nelle cose che sono state scritte su Gramsci, sulla sua vita e sulle sue opere, e non si può fare che sommariamente nelle poche pagine che ci ritagliamo qui.
Sulla vita. Come mai Gramsci scrive febbrilmente nei primi anni del carcere e poi si dedica quasi esclusivamente a rivedere i testi da lui scritti, sostanzialmente non producendo nulla di nuovo? Come mai nei due anni di vita dopo l’uscita dal carcere non riprende la scrittura, sebbene sottoposto a libertà vigilata, ma certo in condizioni molto più libere di quelle carcerarie? Sono state imbastite delle vere e proprie spy- story su questi fatti, che coinvolgono il rapporto di Gramsci col Partito Comunista d’Italia e in particolare con Togliatti, col Partito Comunista dell’URSS, storie tutte centrate su un unico assunto: Gramsci durante la prigionia cominciò a dissentire dalla politica ufficiale dell’Internazionale Comunista, ma non poteva rivelarlo perché ricattato in Italia a causa della sua condizione e in URSS a causa della presenza in quel paese della moglie. La base documentaria di queste ipotesi sta sostanzialmente in una sola lettera, quella in cui Gramsci auspicava che nel partito bolscevico si ritrovasse l’unità in seguito ai violenti scontri ideologici e politici che coinvolsero la sua dirigenza. Chiunque avesse mai letto le pagine dei Quaderni potrà sempre e solo trovare critiche anche pesanti al pensiero di Trotskij (chiamato nel suo linguaggio crittografico col nome di Leone Davidovi) e apprezzamenti senza riserve per l’opera politica e ideologica di Giuseppe Bessarione (Josif Stalin), definito il più genuino interprete attuale della filosofia della prassi (il materialismo dialettico). Anche la polemica che si è sollevata riguardante la scomparsa dell’ultimo dei suoi quaderni lascia molto perplessi: ammesso che i quaderni siano 30 e non 29, in questo quaderno mancante (o sottratto) cosa mai ci sarebbe stato? Qualcosa che contraddiceva a tal punto i primi da risultare così scomodo per i dirigenti comunisti sovietici e italiani? Insomma illazioni che non hanno alcuna base documentale.
Quanto alle condizioni di salute di Gramsci, negli ultimi anni di detenzione e durante il periodo di libertà vigilata in clinica, erano talmente precarie da giustificare ampiamente la sua impossibilità di dedicarsi a nuovi approfondimenti o anche solo a poter leggere o scrivere, almeno con la profondità dimostrata nei primi anni. Questo è documentato dalla semplice lettura della cronistoria dei suoi quaderni e anche dalla distribuzione temporale dei nuovi scritti e delle riletture. E questo dovrebbe mettere a tacere ogni illazione su dissidi, ricatti e altre assurdità che possono avere cittadinanza su romanzi di fantascienza politica ma non su seri studi di critica politica.
Sulla ideologia. È stato, ed è tutt’oggi, molto in voga classificare Gramsci come pensatore, come filosofo. E in particolare associarlo al filone idealista italiano, che vede in Benedetto Croce il suo massimo esponente. È vero che Gramsci non può che partire dalla lettura del massimo e più influente filosofo italiano vivente all’epoca, ma qual è il suo rapporto con lui? Questo rapporto è stato paragonato a quello che Marx ha avuto con Hegel, ossia – si dice – del più fedele discepolo che ha continuato la sua opera. Ora ciò si afferma in barba a tutti gli scritti che Marx e Engels, dal loro lato, e Gramsci, dal suo, hanno prodotto. Ma forse non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Come tutti i lettori di Marx ed Engels sanno, il materialismo dialettico è il ribaltamento della dialettica idealista, è la restituzione del meccanismo dialettico dal mondo delle idee a quello della materia, ma soprattutto è un ribaltamento che riporta il pensiero, la filosofia, dalla sterile speculazione alla prassi, all’azione: è benzina per l’azione politica del proletariato. Marx ed Engels non sono filosofi, sono dirigenti politici della classe operaia, non lo sono per loro espressa dichiarazione, ma soprattutto per la loro storia politica. Lo stesso va detto con forza di Gramsci, con le sue stesse parole: «Si potrebbe scrivere un nuovo Anti-Dühring che potrebbe essere un “Anti-Croce” da questo punto di vista, riassumendo non solo la polemica contro la filosofia speculativa, ma anche quella contro il positivismo e il meccanicismo e le forme deteriori della filosofia della prassi.» (Quaderno 8). Non bastano le ripetute affermazioni del Gramsci del carcere, in cui esplicitamente dice che la sua filosofia della prassi è il materialismo dialettico, quello fondato da Marx e che vedeva allora in Stalin il più fedele interprete? Non bastano le pagine di vere lezioni di materialismo storico che Gramsci ci impartisce sul Risorgimento italiano e la sua impareggiabile analisi di classe, sul rapporti tra intellettuali e classi, sul fordismo e le origini e le ricadute che esso ha sulla base materiale americana e sulla sua sovrastruttura? Purtroppo, una volta che si è andata affermando questa falsità, molti filosofi e politici italiani e non, che – invece di partire dalla lettura critica di Gramsci – si sono adagiati su questa lettura fatta da altri, hanno finito per regalare Gramsci all’idealismo, anziché difenderlo come grande dirigente del movimento comunista internazionale che ha nel materialismo storico e dialettico il suo strumento di lotta più affilato.
