involuzione
Poche cose abbiamo imparato dalla storia all'infuori di questa: che le idee si condensano in un sistema di ortodossia, i poteri in una forma gerarchica e che ciò che può ridare vita al corpo sociale irrigidito è soltanto l'alito della libertà, con la quale intendo quella irrequietezza dello spirito, quell'insofferenza dell'ordine stabilito, quell'aborrimento di ogni conformismo che richiede spregiudicatezza mentale ed energia di carattere.
Io sono convinto che se non avessimo imparato dal marxismo a vedere la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati. O avremmo cercato riparo nell'isola della nostra interiorità o ci saremmo messi al servizio dei vecchi padroni. Ma tra coloro che si sono salvati, solo alcuni hanno tratto in salvo un piccolo bagaglio dove, prima di buttarsi in mare, avevano deposto, per custodirli, i frutti più sani della tradizione intellettuale europea: l'inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose.
Norberto Bobbio
Io sono convinto che se non avessimo imparato dal marxismo a vedere la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati. O avremmo cercato riparo nell'isola della nostra interiorità o ci saremmo messi al servizio dei vecchi padroni. Ma tra coloro che si sono salvati, solo alcuni hanno tratto in salvo un piccolo bagaglio dove, prima di buttarsi in mare, avevano deposto, per custodirli, i frutti più sani della tradizione intellettuale europea: l'inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose.
Norberto Bobbio
giovedì 28 luglio 2011
martedì 26 luglio 2011
Una risposta alternativa"LE VALUTE COMPLEMENTARI"
Che sono le valute complementari?In questi giorni ha fatto notizia l'iniziativa che hanno attuato i commercianti di Murgados in Spagna che hanno deciso di riutilizzare la Peseta,incuriosito dalla cosa e non sapendo bene di che si trattasse mi sono addentrato nella rete ed ho scoperto un mondo economico parallelo che funziona già da parecchio un pò in tutto il mondo .Non so a livello economico cosa comporti tutto ciò,ma a livello sociale le implicazioni non sono indifferenti,di sicuro questo mondo sotterraneo cerca di dare una risposta differente a quello che a livello globale i governi centrali ci vogliono inculcare,moneta unica e tutto il cancan, di sicuro dimostra la distanza che esiste tra la finanza pubblica e i bisogni reali della gente.
Una volta si diceva che la politica era al servizio della gente,ora per chi lavora?
Pure in Italia esiste qualcosa di simile e si chiama SCEC e più precisamente a Napoli l'Associazione Masaniello di cui non posto il link essendo il sito in ristrutturazione,però è presente questo video di presentazione del Circuito SCEC realizzato dalla TV pubblica Svizzera RSI:
Pino
sabato 23 luglio 2011
venerdì 22 luglio 2011
Intervista rilasciata da Seif El Islam Gheddafi a un giornale arabo
El Khabar (Algéria – 10/7/11)*
RAMDANE BELAMRI
RAMDANE BELAMRI: Seif El Islam, iniziamo con l’argomento che sta maggiormente a cuore all’opinione pubblica internazionale: a che punto sono i negoziati con l’opposizione di Bengasi?
SEIF EL ISLAM GHEDDAFI: «In realtà, i veri negoziati sono con la Francia, non con i ribelli. Tramite un mediatore speciale che ha incontrato il presidente francese, abbiamo ricevuto un chiaro messaggio da Parigi. Il presidente francese ha detto molto schiettamente al nostro inviato che “siamo noi ad avere creato questo Consiglio e senza il sostegno, i capitali e le armi francesi, esso non esisterebbe neppure”. I gruppi ribelli ci hanno contattato attraverso canali egiziani. Li abbiamo incontrati al Cairo, dove si è tenuto un round di negoziati, ma non appena i francesi hanno avuto notizia di questo incontro hanno detto al gruppo di Bengasi: “Noi vi appoggiamo, ma se vi saranno altri contatti con Tripoli senza che ce ne informiate o alle nostre spalle interromperemo immediatamente ogni sostegno…”. Tutti i negoziati devono dunque svolgersi passando attraverso la Francia. Hanno anche aggiunto: “Noi non facciamo questa guerra per disinteresse e senza contropartita alcuna. In Libia abbiamo interessi commerciali precisi e il governo di transizione dovrà approvare vari contratti”. Si riferiscono ai contratti relativi agli aerei Rafale, ma anche ai contratti della Total».
Perché non avete divulgato all’opinione pubblica i documenti che dimostrano i finanziamenti alla campagna di Sarkozy?
«Beh, non utilizziamo tutte le carte a nostro favore in un colpo solo! Abbiamo più di un asso nella manica e lo utilizzeremo al momento opportuno».
A che punto sono le mediazioni internazionali? Qual è la situazione al momento, soprattutto dopo la visita del mediatore russo che ha preso atto della realtà dei fatti e dopo l’incontro tra il presidente della Nato e il presidente russo Medvedev, e ancora l’incontro di quest’ultimo con il presidente sudafricano Jacob Zuma, il mediatore della controparte?
«Prima di tutto vorrei fare alcune precisazioni: tutto la comunità internazionale si è fatta beffe di loro sulla stampa. Hanno mentito al mondo intero dichiarando che lo stato libico aveva ucciso migliaia di manifestanti e bombardato la popolazione civile. Il mondo oggi sa che si trattava soltanto di menzogne. L’organizzazione Human Rights Watch ha confermato che si trattava di informazioni fasulle. Anche Amnesty International ha dichiarato che si trattava di menzogne, e dal canto suo il Pentagono ha condotto un’inchiesta interna, giungendo anch’esso alla conclusione che si trattava soltanto di menzogne».
Ritorniamo alle mediazioni internazionali: a che punto sono?
C’è una road map africana sulla quale concordano tutti. Noi vogliamo organizzare le elezioni e arrivare a un governo di unità nazionale. Siamo disposti a svolgere le elezioni sotto il controllo delle organizzazioni internazionali, e a varare una nuova Costituzione, ma i ribelli si rifiutano di accettare tutto ciò. Perché? Perché noi non abbiamo ancora trovato un accordo con Parigi».
A Sebha il colonnello Gheddafi venerdì ha parlato ai suoi sostenitori e ha minacciato di vendicarsi e di inviare kamikaze in Europa. Non temete di essere assimilati ai terroristi?
«Prima di tutto è nostro diritto attaccare gli stati che ci attaccano e che uccidono i nostri bambini. Hanno ammazzato il figlio di Muammar Gheddafi, ne hanno distrutto la casa e ucciso i famigliari. Non c’è una sola famiglia in Libia che non sia stata vittima degli attacchi della Nato. É per questo motivo che siamo in guerra: è stata la Nato a iniziare. Che ora se ne assuma le conseguenze».
Seif El Islam, si candiderà alle elezioni della futura Libia?
«Nel 2008 sono ufficialmente uscito dalla politica libica. Da allora e fino all’inizio della crisi ho vissuto lontano dal paese, in Cambogia… Sono tornato in Libia all’inizio di questi avvenimenti. Ero fuori dalla politica, ma dopo quanto è accaduto in Libia, ormai, è tutto cambiato. Ora le cose stanno diversamente: abbiamo assistito a tradimenti, giochi di interesse e tentativi di colonizzazione. Non vedo perché non dovrei candidarmi. A questo punto ogni opzione è aperta».
Alcuni ipotizzano una spartizione della Libia. Il primo ministro inglese David Cameron ha già dichiarato che è necessario dividere il Sahara libico. Che cosa ne pensa?
«Sì, esiste un piano inglese per procedere alla spartizione della Libia. Tale piano prevede che l’ovest e il sud vadano alla Francia, l’est alla Gran Bretagna, e infine che a Tobruk sorga una base militare britannica. Tutto ciò non è certo un segreto, ma si tratta soltanto di velleità colonizzatrici che non si concretizzeranno».
Che cosa rappresenta per lei l’Algeria?
«In tutta sincerità, se lo chiede a un libico qualsiasi le risponderà che gli algerini sono molto simili ai libici. Purtroppo, come avrà sicuramente avuto modo di constatare, l’unico paese arabo preso di mira dai fuorilegge è proprio l’Algeria. Con gli algerini abbiamo qualcosa di preciso in comune: loro hanno lottato contro la Francia in passato; noi lo stiamo facendo adesso… La mediazione dell’Algeria è ben accetta, in quanto essa ha sempre rivestito un ruolo unificante. Vorrei precisare che le posizioni dei paesi arabi sono vergognose, mentre l’Algeria è tra i pochi paesi arabi ad avere assunto una posizione completamente diversa. Il popolo libico non lo dimenticherà, mai, ed è per questo che la mediazione algerina è gradita ai fini della riconciliazione tra i fratelli libici».
Vuole aggiungere ancora qualcosa? Esprimere un’ultima idea?
«Vorrei che la comunità internazionale prestasse molta attenzione a quello che sta accadendo in Libia, dove è in corso una delle più grandi campagne di disinformazione e distorsione dei fatti. Gli europei e gli stessi americani hanno riconosciuto questa verità. I media hanno creato molti scandali, mai esistiti. Vogliamo rivolgerci alla comunità internazionale e metterla in guardia dalle immagini trasmesse dai canali satellitari e da Internet: sono fotomontaggi, sono montature. Uno di questi giorni la verità salterà fuori!».