Sulla politica. Qui le cose si fanno ancora più complicate, perché si intersecano con tutta la storia del PCI dall’immediato dopoguerra, fino al suo scioglimento.
Gramsci è l’antesignano delle “vie nazionali al socialismo”? La sua concezione della conquista dell'”egemonia” e della guerra di posizione che conquista una “casamatta” dietro l’altra, sottraendola al nemico, è l’antesignana politica della “lunga marcia nelle istituzioni” che il PCI iniziò al momento della famosa “svolta di Salerno”? La sua concezione della “società civile”, dell'”Occidente” contrapposto all'”Oriente”, è una concezione interclassista che rigetta la dittatura del proletariato e prefigura una alleanza tra “produttori” che contrasta le forze reazionarie intese solo come quelle “parassitarie”? Noi crediamo fermamente di no. Questa lettura è profondamente sbagliata.
Basta leggere le pagine di Gramsci nell’originale per rendersi conto di quanto profondamente marxista-leninista fosse il suo pensiero, di quanto tutta la sua analisi fosse volta a scoprire le crepe di un sistema capitalistico-imperialista, che in Europa era riuscito a frenare l’impeto rivoluzionario e passava al contrattacco, di quanto la sua concezione del Partito e dello Stato fosse indirizzata sempre e solo alla conquista del potere politico da parte dell’avanguardia rivoluzionaria.
Chi aveva interesse a piegare, a torcere il suo pensiero per scopi legati all’attualità e per giustificare e trovare “padri nobili” alle proprie scelte politiche, fece un’operazione – prima di tutto culturale – che segnò pesantemente l’influenza che Gramsci ebbe in Italia e che invece avrebbe potuto avere tutt’altro segno. Anche la scelta di inserire Gramsci nell’empireo dei “pensatori” italiani, persino dei grandi “scrittori”, fu una scelta tesa ad accreditare il PCI come grande partito “nazionale” e i suoi dirigenti come fondatori della nuova società italiana che usciva dal fascismo. La scelta di quella politica imposta a tutto il Partito comunista italiano, l’idea che si potessero “spostare gli equilibri” su un terreno più “avanzato” fa parte della revisione politico-ideologica che abbiamo analizzato nelle pagine precedenti.
La lettura di Gramsci, del Gramsci vero, del grande dirigente del proletariato italiano e internazionale, del grande teorico del marxismo-leninismo, è quello che noi oggi sottoponiamo all’attenzione del proletariato internazionale, dei popoli antimperialisti e anticapitalisti, che vedono nel socialismo la prospettiva rivoluzionaria che può e deve cambiare il mondo.
Necessità di una politica ideologica di massa
Antonio Gramsci ha sempre attribuito un’importanza rilevante alla preparazione ideologica non solo dei militanti comunisti ma delle stesse masse popolari, al fine di condurre una efficace lotta contro il capitalismo e per il socialismo.
In uno scritto del maggio 1925 pubblicato su ” Lo Stato operaio ” del marzo-aprile 1931 egli afferma infatti che: “Noi sappiamo che la lotta del proletariato contro il capitalismo si svolge su tre fronti: quello economico, quello politico e quello ideologico, ma la lotta economica non può essere disgiunta dalla lotta politica, e né l’una né l’altra possono essere disgiunte dalla lotta ideologica. Perché la lotta sindacale, diventi un fattore rivoluzionario, occorre che il proletariato l’accompagni con la lotta politica, cioè che il proletariato abbia coscienza di essere il protagonista di una lotta generale che investe tutte le questioni più vitali dell’organizzazione sociale, cioè abbia coscienza di lottare per il socialismo. I tre fronti della lotta proletaria si riducono ad uno solo, per il Partito della classe operaia, che è tale, appunto, perché riassume e rappresenta tutte le esigenze della lotta generale. Perciò il Partito deve assimilare il marxismo e deve assimilarlo nella sua forma attuale, come leninismo.”