Traduzione di Anna Bissanti
* http://fr.elkhabar.com/?L-Algerie-n-est-pas-un-peuple-de
FONTE
RAMDANE BELAMRI
RAMDANE BELAMRI: Seif El Islam, iniziamo con l’argomento che sta maggiormente a cuore all’opinione pubblica internazionale: a che punto sono i negoziati con l’opposizione di Bengasi?
SEIF EL ISLAM GHEDDAFI: «In realtà, i veri negoziati sono con la Francia, non con i ribelli. Tramite un mediatore speciale che ha incontrato il presidente francese, abbiamo ricevuto un chiaro messaggio da Parigi. Il presidente francese ha detto molto schiettamente al nostro inviato che “siamo noi ad avere creato questo Consiglio e senza il sostegno, i capitali e le armi francesi, esso non esisterebbe neppure”. I gruppi ribelli ci hanno contattato attraverso canali egiziani. Li abbiamo incontrati al Cairo, dove si è tenuto un round di negoziati, ma non appena i francesi hanno avuto notizia di questo incontro hanno detto al gruppo di Bengasi: “Noi vi appoggiamo, ma se vi saranno altri contatti con Tripoli senza che ce ne informiate o alle nostre spalle interromperemo immediatamente ogni sostegno…”. Tutti i negoziati devono dunque svolgersi passando attraverso la Francia. Hanno anche aggiunto: “Noi non facciamo questa guerra per disinteresse e senza contropartita alcuna. In Libia abbiamo interessi commerciali precisi e il governo di transizione dovrà approvare vari contratti”. Si riferiscono ai contratti relativi agli aerei Rafale, ma anche ai contratti della Total».
Perché non avete divulgato all’opinione pubblica i documenti che dimostrano i finanziamenti alla campagna di Sarkozy?
«Beh, non utilizziamo tutte le carte a nostro favore in un colpo solo! Abbiamo più di un asso nella manica e lo utilizzeremo al momento opportuno».
A che punto sono le mediazioni internazionali? Qual è la situazione al momento, soprattutto dopo la visita del mediatore russo che ha preso atto della realtà dei fatti e dopo l’incontro tra il presidente della Nato e il presidente russo Medvedev, e ancora l’incontro di quest’ultimo con il presidente sudafricano Jacob Zuma, il mediatore della controparte?
«Prima di tutto vorrei fare alcune precisazioni: tutto la comunità internazionale si è fatta beffe di loro sulla stampa. Hanno mentito al mondo intero dichiarando che lo stato libico aveva ucciso migliaia di manifestanti e bombardato la popolazione civile. Il mondo oggi sa che si trattava soltanto di menzogne. L’organizzazione Human Rights Watch ha confermato che si trattava di informazioni fasulle. Anche Amnesty International ha dichiarato che si trattava di menzogne, e dal canto suo il Pentagono ha condotto un’inchiesta interna, giungendo anch’esso alla conclusione che si trattava soltanto di menzogne».
Ritorniamo alle mediazioni internazionali: a che punto sono?
C’è una road map africana sulla quale concordano tutti. Noi vogliamo organizzare le elezioni e arrivare a un governo di unità nazionale. Siamo disposti a svolgere le elezioni sotto il controllo delle organizzazioni internazionali, e a varare una nuova Costituzione, ma i ribelli si rifiutano di accettare tutto ciò. Perché? Perché noi non abbiamo ancora trovato un accordo con Parigi».
A Sebha il colonnello Gheddafi venerdì ha parlato ai suoi sostenitori e ha minacciato di vendicarsi e di inviare kamikaze in Europa. Non temete di essere assimilati ai terroristi?
«Prima di tutto è nostro diritto attaccare gli stati che ci attaccano e che uccidono i nostri bambini. Hanno ammazzato il figlio di Muammar Gheddafi, ne hanno distrutto la casa e ucciso i famigliari. Non c’è una sola famiglia in Libia che non sia stata vittima degli attacchi della Nato. É per questo motivo che siamo in guerra: è stata la Nato a iniziare. Che ora se ne assuma le conseguenze».
Seif El Islam, si candiderà alle elezioni della futura Libia?
«Nel 2008 sono ufficialmente uscito dalla politica libica. Da allora e fino all’inizio della crisi ho vissuto lontano dal paese, in Cambogia… Sono tornato in Libia all’inizio di questi avvenimenti. Ero fuori dalla politica, ma dopo quanto è accaduto in Libia, ormai, è tutto cambiato. Ora le cose stanno diversamente: abbiamo assistito a tradimenti, giochi di interesse e tentativi di colonizzazione. Non vedo perché non dovrei candidarmi. A questo punto ogni opzione è aperta».
Alcuni ipotizzano una spartizione della Libia. Il primo ministro inglese David Cameron ha già dichiarato che è necessario dividere il Sahara libico. Che cosa ne pensa?
«Sì, esiste un piano inglese per procedere alla spartizione della Libia. Tale piano prevede che l’ovest e il sud vadano alla Francia, l’est alla Gran Bretagna, e infine che a Tobruk sorga una base militare britannica. Tutto ciò non è certo un segreto, ma si tratta soltanto di velleità colonizzatrici che non si concretizzeranno».
Che cosa rappresenta per lei l’Algeria?
«In tutta sincerità, se lo chiede a un libico qualsiasi le risponderà che gli algerini sono molto simili ai libici. Purtroppo, come avrà sicuramente avuto modo di constatare, l’unico paese arabo preso di mira dai fuorilegge è proprio l’Algeria. Con gli algerini abbiamo qualcosa di preciso in comune: loro hanno lottato contro la Francia in passato; noi lo stiamo facendo adesso… La mediazione dell’Algeria è ben accetta, in quanto essa ha sempre rivestito un ruolo unificante. Vorrei precisare che le posizioni dei paesi arabi sono vergognose, mentre l’Algeria è tra i pochi paesi arabi ad avere assunto una posizione completamente diversa. Il popolo libico non lo dimenticherà, mai, ed è per questo che la mediazione algerina è gradita ai fini della riconciliazione tra i fratelli libici».
Vuole aggiungere ancora qualcosa? Esprimere un’ultima idea?
«Vorrei che la comunità internazionale prestasse molta attenzione a quello che sta accadendo in Libia, dove è in corso una delle più grandi campagne di disinformazione e distorsione dei fatti. Gli europei e gli stessi americani hanno riconosciuto questa verità. I media hanno creato molti scandali, mai esistiti. Vogliamo rivolgerci alla comunità internazionale e metterla in guardia dalle immagini trasmesse dai canali satellitari e da Internet: sono fotomontaggi, sono montature. Uno di questi giorni la verità salterà fuori!».
Traduzione di Anna Bissanti
* http://fr.elkhabar.com/?L-Algerie-n-est-pas-un-peuple-de
FONTE
Support for Muammar al Gaddafi from the people of Serbia
giovedì 21 luglio 2011
Si scrive "CASTA" ma si pronuncia "FMI"
IL FMI COSTRINGE IL GOVERNO GRECO A FINANZIARE LE PRIVATIZZAZIONI
Un fatto accaduto il 4 luglio scorso non ha avuto alcuna risonanza sui media, e ciò proprio perché la notizia avrebbe potuto contribuire a spiegare parecchie cose anche su quanto sta avvenendo in questi giorni in Italia. In quella data il governo greco ha inviato all'attuale direttore del Fondo Monetario Internazionale, Lagarde, una lettera in cui si impegna a realizzare quanto già sottoscritto il 2 maggio dello scorso anno nei confronti dello stesso FMI, all'atto di ricevere il prestito vincolato al programma di presunto "risanamento" del debito pubblico greco.
Nella lettera il governo greco non si limita a rinnovare gli impegni, ma allega un memorandum in cui illustra scadenze e strumenti per realizzarli. Il punto saliente della lettera riguarda, manco a dirlo, le privatizzazioni.
Nel testo viene ricordato che il Parlamento greco ha già approvato un dettagliato piano di privatizzazioni con scadenze precise, ed allo scopo è stata istituita un'apposita agenzia. Nel memorandum viene però spiegato anche come queste privatizzazioni saranno materialmente realizzate, cioè attraverso un Fondo finanziato dallo Stato!
Il Fondo per le privatizzazioni sarà infatti sovvenzionato dal Ministero delle Finanze greco, che versa immediatamente una quota iniziale di trenta milioni di euro, da aumentare poi in base alle esigenze. Il testo della lettera e del memorandum del governo greco sono reperibili sul sito del Fondo Monetario Internazionale, che deve costituire il luogo più segreto del mondo, dato che nessun giornalista dei media ufficiali riesce mai a consultarlo.(1)
Quindi lo Stato greco non solo non incassa nulla per le privatizzazioni, dato che nessun privato è lì pronto a sborsare le cifre necessarie; ma, al contrario, il Ministero delle Finanze si impegna a fornire ai privati i mezzi per appropriarsi di beni pubblici che altrimenti questi privati non potrebbero comprare. Le privatizzazioni vengono giustificate in nome dell'esigenza di ridurre le spese dello Stato, ma intanto lo Stato viene costretto a finanziare i privati in nome di una del tutto ipotetica remunerazione futura. Insomma, il solito assistenzialismo per ricchi.
E cosa si privatizza? Di tutto. Dalle quote azionarie detenute dallo Stato, sino ai beni immobili del Demanio pubblico. Se si voleva una prova documentale che l'emergenza del debito pubblico costituisce soltanto un pretesto per privatizzare scaricando i costi sulla spesa pubblica, questa prova è reperibile sul sito del FMI.
Nel memorandum del governo greco si può consultare un elenco puntiglioso degli articoli di spesa pubblica da salassare per reperire le risorse finanziare necessarie a pagare le privatizzazioni. Tra i settori da spremere non mancano, ovviamente, le pensioni ed il Pubblico Impiego; ciò in base alle vere regole del sedicente "Libero Mercato", che consistono nel costringere i poveri a versare l'elemosina ai ricchi.
Vista l'entità della rapina ai danni del popolo greco, non c'è da stupirsi che, come le altre bande di rapinatori, anche i vertici del FMI si siano messi a litigare per la spartizione del bottino. Lo scontro interno al FMI, tra la fazione USA e quella europea, per ora ha messo fuori gioco nientemeno che il boss supremo, il francese Strauss Kahn, che è stato bersaglio di uno scandalo/messinscena piuttosto improbabile, rispetto alla quale i suoi avvocati hanno avuto la capacità di opporre una versione difensiva dei fatti ancora più assurda, tanto da riuscire a commuovere la corte e indurla a liberare lo stesso Strauss Kahn. O, forse, sono stati i titoli massonici del francese a riequilibrare la bilancia della giustizia.(2)
In questa situazione di rapina istituzionalizzata, c'è almeno di positivo che in Grecia l'opposizione sociale dimostra di avere chiari i punti di riferimento ed i veri nemici. Mentre in Italia ancora ci si balocca con bersagli-fantoccio come la "Casta", gli oppositori greci hanno invece chiaramente individuato il FMI come l'aggressore coloniale da cui difendersi. Da questo punto di vista, la memoria storica dei Greci è ancora viva, e molte ferite del colonialismo sono ancora aperte. Dal 1945 al 1949 la Grecia è stata sottoposta ad una aggressione/occupazione militare da parte delle truppe britanniche, con il pretesto di una presunta insurrezione comunista. Di fatto Stalin non appoggiò la resistenza greca; anzi, dal 1948 le fece mancare anche il retroterra e gli aiuti che potevano provenire dai Paesi socialisti confinanti. Nel 1967 la Grecia ancora subì un colpo di Stato, quella volta organizzato dalla NATO, un putsch passato alla Storia come colpo di Stato dei "Colonnelli"; e la giunta militare cadde solo a causa di un conflitto intermo alla stessa NATO: una guerra contro la Turchia per Cipro.
Costituisce un scoperta dell'acqua calda rilevare che la NATO ed il FMI sono facce della stessa medaglia. Alcuni dicono che il FMI è il braccio finanziario della NATO; altri, considerando che la istituzione del FMI risulta di cinque anni antecedente a quella della NATO, affermano invece che è la NATO a costituire il braccio armato del FMI. Comunque sia, la NATO ed il FMI costituiscono distinti aspetti istituzionali della stessa cordata affaristico-criminale, come risulta platealmente dal caso Kosovo, uno staterello mafioso generato dalle bombe NATO ed immediatamente adottato dal FMI.(3)
Le organizzazioni internazionali agiscono in effetti come un unico potere e, di fatto, confondono e sovrappongono le loro funzioni. Ad esempio, è la documentazione reperibile sul sito del FMI a farci sapere che persino l'Organizzazione Mondiale per il Commercio (acronimo inglese: WTO) non è altro che un'emanazione dello stesso FMI. Gli accordi del WTO prevedono infatti la consultazione obbligatoria con il FMI per ogni aspetto che riguardi bilance dei pagamenti e riserve finanziarie, cioè praticamente per tutto.(4)
(1) http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://www.imf.org/External/NP/LOI/2011/GRC/070411.pdf&ei=hBUjTq7BOo2l-gbmuuShAw&sa=X&oi=translate&ct=result&resnum=2&sqi=2&ved=0CCMQ7gEwAQ&prev=/search%3Fq%3Dimf%2Bgreece%2B2011%2Bprivatization%26hl%3Dit%26rlz%3D1R2ACAW_it%26biw%3D960%26bih%3D487%26prmd%3Divns
(2) http://archiviostorico.corriere.it/1997/giugno/04/Strauss_Kahn_prof_seduttore_odiato_co_0_97060411100.shtml
(3) http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://www.imf.org/external/country/uvk/index.htm&ei=Wm8mTpjvMoeAOrK29MIK&sa=X&oi=translate&ct=result&resnum=9&ved=0CG0Q7gEwCA&prev=/search%3Fq%3Dkosovo%2Bnato%2Bimf%26hl%3Dit%26sa%3DG%26rlz%3D1W1ACAW_itIT338%26prmd%3Divns
(4) http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://www.imf.org/external/np/exr/facts/imfwto.htm&ei=MckhTuafNcfqOZ_GkfEO&sa=X&oi=translate&ct=result&resnum=1&ved=0CCsQ7gEwAA&prev=/search%3Fq%3Dwto%2Bimf%26hl%3Dit%26sa%3DG%26rlz%3D1R2ACAW_it%26prmd%3Divns
FONTE
Un fatto accaduto il 4 luglio scorso non ha avuto alcuna risonanza sui media, e ciò proprio perché la notizia avrebbe potuto contribuire a spiegare parecchie cose anche su quanto sta avvenendo in questi giorni in Italia. In quella data il governo greco ha inviato all'attuale direttore del Fondo Monetario Internazionale, Lagarde, una lettera in cui si impegna a realizzare quanto già sottoscritto il 2 maggio dello scorso anno nei confronti dello stesso FMI, all'atto di ricevere il prestito vincolato al programma di presunto "risanamento" del debito pubblico greco.
Nella lettera il governo greco non si limita a rinnovare gli impegni, ma allega un memorandum in cui illustra scadenze e strumenti per realizzarli. Il punto saliente della lettera riguarda, manco a dirlo, le privatizzazioni.
Nel testo viene ricordato che il Parlamento greco ha già approvato un dettagliato piano di privatizzazioni con scadenze precise, ed allo scopo è stata istituita un'apposita agenzia. Nel memorandum viene però spiegato anche come queste privatizzazioni saranno materialmente realizzate, cioè attraverso un Fondo finanziato dallo Stato!
Il Fondo per le privatizzazioni sarà infatti sovvenzionato dal Ministero delle Finanze greco, che versa immediatamente una quota iniziale di trenta milioni di euro, da aumentare poi in base alle esigenze. Il testo della lettera e del memorandum del governo greco sono reperibili sul sito del Fondo Monetario Internazionale, che deve costituire il luogo più segreto del mondo, dato che nessun giornalista dei media ufficiali riesce mai a consultarlo.(1)
Quindi lo Stato greco non solo non incassa nulla per le privatizzazioni, dato che nessun privato è lì pronto a sborsare le cifre necessarie; ma, al contrario, il Ministero delle Finanze si impegna a fornire ai privati i mezzi per appropriarsi di beni pubblici che altrimenti questi privati non potrebbero comprare. Le privatizzazioni vengono giustificate in nome dell'esigenza di ridurre le spese dello Stato, ma intanto lo Stato viene costretto a finanziare i privati in nome di una del tutto ipotetica remunerazione futura. Insomma, il solito assistenzialismo per ricchi.
E cosa si privatizza? Di tutto. Dalle quote azionarie detenute dallo Stato, sino ai beni immobili del Demanio pubblico. Se si voleva una prova documentale che l'emergenza del debito pubblico costituisce soltanto un pretesto per privatizzare scaricando i costi sulla spesa pubblica, questa prova è reperibile sul sito del FMI.
Nel memorandum del governo greco si può consultare un elenco puntiglioso degli articoli di spesa pubblica da salassare per reperire le risorse finanziare necessarie a pagare le privatizzazioni. Tra i settori da spremere non mancano, ovviamente, le pensioni ed il Pubblico Impiego; ciò in base alle vere regole del sedicente "Libero Mercato", che consistono nel costringere i poveri a versare l'elemosina ai ricchi.