Aspra e sferzante è infatti, a questo proposito, la critica di Gramsci alle tradizioni del movimento operaio italiano: “L’attività teorica, la lotta cioè sul fronte ideologico, è sempre stata trascurata nel movimento operaio italiano. In Italia, il marxismo (all’infuori di Antonio Labriola) è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai rivoluzionari. Mai, le Direzioni del Partito immaginarono che per lottare contro la ideologia borghese, per liberare cioè le masse dalla influenza del capitalismo, occorresse prima diffondere nel Partito stesso la dottrina marxista ed occorresse difenderla da ogni contraffazione. Per lottare, quindi, contro la confusione che si è andata in tal modo creando, è necessario che il Partito intensifichi e renda sistematica la sua attività nel campo ideologico, che esso ponga come un dovere del militante la conoscenza della dottrina del marxismo-leninismo, almeno nei suoi termini più generali.”
E ancora, sempre nello stesso scritto, in merito all’organizzazione del Partito: “Il nostro Partito non è un partito democratico, almeno nel senso volgare che comunemente si dà a questa parola. E’ un Partito centralizzato nazionalmente ed internazionalmente. Perché il Partito viva e sia a contatto con le masse occorre che ogni membro del Partito sia un elemento politico attivo, sia un dirigente. Appunto perché il Partito è fortemente centralizzato, si domanda una vasta opera di propaganda e di agitazione nelle sue file, è necessario che il Partito, in modo organizzato, educhi i suoi membri e ne elevi il livello ideologico per guidare, in qualunque condizione, la lotta della classe operaia e delle masse popolari. La preparazione ideologica di massa è quindi una necessità della lotta rivoluzionaria, è una delle condizioni indispensabili della vittoria.”
Il Partito Comunista In diversi momenti della sua vicenda politica ed umana, Antonio Gramsci ha trattato il tema della funzione storica e dell’organizzazione del Partito Comunista. In un articolo pubblicato su ” L’Ordine Nuovo ” del 4 settembre e 9 ottobre del 1920 egli afferma : “Il Partito Comunista è lo strumento e la forma storica del processo di intima liberazione per cui l’operaio da esecutore diviene iniziatore, da massa diviene capo e guida, da braccio diviene cervello e volontà; nella formazione del Partito Comunista è dato cogliere il germe di libertà che avrà il suo sviluppo e la sua piena espansione dopo che lo Stato operaio avrà organizzato le condizioni materiali necessarie. Il Partito Comunista, anche come mera organizzazione si è rivelato forma particolare della rivoluzione proletaria, compiuta dagli uomini e dalle donne organizzati nel Partito Comunista, che nel Partito si sono plasmati una personalità nuova, hanno acquistato nuovi sentimenti, hanno realizzato una vita morale che tende a divenire coscienza universale e fine per tutta l’umanità.”
E, ancora, in un articolo su “L’Ordine Nuovo” dell’11 giugno 1921: “Il Partito comunista è il partito politico, storicamente determinato, della classe operaia rivoluzionaria. La classe operaia è nata e s’è organizzata sul terreno della democrazia borghese, nel quadro del regime costituzionale e parlamentare. Ecco perché,nelle varie fasi del suo sviluppo, essa ha appoggiato i partiti politici più diversi. Con la creazione del Partito Comunista, la classe operaia rompe tutte le tradizioni ed afferma la sua maturità politica. Essa vuole lavorare positivamente per il proprio sviluppo autonomo di classe; essa pone la sua candidatura a classe dirigente ed afferma di poter esercitare questa funzione storica solo in un ambiente istituzionale diverso dall’attuale, in un nuovo sistema statale e non già nel quadro dello Stato parlamentare burocratico.”
Sindacati e Consigli
Il ruolo dei consigli di fabbrica come cellula del futuro Stato operaio è stato uno dei temi su cui Antonio Gramsci ha più riflettuto e scritto. Così, nell’editoriale de “L’Ordine Nuovo” del 11 ottobre 1919 leggiamo: “L’organizzazione proletaria che si riassume, come espressione totale della massa operaia e contadina, negli uffici centrali della Confederazione del Lavoro, attraversa una crisi costituzionale. Gli operai sentono che il complesso della ” loro ” organizzazione è diventato tale enorme apparato, che ha finito per ubbidire a leggi proprie, intime alla sua struttura ed al suo complicato funzionamento, ma estranee alla massa che ha acquistato coscienza della sua missione storica di classe rivoluzionaria.