Vista l'entità della rapina ai danni del popolo greco, non c'è da stupirsi che, come le altre bande di rapinatori, anche i vertici del FMI si siano messi a litigare per la spartizione del bottino. Lo scontro interno al FMI, tra la fazione USA e quella europea, per ora ha messo fuori gioco nientemeno che il boss supremo, il francese Strauss Kahn, che è stato bersaglio di uno scandalo/messinscena piuttosto improbabile, rispetto alla quale i suoi avvocati hanno avuto la capacità di opporre una versione difensiva dei fatti ancora più assurda, tanto da riuscire a commuovere la corte e indurla a liberare lo stesso Strauss Kahn. O, forse, sono stati i titoli massonici del francese a riequilibrare la bilancia della giustizia.(2)
In questa situazione di rapina istituzionalizzata, c'è almeno di positivo che in Grecia l'opposizione sociale dimostra di avere chiari i punti di riferimento ed i veri nemici. Mentre in Italia ancora ci si balocca con bersagli-fantoccio come la "Casta", gli oppositori greci hanno invece chiaramente individuato il FMI come l'aggressore coloniale da cui difendersi. Da questo punto di vista, la memoria storica dei Greci è ancora viva, e molte ferite del colonialismo sono ancora aperte. Dal 1945 al 1949 la Grecia è stata sottoposta ad una aggressione/occupazione militare da parte delle truppe britanniche, con il pretesto di una presunta insurrezione comunista. Di fatto Stalin non appoggiò la resistenza greca; anzi, dal 1948 le fece mancare anche il retroterra e gli aiuti che potevano provenire dai Paesi socialisti confinanti. Nel 1967 la Grecia ancora subì un colpo di Stato, quella volta organizzato dalla NATO, un putsch passato alla Storia come colpo di Stato dei "Colonnelli"; e la giunta militare cadde solo a causa di un conflitto intermo alla stessa NATO: una guerra contro la Turchia per Cipro.
Costituisce un scoperta dell'acqua calda rilevare che la NATO ed il FMI sono facce della stessa medaglia. Alcuni dicono che il FMI è il braccio finanziario della NATO; altri, considerando che la istituzione del FMI risulta di cinque anni antecedente a quella della NATO, affermano invece che è la NATO a costituire il braccio armato del FMI. Comunque sia, la NATO ed il FMI costituiscono distinti aspetti istituzionali della stessa cordata affaristico-criminale, come risulta platealmente dal caso Kosovo, uno staterello mafioso generato dalle bombe NATO ed immediatamente adottato dal FMI.(3)
Le organizzazioni internazionali agiscono in effetti come un unico potere e, di fatto, confondono e sovrappongono le loro funzioni. Ad esempio, è la documentazione reperibile sul sito del FMI a farci sapere che persino l'Organizzazione Mondiale per il Commercio (acronimo inglese: WTO) non è altro che un'emanazione dello stesso FMI. Gli accordi del WTO prevedono infatti la consultazione obbligatoria con il FMI per ogni aspetto che riguardi bilance dei pagamenti e riserve finanziarie, cioè praticamente per tutto.(4)
(1) http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://www.imf.org/External/NP/LOI/2011/GRC/070411.pdf&ei=hBUjTq7BOo2l-gbmuuShAw&sa=X&oi=translate&ct=result&resnum=2&sqi=2&ved=0CCMQ7gEwAQ&prev=/search%3Fq%3Dimf%2Bgreece%2B2011%2Bprivatization%26hl%3Dit%26rlz%3D1R2ACAW_it%26biw%3D960%26bih%3D487%26prmd%3Divns
(2) http://archiviostorico.corriere.it/1997/giugno/04/Strauss_Kahn_prof_seduttore_odiato_co_0_97060411100.shtml
(3) http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://www.imf.org/external/country/uvk/index.htm&ei=Wm8mTpjvMoeAOrK29MIK&sa=X&oi=translate&ct=result&resnum=9&ved=0CG0Q7gEwCA&prev=/search%3Fq%3Dkosovo%2Bnato%2Bimf%26hl%3Dit%26sa%3DG%26rlz%3D1W1ACAW_itIT338%26prmd%3Divns
(4) http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://www.imf.org/external/np/exr/facts/imfwto.htm&ei=MckhTuafNcfqOZ_GkfEO&sa=X&oi=translate&ct=result&resnum=1&ved=0CCsQ7gEwAA&prev=/search%3Fq%3Dwto%2Bimf%26hl%3Dit%26sa%3DG%26rlz%3D1R2ACAW_it%26prmd%3Divns
FONTE
martedì 19 luglio 2011
19 luglio 1992 Paolo Borsellino - per non dimenticare
domenica 17 luglio 2011
I nostri alleati in Libia
Vedendo ciò che stanno facendo i ribelli in Libia vien da chiedersi chi siano veramente i terroristi,non credo che Gheddafi pur con tutte le colpe cui possiamo attribuirigli si sia mai macchiato di tali atrocità e allora diciamolo che parlamento,compreso il presidente della repubblica, è mai il nostro che appoggia simili personaggi,in nome di chi o cosa?E in nome di chi o cosa noi dovremmo subire l'ennesimo strozzinaggio economico,solo per finanziare una guerra atroce ed ingiusta,l'ennesimo atto barbarico colonialista di noi "italiani brava gente"?
Sto pensando a quella povera gente che sta vivendo giorni a dir poco drammatici ed in loro nome faccio un richiamo ad una disobbienza civile,non paghiamo più nulla,non alimentiamo coi nostri soldi un simile scempio,non diventiamo complici di un simile massacro.
altri 8 videotestimonianze di atrocità da parte dei ribelli libici
Sto pensando a quella povera gente che sta vivendo giorni a dir poco drammatici ed in loro nome faccio un richiamo ad una disobbienza civile,non paghiamo più nulla,non alimentiamo coi nostri soldi un simile scempio,non diventiamo complici di un simile massacro.
ATTENZIONE immagini forti
altri 8 videotestimonianze di atrocità da parte dei ribelli libici
sabato 16 luglio 2011
L'Islanda innova redigendo la sua costituzione via Twitter e Facebook
Par RFI
I dibattiti sulla pagina Facebook del Consiglio costituzionale islandese.
Gli islandesi devono pronunciarsi nel corso dell'autunno 2011 su un progetto di nuova costituzione. Piccola rivoluzione in materia di partecipazione politica: da aprile, il testo è scritto in collaborazione con gli internauti, che siano cittadini islandesi o stranieri, nuovi o specialisti del diritto costituzionale. Si parla già “di Wiki-constitution„ o “di e„.
È la prima volta che uno Stato fa appello agli internauti ed alle reti sociali per elaborare un testo costituzionale. Dall'aprile 2011, tutti gli argomenti sono discussi , dei diritti dell'uomo all'organizzazione del governo e dei pubblici poteri, del sistema sanitario alla giustizia.
Obiettivo: sostituire la costituzione islandese attuale, copiata sul modello danese in occasione dell'indipendenza del 1944, con un testo che tiene conto delle aspirazioni politiche nuove degli islandesi. Questi, dopo avere subito in pieno la crisi finanziaria del 2008, si sono pronunciati tramite referendum e rifiutano per due volte, nel 2010 e 2011, di assumere i debiti della banca IceSave responsabile del fallimento del paese. Manifestazioni di protesta hanno imposto cambiamenti profondi istituzionali. Nel 2010, solo il 10,5% degli islandesi, percentuale storicamente bassa, dichiarava di avere “ grande fiducia„ nello Althing, il Parlamento islandese.
Verso un referendum nell'autunno
Le autorità di Reykjavík hanno ricevuto il messaggio ed hanno deciso di attualizzare la legge fondamentale del paese. Nel novembre 2010, il progetto cominciava con l'elezione a suffragio universale del Consiglio costituzionale, 25 cittadini ordinari incaricati di partecipare alla riscrittura completa della costituzione. Le sole condizioni per essere candidato erano di avere oltre 18 anni e presentare almeno 30 sostegni.
Avvocati, giornalisti, economisti, giuristi o anche studenti, i membri di questo Consiglio hanno sorvegliato l'insieme del processo, che comincia per lavorare su una relazione di 700 pagine preparata da un comitato. Quest'ultimo aveva sintetizzato le conclusioni della tribuna nazionale composta da 950 islandesi scelti a caso e raccolti per un giorno di dibattiti. In seguito, nell'aprile 2011, il Consiglio costituzionale ha aperto la consultazione su Internet.
Internauti islandesi o partecipanti del mondo intero, esperti o anonimi, presentano al Consiglio costituzionale le loro proposte, proposte e reclami su questo o quel tema. L'interattività ha libero corso da settimane, via Twitter, Flickr e Facebook, per commentare e discutere gli articoli del futuro testo messo in linea nel sito del governo. Migliaia di messaggi sono stati già inviati, di numerosi video inviati e visti su Youtube, segno di un reale entusiasmo per questa nuova forma di democrazia partecipativa.
Il progetto, consultabile in linea in modo permanente, resta tuttavia inquadrato da costituzionalisti tenuto conto della sua tecnicità. Dovrà essere completato durante questo mese di luglio 2011. In seguito, il testo sarà presentato a suffragio degli islandesi in occasione di un referendum, probabilmente nell'autunno. Infine, dovrebbe essere il Parlamento ad approvare la nuova costituzione, frutto di una forma nuova di democrazia partecipativa.
link per contatti
Obiettivo: sostituire la costituzione islandese attuale, copiata sul modello danese in occasione dell'indipendenza del 1944, con un testo che tiene conto delle aspirazioni politiche nuove degli islandesi. Questi, dopo avere subito in pieno la crisi finanziaria del 2008, si sono pronunciati tramite referendum e rifiutano per due volte, nel 2010 e 2011, di assumere i debiti della banca IceSave responsabile del fallimento del paese. Manifestazioni di protesta hanno imposto cambiamenti profondi istituzionali. Nel 2010, solo il 10,5% degli islandesi, percentuale storicamente bassa, dichiarava di avere “ grande fiducia„ nello Althing, il Parlamento islandese.
Verso un referendum nell'autunno
Le autorità di Reykjavík hanno ricevuto il messaggio ed hanno deciso di attualizzare la legge fondamentale del paese. Nel novembre 2010, il progetto cominciava con l'elezione a suffragio universale del Consiglio costituzionale, 25 cittadini ordinari incaricati di partecipare alla riscrittura completa della costituzione. Le sole condizioni per essere candidato erano di avere oltre 18 anni e presentare almeno 30 sostegni.
Avvocati, giornalisti, economisti, giuristi o anche studenti, i membri di questo Consiglio hanno sorvegliato l'insieme del processo, che comincia per lavorare su una relazione di 700 pagine preparata da un comitato. Quest'ultimo aveva sintetizzato le conclusioni della tribuna nazionale composta da 950 islandesi scelti a caso e raccolti per un giorno di dibattiti. In seguito, nell'aprile 2011, il Consiglio costituzionale ha aperto la consultazione su Internet.
Internauti islandesi o partecipanti del mondo intero, esperti o anonimi, presentano al Consiglio costituzionale le loro proposte, proposte e reclami su questo o quel tema. L'interattività ha libero corso da settimane, via Twitter, Flickr e Facebook, per commentare e discutere gli articoli del futuro testo messo in linea nel sito del governo. Migliaia di messaggi sono stati già inviati, di numerosi video inviati e visti su Youtube, segno di un reale entusiasmo per questa nuova forma di democrazia partecipativa.
Il progetto, consultabile in linea in modo permanente, resta tuttavia inquadrato da costituzionalisti tenuto conto della sua tecnicità. Dovrà essere completato durante questo mese di luglio 2011. In seguito, il testo sarà presentato a suffragio degli islandesi in occasione di un referendum, probabilmente nell'autunno. Infine, dovrebbe essere il Parlamento ad approvare la nuova costituzione, frutto di una forma nuova di democrazia partecipativa.
link per contatti
- La località del Consiglio costituzionale islandese (Stjórnlagaráð)
- La pagina Facebook del Consiglio costituzionale islandese
- La pagina Twitter del progetto
venerdì 15 luglio 2011
Bahrein e altre storie
Nei giorni in cui Hillary Clinton ha pubblicamente gettato benzina sul fuoco che da mesi incendia la società siriana e Sarkozy pare abbia innestato una brusca marcia indietro rispetto alla posizione oltranzista propugnata finora in relazione all’affaire libico, la rivolta del Bahrein continua ad essere oggetto del più totale oscuramento mediatico.
Definire angusto lo spazio dedicato dagli organi di informazione ai moti che hanno agitato il piccolo arcipelago del Golfo Persico risulta infatti a dir poco eufemistico.
Non a caso, mentre la Siria – che nonostante tutto vede ancora il Baath retto dal presidente Bashar Assad mantenere saldamente le redini del governo – e la Libia – con Gheddafi che continua a tenere in scacco tanto gli aggressori francesi, inglesi e statunitensi (e italiani) quanto i sedicenti “ribelli di Bengasi” loro assistiti – sono state oggetto della più assidua attenzione mediatica e di inaudite campagne mistificatorie atte a screditare i loro legittimi governi impegnati a fronteggiare la note turbolenze sociali che hanno scosso buona parte del complesso universo arabo, sul Bahrein è calata una coltre di silenzio letteralmente assordante.
Le ragioni che hanno dettato tale doppiopesismo hanno effettivamente assunto, in particolare alla luce degli ultimi sviluppi internazionali, un peso assai consistente sul piatto della bilancia regolatrice dei rapporti di forza all’interno della regione del Vicino e Medio Oriente, i quali sono a loro volta storicamente suscettibili di sortire decisive ripercussioni sugli assetti geopolitici mondiali.
Il Bahrein è un piccolo paese situato a ridosso delle coste dell’Arabia Saudita che supera di poco il milione di abitanti, ma è sede della più grande raffineria della regione ed è dotato di consistenti risorse petrolifere, pur se in via di esaurimento.
I suoi porti ospitano inoltre la poderosa Quinta Flotta statunitense, stanziata in loco allo scopo di dominare l’area strategicamente cruciale del Golfo Persico.
Il fatto poi che circa due terzi della popolazione del Bahrein professi la versione sciita dell’Islam, cosa che favorirebbe la naturale gravitazione del paese attorno all’orbita dell’Iran, costituisce un fattore fortemente destabilizzante in grado di alterare i precari equilibri su cui si regge l’intera area del Golfo.
Nonostante la soverchiante preponderanza sciita il paese è governato col pugno di ferro dal monarca sunnita Salman Ali Khalifa, fedele alleato dell’Arabia Saudita.
Non stupisce quindi che la sollevazione di piazza delle Perle, prontamente emulata in svariate zone del paese, nell’ambito della quale svariate fazioni sciite hanno protestato congiuntamente contro l’ordine costituito, abbia destato forti preoccupazioni nei vicini sauditi che non hanno esitato a sostenere direttamente la repressione messa in atto dal re Khalifa.
L’intervento ordinato dal governo di Riad è stato dettato dal timore che le proteste del Bahrein si sarebbero espanse a macchia d’olio, raggiungendo l’Arabia Saudita.
Ciò avrebbe sortito ripercussioni pesantissime specialmente sul territorio costiero saudita contiguo al Bahrein, nel quale è situato l’immenso giacimento petrolifero di Ghawar e in cui si annida il nocciolo duro della forte minoranza sciita del paese.
Qualora l’onda d’urto provocata dalle proteste della maggioranza sciita del Bahrein si fosse rivelata incontenibile e avesse conseguentemente travolto il governo in carica di Manama le frange professanti il medesimo credo supportate da numerose altre fazioni subordinate della vicina Arabia Saudita si sarebbero presumibilmente spinte a fare altrettanto, nel tentativo di rovesciare l’establishment e detronizzare il dispotico re Saud.
L’Iran si sarebbe indubbiamente inserito nella contesa, brandendo la spada dello sciismo per estendere la propria egemonia sui paesi che si affacciano sul Golfo Persico e assestandosi quindi su chiare posizioni di forza.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, non possono tollerare che l’Iran acquisisca ulteriore peso sullo scenario internazionale e hanno quindi tutto l’interresse a che la solidità degli ordini costituiti in Bahrein e Arabia Saudita non venga intaccata, trattandosi dei due più fidi garanti dell’atlantismo nella regione.
Per questi motivi la repentina e brutale ingerenza dell’Arabia Saudita in soccorso dell’alleato Khalifa non è stata oggetto di alcunché, in termini di pressioni e condanne internazionali, lontanamente paragonabile a ciò che hanno dovuto subire regimi come quello di Gheddafi e di Assad.
Il che è assai eloquente sullo stato comatoso dell’informazione e sull’ipocrisia che domina il dibattito politico internazionale, incardinato sulla retorica di quegli stessi diritti umani il cui rispetto viene preteso dai regimi retti dai vari Gheddafi, Assad, Ahmadinejad (l’elenco sarebbe lunghissimo) e la cui violazione viene parallelamente tollerata, quando non sostenuta, se ascrivibile ai governi presieduti dai propri alleati che rispondono al nome di Saud, Khalifa, Netanyahu.
: Giacomo Gabellini :::: 15 luglio, 2011
fonte
Definire angusto lo spazio dedicato dagli organi di informazione ai moti che hanno agitato il piccolo arcipelago del Golfo Persico risulta infatti a dir poco eufemistico.
Non a caso, mentre la Siria – che nonostante tutto vede ancora il Baath retto dal presidente Bashar Assad mantenere saldamente le redini del governo – e la Libia – con Gheddafi che continua a tenere in scacco tanto gli aggressori francesi, inglesi e statunitensi (e italiani) quanto i sedicenti “ribelli di Bengasi” loro assistiti – sono state oggetto della più assidua attenzione mediatica e di inaudite campagne mistificatorie atte a screditare i loro legittimi governi impegnati a fronteggiare la note turbolenze sociali che hanno scosso buona parte del complesso universo arabo, sul Bahrein è calata una coltre di silenzio letteralmente assordante.
Le ragioni che hanno dettato tale doppiopesismo hanno effettivamente assunto, in particolare alla luce degli ultimi sviluppi internazionali, un peso assai consistente sul piatto della bilancia regolatrice dei rapporti di forza all’interno della regione del Vicino e Medio Oriente, i quali sono a loro volta storicamente suscettibili di sortire decisive ripercussioni sugli assetti geopolitici mondiali.
Il Bahrein è un piccolo paese situato a ridosso delle coste dell’Arabia Saudita che supera di poco il milione di abitanti, ma è sede della più grande raffineria della regione ed è dotato di consistenti risorse petrolifere, pur se in via di esaurimento.
I suoi porti ospitano inoltre la poderosa Quinta Flotta statunitense, stanziata in loco allo scopo di dominare l’area strategicamente cruciale del Golfo Persico.