La dittatura proletaria può incarnarsi in un tipo di organizzazione che sia specifico della attività propria dei produttori e non dei salariati, schiavi del capitale. Il Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione. Poiché nel Consiglio tutte le branche del lavoro sono rappresentate, proporzionalmente al contributo che ogni mestiere ed ogni branca di lavoro dà alla elaborazione dell’oggetto che la fabbrica produce per la collettività, l’istituzione è di classe e sociale. Perciò il Consiglio realizza l’unità della classe lavoratrice, da alle masse una coesione ed una forma della stessa natura di quella da esse assunte nella organizzazione generale della società. Il Consiglio di Fabbrica è il modello dello Stato proletario. L’esistenza del Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia.”
Il Vaticano e l’Italia
Particolarmente netto ed inequivocabile è il giudizio di Antonio Gramsci sul Concordato fra Stato italiano ed il Vaticano compreso nei Patti Lateranensi siglati l’11 febbraio 1929 fra regime fascista e Chiesa Cattolica. Nei ” Quaderni del carcere”, infatti leggiamo: “La capitolazione dello Stato moderno che si verifica per il concordato viene mascherata identificando verbalmente concordato e trattati internazionali. Ma un concordato non è un comune trattato internazionale: nel concordato si realizza, di fatto, una interferenza di sovranità in un solo territorio statale, poiché tutti gli articoli di un concordato si riferiscono ai cittadini di uno solo degli stati contraenti, sui quali il potere sovrano di uno Stato estero giustifica e rivendica determinati diritti e poteri di giurisdizione. Il concordato intacca in modo essenziale il carattere di autonomia della sovranità dello Stato moderno. La Chiesa, in cambio, si impegna verso una determinata forma di governo di promuovere quel consenso di una parte dei governati che lo Stato esplicitamente riconosce di non poter ottenere con mezzi propri, mentre quest’ultimo riconosce pubblicamente ad una casta di suoi cittadini determinati privilegi politici.”
La questione meridionale
A questo tema dedichiamo un ampio capitolo di questo documento, frutto delle riflessioni aggiornate e della ricerca dei nostri militanti. Qui ci limitiamo, quindi, a citare un brano de “L’Ordine Nuovo” del 3 gennaio 1920 che dimostra la concretezza programmatica del pensiero di Gramsci come base per la formazione di un blocco sociale di alleanza popolare. “La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica,emanciperà le masse contadine meridionali asservite alla banca ed all’industrialismo parassitario del Settentrione. La rigenerazione economica e politica dei contadini non deve essere ricercata in una divisione delle terre incolte e mal coltivate, ma nella solidarietà del proletariato industriale, che ha bisogno, a sua volta, della solidarietà dei contadini, che ha interesse a che il capitalismo non rinasca economicamente dalla proprietà terriera e che l’Italia meridionale e le isole non diventino una base militare di controrivoluzione capitalistica. Imponendo il controllo operaio sull’industria, il proletariato rivolgerà l’industria alla produzione di macchine agricole per i contadini di stoffe e calzature per i contadini, di energia elettrica per i contadini; impedirà che , più oltre, l’industria e la banca sfruttino i contadini e li soggioghino come schiavi alle loro casseforti. Spezzando l’autocrazia nella fabbrica, spezzando l’apparato oppressivo dello Stato capitalistico, instaurando lo Stato operaio che soggioghi i capitalisti alla legge del lavoro utile, gli operai spezzeranno tutte le catene che tengono avvinghiato il contadino alla sua miseria, alla sua disperazione; instaurando la dittatura operaia, avendo in mano le industrie e le banche,il proletariato rivolgerà l’enorme potenza dell’organizzazione statale per sostenere i contadini nella loro lotta contro i proprietari, contro la natura, contro la miseria; darà il credito ai contadini, instituirà le cooperative, garantirà la sicurezza personale e dei beni contro i saccheggiatori, farà le spese pubbliche di risanamento e di irrigazione. Farà tutto questo perché è suo interesse dare incremento alla produzione agricola, avere e conservare la solidarietà delle masse contadine, rivolgere la produzione industriale a lavoro utile di pace e di fratellanza fra città e campagna, tra Settentrione e Mezzogiorno“.
In merito al confronto ideologico nel PCU(b)
Nella seconda metà degli anni ’20, nel PCU(b) (che diventerà PCUS nel 1952) divampa un duro scontro politico sulle modalità e le forme di costruzione del socialismo che vedono contrapposte la maggioranza guidata da Stalin e la minoranza guidata da Trockij, Zinov’ev e Kamenev. Antonio Gramsci il 14 ottobre 1926 scrive una lettera riservata, da lui firmata a nome dell’Ufficio Politico del PCdI ed inviata a Mosca. In essa, dopo aver espresso attenzione e preoccupazione si afferma: “L’Ufficio Politico del PCdI ha studiato, con la maggiore diligenza ed attenzione che le erano consentite, tutti i problemi che oggi sono in discussione nel Partito Comunista dell’ Unione. Noi, finora abbiamo espresso un’opinione di Partito solo sulla questione strettamente disciplinare delle frazioni. Dichiariamo ora che riteniamo fondamentalmente giusta la linea politica della maggioranza del CC del Partito Comunista dell’ Unione. Ci impressiona il fatto che l’atteggiamento delle opposizioni investa tutta la linea politica del CC toccando il cuore stesso della dottrina leninista e dell’azione politica del Partito dell’Unione. E’ il principio e la pratica della dittatura del proletariato che vengono posti in discussione, sono i rapporti fondamentali di alleanza tra operai e contadini che vengono turbati e messi in pericolo, cioè i pilastri dello Stato operaio e della Rivoluzione. E’ questo per noi l’elemento essenziale delle vostre discussioni, è in questo elemento la radice degli errori del blocco delle opposizioni e l’origine dei pericoli latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella ideologia e nella pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della socialdemocrazia e del sindacalismo, che ha impedito finora al proletariato occidentale di organizzarsi in classe dirigente.“. Il pieno appoggio alla linea della maggioranza del CC del PCU(b), guidata da Stalin, smentisce il presunto antistalinismo, in mala fede attribuito a Gramsci dai suoi esegeti opportunisti e revisionisti, fuori e dentro il PCI.
Egemonia, guerra manovrata e guerra di posizione
Una delle più disoneste manipolazioni del pensiero gramsciano, forse la peggiore, viene attuata dai suoi esegeti revisionisti distorcendo il concetto di egemonia, centrale in tutta la sua elaborazione, contrapponendolo al concetto leninista di dittatura proletaria. Lo scopo dell’operazione consiste nel tentativo di attribuire a Gramsci la paternità ideale e teorica dell’accettazione revisionista e opportunista della democrazia borghese, del parlamentarismo e delle forme legali di lotta come valori universali. Partendo da una falsa contrapposizione del “Gramsci immaturo”, cioè del dirigente rivoluzionario dell’Ordine Nuovo e delle lotte del Biennio Rosso, al “Gramsci maturo” delle riflessioni carcerarie, ridotto al ruolo di filosofo speculativo, i revisionisti cercano di spacciare il naturale sviluppo, anche autocritico, del pensiero gramsciano in merito alla sconfitta delle insurrezioni operaie del 1919-1920 come un “salto” (Paolo Spriano), una presa di distanza dalla teoria rivoluzionaria di tipo leninista.
Certamente, la manipolazione viene resa più facile dal linguaggio in codice che Gramsci è costretto ad usare per evitare le maglie della censura carceraria, per cui, in tutti i suoi scritti dalla prigionia, uno stesso termine viene utilizzato con significati diversi, a volte etimologici, altre volte come alias di concetti che, per ragioni di sicurezza, non potevano essere definiti col loro nome. Tuttavia, una lettura attenta e priva di malafede consente di desumere dal contesto il giusto significato.
E’ il caso del concetto di egemonia. In alcuni casi viene usato con il significato etimologico di “guida, capacità di direzione”, in altri è sinonimo criptato di dittatura proletaria. Su questa apparente ambiguità il revisionismo ha imbastito l’assurdo teorema della presunta opzione gramsciana per uno stato operaio, basato sulla sola creazione del consenso, che di fatto riconoscerebbe la democrazia borghese, i suoi istituti e i suoi principi come valori universali, cioè a prescindere dal loro contenuto di classe. Nulla di più falso! Lasciamo alle parole di Gramsci il compito di confutare questa menzogna: “... la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come «dominio» e come «direzione intellettuale e morale». Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a «liquidare» o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini o alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene saldamente in pugno, diventa dominante, ma deve continuare ad essere anche «dirigente»” (A. Gramsci, Quaderni del Carcere, ed. Einaudi 1975, p. 2010-2011).
Nel concetto di egemonia, Gramsci sottolinea l’unità dialettica tra dominio e direzione, tra coercizione e consenso, tra forza e convinzione e, così facendo, ribadisce la concezione leniniana della dittatura proletaria come la più alta forma di creazione del consenso all’interno del blocco sociale coagulato intorno alla classe operaia, ma anche come la più implacabile forma di coercizione, anche violenta, del blocco avversario. E ancora: “Il proletariato può diventare classe dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice…” (A. Gramsci, La costruzione del Partito Comunista, ed. Einaudi, 1971, p. 140).