Il fatto poi che circa due terzi della popolazione del Bahrein professi la versione sciita dell’Islam, cosa che favorirebbe la naturale gravitazione del paese attorno all’orbita dell’Iran, costituisce un fattore fortemente destabilizzante in grado di alterare i precari equilibri su cui si regge l’intera area del Golfo.
Nonostante la soverchiante preponderanza sciita il paese è governato col pugno di ferro dal monarca sunnita Salman Ali Khalifa, fedele alleato dell’Arabia Saudita.
Non stupisce quindi che la sollevazione di piazza delle Perle, prontamente emulata in svariate zone del paese, nell’ambito della quale svariate fazioni sciite hanno protestato congiuntamente contro l’ordine costituito, abbia destato forti preoccupazioni nei vicini sauditi che non hanno esitato a sostenere direttamente la repressione messa in atto dal re Khalifa.
L’intervento ordinato dal governo di Riad è stato dettato dal timore che le proteste del Bahrein si sarebbero espanse a macchia d’olio, raggiungendo l’Arabia Saudita.
Ciò avrebbe sortito ripercussioni pesantissime specialmente sul territorio costiero saudita contiguo al Bahrein, nel quale è situato l’immenso giacimento petrolifero di Ghawar e in cui si annida il nocciolo duro della forte minoranza sciita del paese.
Qualora l’onda d’urto provocata dalle proteste della maggioranza sciita del Bahrein si fosse rivelata incontenibile e avesse conseguentemente travolto il governo in carica di Manama le frange professanti il medesimo credo supportate da numerose altre fazioni subordinate della vicina Arabia Saudita si sarebbero presumibilmente spinte a fare altrettanto, nel tentativo di rovesciare l’establishment e detronizzare il dispotico re Saud.
L’Iran si sarebbe indubbiamente inserito nella contesa, brandendo la spada dello sciismo per estendere la propria egemonia sui paesi che si affacciano sul Golfo Persico e assestandosi quindi su chiare posizioni di forza.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, non possono tollerare che l’Iran acquisisca ulteriore peso sullo scenario internazionale e hanno quindi tutto l’interresse a che la solidità degli ordini costituiti in Bahrein e Arabia Saudita non venga intaccata, trattandosi dei due più fidi garanti dell’atlantismo nella regione.
Per questi motivi la repentina e brutale ingerenza dell’Arabia Saudita in soccorso dell’alleato Khalifa non è stata oggetto di alcunché, in termini di pressioni e condanne internazionali, lontanamente paragonabile a ciò che hanno dovuto subire regimi come quello di Gheddafi e di Assad.
Il che è assai eloquente sullo stato comatoso dell’informazione e sull’ipocrisia che domina il dibattito politico internazionale, incardinato sulla retorica di quegli stessi diritti umani il cui rispetto viene preteso dai regimi retti dai vari Gheddafi, Assad, Ahmadinejad (l’elenco sarebbe lunghissimo) e la cui violazione viene parallelamente tollerata, quando non sostenuta, se ascrivibile ai governi presieduti dai propri alleati che rispondono al nome di Saud, Khalifa, Netanyahu.
: Giacomo Gabellini :::: 15 luglio, 2011
fonte
martedì 12 luglio 2011
Contro l'Antimafia "a gettone"
A Lamezia i partiti organizzano un sit-in contro la 'ndrangheta ma i movimenti contestato la loro antimafia da parata e ipocrita
Chi volete prendere in giro?
fonte
Utente: vegat
12 / 7 / 2011
Attentati, intimidazioni, omicidi. È questo il volto di Lamezia da un mese a questa parte. Un volto che non ci stupisce, che non ci meraviglia, ma che ci indigna incondizionatamente, che ci costringe nuovamente a ribellarci. Ribellarci, è proprio questo il punto. Ribellarci alla ‘ndrangheta, quella che spara, che chiede il pizzo, che finisce sulle prime pagine dei giornali, mostrando all’Italia intera sempre e soltanto la parte peggiore di questa terra. La ‘ndrangheta che piega la nostra città e che ci priva del nostro futuro. Non siamo stati i soli a pensarlo.
Molti giovani come noi volevano esporsi, ancora una volta, per dire un “No” secco alla ‘ndrangheta. Si sono mosse le associazioni e poi anche i partiti. Partiti che, dopo una riunione aperta a tutte le realtà politiche, da destra a sinistra, hanno deciso di tenere un sit-in davanti al tribunale. Le forze politiche lametine hanno deciso di unirsi, mettendo da parte le loro controversie, per opporsi alla criminalità. Con il rischio che tra di loro potessero essere presenti persone che dai mafiosi hanno ereditato terreni e fortuna o, ancora, persone che hanno permesso a figli e fratelli di mafiosi di candidarsi. Oltre, ovviamente, al fatto che la maggior parte di quelle forze politiche usano l’antimafia come slogan elettorale per accampare voti e visibilità.
Per questo motivo, molte associazioni hanno scelto di non aderire e molti giovani di non partecipare. Ma la voglia di ribellarsi continuava ad esserci. E a quel punto non bastava più ribellarsi alla ‘ndrangheta, bisognava ribellarsi anche al servilismo e alla ipocrisia di alcune forze politiche.
Per questo motivo, abbiamo pensato di fare un volantino di protesta. Abbiamo pensato che l’antimafia appartiene tutti e che nessuno può strumentalizzare un valore tanto importante. Abbiamo pensato che in uno stato democratico, e soprattutto in nome della legalità da loro tanto millantata, era giusto rispondere al loro sit-in con una protesta civile e pacifica. Semplici volantini, attaccati intorno al tribunale, per mostrare anche un altro volto. Quello della gente comune, della gente perbene, che con l’antimafia non si arricchisce le tasche.
Non avremmo mai potuto credere che a distanza di neanche venti minuti dall’affissione, tutti i volantini erano spariti, strappati e buttati, da quelle persone che erano lì in nome della legalità e della democrazia. E’ questo che resta adesso. Un gesto che va oltre la semplice arroganza di chi prova a far tacere il pensiero contrario al suo e che entra perfettamente in quelle logiche mafiose alle quali, appunto, volevamo ribellarci.sabato 9 luglio 2011
giovedì 7 luglio 2011
Dedicato a coloro che si riempono la bocca col PIL
Un anonimo proverbio dice che i numeri sono come le persone: basta torturarli e loro ti diranno ogni cosa; e questo lo sa bene il mondo della politica, che di queste torture è maestro (ai numeri intendo).
I numeri infatti possono diventare ottimi sostituti a buone argomentazioni, in assenza delle quali è sufficiente citare qualche dato a caso per confondere abbastanza le idee da convincere delle proprie posizioni, come iRobert Kennedy verrà assassinato tre mesi dopo questo discorsol tasso di mortalità dei koala dell’ Arizona, la percentuale ottenuta dal Partito dei vegani nelle amministrative di Copenaghen oppure esternazioni sul fatidico e temuto Prodotto Interno Lordo.
Un nome che certo non ispira molta fiducia, ma grazie al quale ogni Paese occidentale o meno può facilmente sotterrare ogni problematica sociale, a patto di avere un buon ranking nella classifica mondiale.
Ma che cos’ è davvero il P.I.L.? Possiamo per certo assumere che un singolo valore numerico per come venga calcolato possa esprimere il livello di ordine ed efficienza di un Paese nonchè la tanto agognata felicità dei cittadini?
Non vogliamo ora dilungarci su questioni metafisiche in merito a cosa debba dare la felicità ad un uomo, perchè il Pil nasconde contraddizioni ad un ambito molto più pratico e terreno.
Partendo con una definizione rigorosa, il Pil è una grandezza macroeconomica che esprime il valore complessivo dei beni e servizi prodotti all’interno di un Paese in un certo intervallo di tempo (solitamente un anno).
Da ciò possiamo constatare che l’ implicazione considerata sia che una produzione maggiore implica maggiore “benessere”, qualsivoglia significato abbia questa parola.
Il punto chiave di tutto il discorso sta nella “produzione”, considerata appunto sintomo e sorgente di un buono stato delle cose, dove per produzione si intende l’ erogazione di qualsiasi bene e/o servizio all’ interno del Paese, o, in altre parole, qualsiasi azione retribuita monetariamente.
A contribuire alla crescita del Pil sono quindi i prodotti Barilla esportati in tutto al Mondo, che portano ricchezza e motivo di vanto ad ogni italiano, ma nella malaugurata ipotesi che uno stabilimento Barilla prenda fuoco, ci si affiderebbe a pompieri, ditte per la ricostruzione, industria sanitaria per i danni alle persone, e tutto ciò crea anch’ esso “produzione”, e ahimè, contribuisce nell’ aumento del Pil.
Incidenti stradali e catastrofi naturali sono tutte il primo anello di una catena fatta di servizi che mettono in circolo quantità enormi di soldi, basti pensare ai costi delle riparazioni, i servizi di soccorso, e non per ultime le spese sanitarie, che vanno anch’ esse ad aumentare il Pil. Quest’ ultime inoltre aumentano notevolmente al verificarsi di un epidemia o della diffusione di un nuovo batterio killer, e anche in questo caso il giro di soldi dovuto all’ industria farmaceutica va ad aumentare il Pil.