E’ la riproposizione della politica delle alleanze della classe operaia concepita da Lenin come condizione imprescindibile per il successo della rivoluzione e l’instaurazione della dittatura proletaria. Gramsci, giustamente, si sofferma spesso sulla componente consensuale dell’egemonia, in quanto cruciale per la creazione e la tenuta del blocco sociale rivoluzionario. L’esercizio dell’egemonia dipende dalla capacità di “dare soluzioni concrete ai problemi concreti” delle masse non proletarie, di far comprendere loro che l’attuazione degli interessi proletari coincide con la realizzazione dei loro stessi interessi, che la classe operaia, liberando sé stessa, libera l’intera società. L’egemonia è quindi anche capacità “… di conservare l’unità ideologica di tutto il blocco sociale che appunto da quella determinata ideologia è cementato e unificato.” (A. Gramsci, Il Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Editori Riuniti, p. 7), allo scopo di mantenere unito un blocco sociale disomogeneo e con contraddizioni di classe interne (pensiamo, ad esempio, alla contraddizione tra l’elemento operaio e quello piccolo-borghese contadino). In qualsiasi blocco sociale, questa “universalità” della classe egemone è affermata dagli intellettuali a lei organici, la cui funzione è appunto quella di garantire la tenuta e la compattezza del blocco sociale sul piano ideologico. Nel caso del proletariato, questa funzione è svolta dal partito rivoluzionario, il “moderno principe”, intellettuale collettivo organicamente legato alla classe operaia, che non si limita alla semplice creazione del consenso, ma agisce sulla realtà trasformandola, in un’inscindibile legame tra teoria e prassi, tra idea e azione.
Nella sua radicale critica al meccanicismo del marxismo volgare, Gramsci ammonisce che il capitalismo è in grado di superare anche la più rivoluzionaria delle crisi; il capitalismo non cade da solo se manca l’azione del soggetto rivoluzionario, cioè del partito e in questo individua le cause della sconfitta del Biennio Rosso 1919- 1920: le condizioni oggettivamente rivoluzionarie, determinatesi dopo la guerra imperialista mondiale, hanno dato vita ad un forte movimento insurrezionale del proletariato, la cui sconfitta è dovuta al difetto di condizioni soggettive, cioè alla mancanza di un partito rivoluzionario. Con buona pace dei revisionisti, Gramsci non ha alcun ripensamento né sul merito, né sulle forme di lotta, ma constata semplicemente il dato di fatto dell’assenza, in quella fase, di un partito comunista, capace di organizzare la lotta insurrezionale e guidarla alla vittoria.
Come in Gramsci è chiarissimo il ruolo dei consigli di fabbrica come embrione e modello della futura statualità proletaria, che ci autorizza “…ad affermare che il soviet è una forma universale e non è un istituto russo e solamente russo…” (A. Gramsci, Ordine Nuovo, ed. Einaudi, 1954, p. 147), così è altrettanto esplicita in lui la funzione del partito in condizioni di dittatura proletaria: “… il partito comunista educa il proletariato ad organizzare la sua potenza di classe e a servirsi di questa potenza armata per dominare la classe borghese e determinare le condizioni in cui la classe sfruttatrice sia soppressa e non possa rinascere. Il compito del partito comunista nella dittatura è dunque questo: organizzare potentemente e definitivamente la classe degli operai e dei contadini in classe dominante; controllare che tutti gli organismi del nuovo Stato svolgano realmente opera rivoluzionaria; rompere i diritti e i rapporti antichi inerenti al principio della proprietà privata” (A. Gramsci, Ordine Nuovo, ed. Einaudi, 1954, p. 42).
Un partito, quindi, che è fulcro e direzione del potere operaio, che ne verifica l’attuazione pratica e che si pone fuori e al di sopra della legalità e del diritto finora vigenti. Nulla a che vedere con la via revisionista, imboccata successivamente dai gruppi dirigenti del partito fondato da Gramsci.
L’altra grande mistificazione revisionista trae lo spunto da diversi scritti, in cui Gramsci analizza la fine della fase rivoluzionaria immediatamente successiva alla guerra imperialista mondiale e alla Rivoluzione d’Ottobre, in Italia e in Europa, ragionando di “guerra manovrata e guerra di posizione”. Premesso che dobbiamo avere sempre ben presente che si tratta di riflessioni esposte in forma di appunti, quindi prive di organicità, in una situazione di costrizione fisica e psicologica, le quali, pertanto, non possono assumere il valore di un’opera compiuta, redatta in condizioni di libertà, né tanto meno essere erette a dogma indiscutibile, anche in questo caso ci sembra comunque forzata in estrema malafede l’interpretazione che di questi concetti hanno dato i revisionisti. In posizione di forte critica all’interpretazione trotzkista della concezione marxiana di “rivoluzione permanente”, Gramsci scrive: “E’ da vedere se la famosa teoria di Bronstein [Trotzki] sulla permanenza del movimento non sia il riflesso politico della teoria della guerra manovrata …, in ultima analisi il riflesso delle condizioni generali-economiche-culturali-sociali di un paese in cui i quadri della vita nazionale sono embrionali e non possono diventare «trincea o fortezza». In questo caso, si potrebbe dire che Bronstein, che appare come un «occidentalista» era invece un cosmopolita, cioè superficialmente nazionale e superficialmente occidentalista o europeo. Invece Ilici [Lenin] era profondamente nazionale e profondamente europeo. … Mi pare che Ilici aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel 1917, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente … Questo mi pare significare la formula del «fronte unico» … In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente … lo Stato era solo una trincea avanzata dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale.” (A. Gramsci, Quaderni del Carcere, ed. Einaudi 1975, p. 866- 865). E ancora: ” Questa mi pare la questione di teoria politica la più importante, posta dal periodo del dopo guerra e la più difficile ad essere risolta giustamente. Essa è legata alle questioni sollevate dal Bronstein, che in un modo o nell’altro, può ritenersi il teorico politico dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatta. Solo indirettamente questo passaggio nella scienza politica è legato a quello avvenuto nel campo militare, sebbene certamente un legame esista ed essenziale. La guerra di posizione domanda enormi sacrifici a masse sterminate di popolazione; perciò è necessaria una concentrazione inaudita dell’egemonia e quindi una forma di governo più «intervenzionista», che più apertamente prenda l’offensiva contro gli oppositori e organizzi permanentemente «l’impossibilità» di disgregazione interna: controlli di ogni genere, politici, amministrativi ecc., rafforzamento delle «posizioni» egemoniche del gruppo dominante ecc. Tutto ciò indica che si è entrati in una fase culminante della situazione politico-storica, poiché nella politica la «guerra di posizione», una volta vinta, è decisiva definitivamente.” (A. Gramsci, Quaderni del Carcere, ed. Einaudi 1975, p. 801-802).
Anche di queste considerazioni di Gramsci si sono serviti, stravolgendole, i teorici revisionisti per affermare una sua presunta presa di distanza dall’esperienza dell’Ottobre sovietico e dell’insurrezione armata, attribuendogli, a sproposito, la paternità di una concezione gradualistica del processo rivoluzionario. Il tentativo manifesto della manipolazione è quello di dare nobili natali alle successive deviazioni revisioniste che hanno portato alla mutazione genetica e alla dissoluzione del PCI, dall’accettazione aprioristica della democrazia e della legalità borghesi, alla concezione di una via parlamentare al socialismo, alla partecipazione condivisa e convinta alle istituzioni dello Stato borghese, anche a quelle non elettive. Nulla di tutto ciò è presente nell’opera, teorica e pratica, di Gramsci.
Intanto, per capire la riflessione gramsciana, occorre tenere ancora una volta presente il momento storico in cui scrisse questi appunti, contenuti nei Quaderni N° 6 e N° 7, cioè dal 1930 al 1932 e, soprattutto, circoscriverla al reale oggetto di analisi. Sono passati più di dieci anni dalla sconfitta delle insurrezioni operaie del Biennio Rosso in Italia e dei tentativi rivoluzionari in Polonia, Ungheria e Germania. Il movimento operaio è uscito battuto da quelle esperienze, l’ondata rivoluzionaria si è arrestata, è iniziata una fase controrivoluzionaria, con l’ormai decennale affermazione del fascismo in Italia e l’ascesa del nazismo in Germania, il tentativo di fermare il fascismo sul piano militare, con l’esperienza degli Arditi del Popolo e delle Squadre d’Azione Comunista, è fallito. D’altro canto, l’Unione Sovietica non solo resiste, ma cresce. Su questi fatti, storicamente circoscritti, riflette Gramsci, valutando le tattiche che il movimento operaio aveva applicato nei dieci anni trascorsi dalla fine dei tentativi rivoluzionari, interrogandosi sulle ragioni della sconfitta. La riflessione avviene tenendo conto della lotta tra la linea della maggioranza del PCU(b), guidata da Stalin, contro le posizioni di Trotzki, ormai espulso dal partito e dall’Unione Sovietica.