Paradossalmente invece, se nella popolazione si instaurassero abitudini alimentari sane, tali da diminuire la diffusione delle patologie, verrebbero spesi meno soldi per le cure, e si registrerebbe un calo del Pil
Ma non finisce qui.
Anche ad un aumento di ingorghi stradali consegue un maggior consumo di carburante, e il finale è lo stesso; l’ aumento della criminalità aumenta il Pil, grazie alle spese di assicurazione che verrebbero messe in atto, o al mercato dei sistemi di antifurto, senza contare che le spese di mantenimento dei carcerati si aggiungono alla lista.
Per quanto riguarda le infrastrutture invece, la costruzione di un ponte o di una linea ferroviaria superflua aumentano il Pil (oltre che i danni ambientali), e nella sciagurata ipotesi in cui la struttura venga successivamente abbattuta per la sua inutilità le spese di smantellamento aumentano ancora di più il totale. Infine, la costruzione di un ponte robusto comporta una crescita del Pil minore rispetto a quella di un ponte cedevole, perchè in quest’ ultimo caso saranno necessari più lavori di manuntenzione, quindi più spese, quindi più “produzione”.
Dall’ altra parte invece, troviamo tutto ciò che è comunemente considerato elemento di salute sociale, ma di cui il Pil “se ne frega”: il Volontariato per definizione non comporta un giro di soldi, e quindi un incremento dell’ attività nel sociale non viene considerata dal Pil, anzi, se il volontario va ad occuparsi di attività prima relegate ad un lavoratore, il Pil addirittura cala.
Interessante in questo contesto è il “paradosso della cuoca”, per cui nel momento in cui il padrone di casa decide di sposare la cuoca al suo servizio, questa non svolge più lavoro retribuito, e il Pil nazionale cala pur mantenendo la stessa produzione di prima.
Il Pil infatti non considera l’ autoconsumo, le economie di scambio non monetario e l’ autoproduzione dei beni alimentari; tutte attività inesistenti ai suoi occhi; idem per un pannello solare che rende energeticamente indipendente un abitazione. Gli esempi potrebbero essere infiniti, ma credo siano sufficienti questi per capire come non sia possibile tramite una cifra monetaria constatare le complesse dinamiche all’ interno di una società che può anche essere molto variegata come nel caso della Cina, dove il Pil aumenta esponenzialmente ogni anno ma il divario economico tra città e città è titanico.
Alla base del problema però, sta la convinzione nel poter considerare la ricchezza monetaria quale lo specchio del benessere individuale e collettivo. Questo risulta errato soprattutto a causa della struttura stessa della nostra società, che offre vantaggi dal consumo indiscriminato di risorse, favorisce gli sprechi e crea possibilità di guadagno laddove vi sono problematiche sociali, come nel caso delle malattie.
In un sistema del genere, una maggiore produzione monetaria può quindi implicare eccessi in ogni direzione, talvolta nocivi per la comunità stessa.
by Daniele
Fonte:http://liberarchia.noblogs.org/post/2011/07/06/p-i-l-paradossale-indice-di-lucro/
mercoledì 6 luglio 2011
Manovre di Palazzi
di Fabrizio Casari Le accuse del Procuratore sportivo Palazzi all’ex-Presidente dell’Inter Giacinto Facchetti, appaiono, in forma e sostanza, gravemente condizionate da approssimazione e preconcetto. L’impianto accusatorio della relazione è fortemente sbilanciato e dallo stesso alcuni desumono che il Procuratore sportivo ritiene le ipotesi di colpa di Facchetti pari o quasi a quelle di Moggi. Se così fosse sarebbe un infortunio grave che allungherebbe ombre cupe sull’onestà di giudizio di Palazzi. Sarebbe infatti semplice pubblicare simultaneamente le telefonate intercorse tra Facchetti e Bergamo da una parte e quelle tra Moggi e Bergamo dall’altra per rendersi conto di quanto siano scarsamente associabili e completamente diverse negli obiettivi. Chiunque capirebbe la differenza.
Il fatto che le opinioni di Palazzi siano solo quelle dell’accusa andrebbe ricordato sempre: non solo perché dovuto nella descrizione di ogni vicenda processuale, ma proprio perché si deve ricordare la lunga lista di accuse che Palazzi distribuisce e che non vengono confermate dai tribunali. La fase dibattimentale e il giudizio terzo del giudice producono infatti sempre sentenze diverse da quelle indicate dalle accuse di Palazzi. Ultima quella sul caso Pandev.
Certo è strano che il giudizio complessivo della relazione indichi Facchetti quale responsabile di violazione degli articoli 1 e 6 del regolamento. Nelle numerose pagine dedicate alle telefonate intercorse tra Facchetti e i designatori, infatti, non è possibile rilevare altro che un generico quanto inefficace, pur ripetuto, tentativo di ottenere arbitri adeguati alla delicatezza degli incontri che attendevano i nerazzurri. L’intento che traspare era quello di proteggere l’Inter da designazioni arbitrali che, come successivamente appurato, erano tese a favorire il clan di Moggi.
Si dovrebbero rileggere attentamente le intercettazioni delle telefonate tra Facchetti e Bergamo e, ove si fosse provvisti di senso logico, si capirebbe facilmente come le richieste del dirigente interista siano per avere “il migliore” (chiede espressamente Collina) e per non avere, invece, quelli come Bertini o altri che contro l’Inter avevano precedentemente arbitrato con evidenti atteggiamenti punitivi. In sostanza, pur potendo eccepire sulle modalità, si tratta di richieste che possono essere configurate come tentativi di ricusazione di alcuni arbitri da un lato e richiesta di partecipazione di quelli meno ricattabili e meno sospetti di legami con il clan di Moggi e Giraudo dall’altro.
Per essere precisi si può citare una conversazione del Maggio 2005, nella quale Bergamo propone di affidare la gara all’arbitro Bertini (di cui Facchetti si era lamentato per via di diverse decisioni sbagliate e sempre a danno dell’Inter); Bergamo si offre d’istruire a dovere Bertini per un arbitraggio che finisca con la vittoria dell’Inter e Facchetti risponde invece di volere un arbitraggio giusto. Non certo contenuti e toni da assimilare alle altre miriadi di telefonate che i designatori avevano con Moggi. Su questo non è possibile equivocare, se non in malafede.
E’ bene comunque ricordare che all’epoca dei fatti non era proibito (come invece lo è oggi) parlare con i designatori. Lo facevano tutti, e molti tra questi perseguivano l’obiettivo di difendere le proprie squadre dagli assalti della cupola che intendeva determinare non solo le vittorie della Juventus, ma anche il resto del campionato. Ma un conto è parlare e un altro è tramare; un conto è chiedere garanzie di qualità nell’arbitro, un altro è dare ordini ai designatori.
Facchetti, infatti, chiedeva tutela dalla malafede e dall’incapacità già dimostrata da parte di alcuni fischietti verso i nerazzurri, e lo faceva sapendo bene con chi e di cosa stesse parlando, viste le informazioni che aveva avuto da un ex-arbitro (Nucini) su come funzionasse il sistema. Ma, a differenza di Moggi, Facchetti non organizzava le griglie con Bergamo e Pairetto, non decideva chi punire e chi promuovere tra i fischietti, non distribuiva le sim-card estere per parlare con arbitri e designatori senza essere intercettati, non ordinava risultati a la carte. Mettere quindi sullo stesso piano la condotta di Moggi e del suo clan con quella di Facchetti è improponibile dal punto di vista della ricostruzione oggettiva della vicenda e pessimo dal punto di vista “politico”.
Che le accuse di Palazzi diventino tout-court sentenze su alcuni giornali sportivi è parte di un’altra faccenda. Essi, infatti, oltre ad avere nei tifosi juventini un bacino importante di lettori, appartengono ai gruppi editoriali che fanno capo, indirettamente o direttamente, alla Fiat e alla Fininvest, cioè le società proprietarie - direttamente o tramite controllate - di Juventus e Milan, già condannate proprio per Calciopoli. Addirittura scatenati, in preda a crisi isteriche i giornalisti vicini a Moggi, che oggi inneggiano invece alla relazione di Palazzi come fosse la sentenza di un tribunale. Per suo conto ventriloqui fin troppo attivi e per questo sanzionati dall’Ordine dei Giornalisti, imperversano ormai solo nelle radio private che con alcuni dei condannati hanno particolare familiarità.
L’intento di dimostrare che l’agire era comune a tutti serve in primis alle loro vendette personali, giacchè la fine di Moggi ha comportato la loro entrata nel cono d’ombra. Ma, soprattutto, si vuole smontare l’idea che l’Inter fosse diversa dalle altre: non lo scudetto del 2006, ma lo “scudetto degli onesti” è quello che proprio non sopportano. Ovviamente, poi, da parte di costoro non viene citata la parte della relazione di Palazzi dove si confermano per Moggi e soci le accuse di essere “un vero e proprio sistema organizzato” destinato a favorire sul campo e fuori dal campo le vittorie alla Juventus.