Nel primo testo citato, Gramsci si riferisce al fallimento delle insurrezioni operaie in Europa – e solo a quelle -, non all’esperienza dell’Ottobre. Usa il passato, quindi non fa affermazioni a valenza generale, ma a valenza particolare, con precisa collocazione spazio-temporale; ragiona di tattica, non di strategia, cioè non mette in discussione né l’obiettivo (la dittatura proletaria), né il metodo in sé (l’insurrezione armata), ma acutamente rileva l’inadeguatezza dell’applicazione di una tattica in sé giusta nel momento sbagliato, cioè quando ormai era incominciata la fase controrivoluzionaria; giustamente fa notare l’assenza di una “ricognizione” preventiva, di un’analisi scientifica dei rapporti di forza reali all’interno di ciascun paese. E’ questa la lezione storica che Gramsci trae dalle vicende degli anni 1919-1920 in “Occidente”, cioè in Europa: la maggiore articolazione della società civile in questi paesi rispetto “all’Oriente”, alla Russia e il sostanziale equilibrio tra società civile e società politica, tra apparato di creazione del consenso e apparato di dominio, influiscono sui rapporti di forza tra le classi e rendono necessario un intenso ed efficace lavoro per la conquista dell’egemonia e la costruzione del blocco sociale rivoluzionario prima (prima, non invece!) dell’assalto frontale, per crearne le condizioni. In sostanza, una tattica non esclude l’altra, ma, a seconda della situazione reale, la guerra di posizione può servire a creare le condizioni soggettive per la guerra di movimento. Gramsci non dice che in Occidente l’unica tattica praticabile in qualsiasi tempo è quella della guerra di posizione, ma dice che nel 1919-1920, in quel preciso periodo storicamente determinato, questa sarebbe stata l’unica tattica applicabile in Europa.
Nel secondo brano riportato più sopra, Gramsci sviluppa ulteriormente ciò che Lenin aveva compreso già nel 1921, cioè che l’ondata rivoluzionaria si era arenata e che un assalto frontale al capitalismo in Europa sarebbe stato destinato al fallimento e avrebbe messo in pericolo la sopravvivenza stessa del primo stato proletario al mondo.
Lenin, Stalin e Gramsci, in forte sintonia e in contrapposizione all’avventurismo trotzkista, capiscono che è giunto il momento di passare alla guerra di posizione, cioè ad erigere quelle “trincee e casematte”, questa volta proletarie, che avrebbero consolidato la costruzione del socialismo “in un paese singolarmente preso”. Per Gramsci il passaggio a questa nuova, durissima, fase di guerra di posizione comporta “una concentrazione inaudita dell’egemonia“. Emerge in questo suo scritto il nesso dialettico tra direzione e dominio all’interno del termine “egemonia”, che viene a coincidere con quello di dittatura proletaria.
La guerra di posizione, quindi, è una tattica, determinata dalle concrete condizioni storiche, applicabile sia alla fase preparatoria dell’assalto rivoluzionario, sia alla fase successiva di costruzione del socialismo. Non è, per Gramsci, l’alternativa “all’abbattimento violento della società borghese” (K. Marx, F. Engels, Il Manifesto del Partito Comunista), né è sinonimo di via parlamentare, che non è guerra, ma compartecipazione, né comporta l’osservanza della legalità borghese, così come la “conquista delle trincee e delle casematte” non significa affatto l’insediamento, lautamente retribuito, nelle istituzioni borghesi. Neppure implica una visione gradualistica, per cui prima si dovrebbe conquistare l’egemonia e poi il potere. Anche a volere scindere i due concetti, intendendo l’egemonia come sola capacità di direzione e non anche come esercizio del dominio, è evidente che, se teniamo presente il nesso indissolubile tra teoria e prassi che caratterizza tutto il pensiero gramsciano, l’egemonia non può che costruirsi attraverso l’azione concreta per la conquista del potere, attraverso l’iniziativa rivoluzionaria.
Sono questi solo alcuni frammenti dell’articolato e profondo pensiero di Antonio Gramsci su alcuni dei principali temi della sua elaborazione e della sua battaglia politica “nel mondo grande e terribile“, come era solito chiamare il contesto in cui si trovò ad operare. Da essi i comunisti possono, ancor oggi, trarre spunto ed ispirazione per la loro lotta, in un mondo non meno “grande e terribile” di quello in cui visse e lottò il fondatore del Partito Comunista d’Italia.
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