La richiesta, subdola, che viene da più commentatori, è che l’Inter rinunci di sua iniziativa allo scudetto del 2006. Non costerebbe niente rinunciarvi, non fosse altro che questo sarebbe come ammettere che le accuse di Palazzi sono giuste. Questo sì che offrirebbe alle ineffabili penne “neutrali” la stura per poter chiudere il cerchio con una sentenza di colpevolezza generale che metta tutti sullo stesso piano. Moggi come Facchetti, Meani come della Valle, Lotito come Foti e via amalgamando ingredienti, vicende, persone e fatti che non hanno nessun elemento comune.
Pur nella lettura generale che vede comportamenti illeciti, tra chi altera la regolarità dei tornei e chi cerca di difendersi da ciò è difficile riscontrare elementi di verosimiglianza negli scopi e nel conseguente agire. Va detto, peraltro, che è lo stesso Palazzi a chiedere l’archiviazione della richiesta juventina relativa alla non assegnazione dello scudetto 2006, perché gli eventuali illeciti dell’Inter sono comunque prescritti.
Ed ecco allora che un’altra richiesta viene fatta all’Inter: quella di rinunciare alla prescrizione ed andare a processo. Palazzi lo propone a mo’ di sfida, spogliandosi così platealmente dal ruolo istituzionale per assumere le vesti autentiche. Peccato che l’eventuale imputato sia deceduto e, dunque, non si capisce chi dovrebbe essere a rinunciare alla prescrizione, dal momento che le accuse sono rivolte direttamente a Facchetti e non a Moratti, peraltro non tesserato all’epoca.
Si vorrebbe un processo mediatico, sostenuto dai giornali e dalle tv amiche che vedrebbe l’Inter sola contro tutto e tutti. Ma come mai la stessa richiesta - quella cioè di non avvalersi della prescrizione di fronte ad accuse d’illecito sportivo - non venne mai indirizzata alla Juventus in occasione del processo per doping? La Juventus, infatti, accusata dal procuratore Guariniello, evidentemente certa della sua colpevolezza, si guardò bene dal rinunciare alla prescrizione. E dunque fa bene Moratti ad avvertire sulle sicure azioni dell’Inter a tutela della sua immagine e dei danni verso chi è tentato dal ribaltone dei fatti.
Per carità, l’Italia è il Paese dove i ladri si mettono a fare politica e i politici si danno da fare per le loro aziende; dove i giudici vengono confusi con gli imputati e dove i repubblichini vengono messi sullo stesso piano dei partigiani. E' il Paese dove la verità paga dazio ai potenti, da sempre. L'importante, però, é che la verità non vada persa nel regno dell'indistinto. Gigi Riva, il più grande dei bomber azzurri, ha detto: “Tutti quelli che oggi parlano su Giacinto farebbero meglio a stare zitti: lui era pulito. Facchetti era una persona semplice, pulita, onesta, il nostro angelo. Ora provo una grande rabbia”. Moggi, per quanto possa dolere alle sue numerose vedove, variamente parcheggiate nei giornali, nelle radio e nelle Tv, resterà sempre l’emblema del gioco sporco, della corruzione e della slealtà sportiva, così come Facchetti verrà ricordato sempre come un gentiluomo dello sport. Ingenuo, forse, ma onesto.
fonte
Il fatto che le opinioni di Palazzi siano solo quelle dell’accusa andrebbe ricordato sempre: non solo perché dovuto nella descrizione di ogni vicenda processuale, ma proprio perché si deve ricordare la lunga lista di accuse che Palazzi distribuisce e che non vengono confermate dai tribunali. La fase dibattimentale e il giudizio terzo del giudice producono infatti sempre sentenze diverse da quelle indicate dalle accuse di Palazzi. Ultima quella sul caso Pandev.
Certo è strano che il giudizio complessivo della relazione indichi Facchetti quale responsabile di violazione degli articoli 1 e 6 del regolamento. Nelle numerose pagine dedicate alle telefonate intercorse tra Facchetti e i designatori, infatti, non è possibile rilevare altro che un generico quanto inefficace, pur ripetuto, tentativo di ottenere arbitri adeguati alla delicatezza degli incontri che attendevano i nerazzurri. L’intento che traspare era quello di proteggere l’Inter da designazioni arbitrali che, come successivamente appurato, erano tese a favorire il clan di Moggi.
Si dovrebbero rileggere attentamente le intercettazioni delle telefonate tra Facchetti e Bergamo e, ove si fosse provvisti di senso logico, si capirebbe facilmente come le richieste del dirigente interista siano per avere “il migliore” (chiede espressamente Collina) e per non avere, invece, quelli come Bertini o altri che contro l’Inter avevano precedentemente arbitrato con evidenti atteggiamenti punitivi. In sostanza, pur potendo eccepire sulle modalità, si tratta di richieste che possono essere configurate come tentativi di ricusazione di alcuni arbitri da un lato e richiesta di partecipazione di quelli meno ricattabili e meno sospetti di legami con il clan di Moggi e Giraudo dall’altro.
Per essere precisi si può citare una conversazione del Maggio 2005, nella quale Bergamo propone di affidare la gara all’arbitro Bertini (di cui Facchetti si era lamentato per via di diverse decisioni sbagliate e sempre a danno dell’Inter); Bergamo si offre d’istruire a dovere Bertini per un arbitraggio che finisca con la vittoria dell’Inter e Facchetti risponde invece di volere un arbitraggio giusto. Non certo contenuti e toni da assimilare alle altre miriadi di telefonate che i designatori avevano con Moggi. Su questo non è possibile equivocare, se non in malafede.
E’ bene comunque ricordare che all’epoca dei fatti non era proibito (come invece lo è oggi) parlare con i designatori. Lo facevano tutti, e molti tra questi perseguivano l’obiettivo di difendere le proprie squadre dagli assalti della cupola che intendeva determinare non solo le vittorie della Juventus, ma anche il resto del campionato. Ma un conto è parlare e un altro è tramare; un conto è chiedere garanzie di qualità nell’arbitro, un altro è dare ordini ai designatori.
Facchetti, infatti, chiedeva tutela dalla malafede e dall’incapacità già dimostrata da parte di alcuni fischietti verso i nerazzurri, e lo faceva sapendo bene con chi e di cosa stesse parlando, viste le informazioni che aveva avuto da un ex-arbitro (Nucini) su come funzionasse il sistema. Ma, a differenza di Moggi, Facchetti non organizzava le griglie con Bergamo e Pairetto, non decideva chi punire e chi promuovere tra i fischietti, non distribuiva le sim-card estere per parlare con arbitri e designatori senza essere intercettati, non ordinava risultati a la carte. Mettere quindi sullo stesso piano la condotta di Moggi e del suo clan con quella di Facchetti è improponibile dal punto di vista della ricostruzione oggettiva della vicenda e pessimo dal punto di vista “politico”.
Che le accuse di Palazzi diventino tout-court sentenze su alcuni giornali sportivi è parte di un’altra faccenda. Essi, infatti, oltre ad avere nei tifosi juventini un bacino importante di lettori, appartengono ai gruppi editoriali che fanno capo, indirettamente o direttamente, alla Fiat e alla Fininvest, cioè le società proprietarie - direttamente o tramite controllate - di Juventus e Milan, già condannate proprio per Calciopoli. Addirittura scatenati, in preda a crisi isteriche i giornalisti vicini a Moggi, che oggi inneggiano invece alla relazione di Palazzi come fosse la sentenza di un tribunale. Per suo conto ventriloqui fin troppo attivi e per questo sanzionati dall’Ordine dei Giornalisti, imperversano ormai solo nelle radio private che con alcuni dei condannati hanno particolare familiarità.
L’intento di dimostrare che l’agire era comune a tutti serve in primis alle loro vendette personali, giacchè la fine di Moggi ha comportato la loro entrata nel cono d’ombra. Ma, soprattutto, si vuole smontare l’idea che l’Inter fosse diversa dalle altre: non lo scudetto del 2006, ma lo “scudetto degli onesti” è quello che proprio non sopportano. Ovviamente, poi, da parte di costoro non viene citata la parte della relazione di Palazzi dove si confermano per Moggi e soci le accuse di essere “un vero e proprio sistema organizzato” destinato a favorire sul campo e fuori dal campo le vittorie alla Juventus.
La richiesta, subdola, che viene da più commentatori, è che l’Inter rinunci di sua iniziativa allo scudetto del 2006. Non costerebbe niente rinunciarvi, non fosse altro che questo sarebbe come ammettere che le accuse di Palazzi sono giuste. Questo sì che offrirebbe alle ineffabili penne “neutrali” la stura per poter chiudere il cerchio con una sentenza di colpevolezza generale che metta tutti sullo stesso piano. Moggi come Facchetti, Meani come della Valle, Lotito come Foti e via amalgamando ingredienti, vicende, persone e fatti che non hanno nessun elemento comune.
Pur nella lettura generale che vede comportamenti illeciti, tra chi altera la regolarità dei tornei e chi cerca di difendersi da ciò è difficile riscontrare elementi di verosimiglianza negli scopi e nel conseguente agire. Va detto, peraltro, che è lo stesso Palazzi a chiedere l’archiviazione della richiesta juventina relativa alla non assegnazione dello scudetto 2006, perché gli eventuali illeciti dell’Inter sono comunque prescritti.
Ed ecco allora che un’altra richiesta viene fatta all’Inter: quella di rinunciare alla prescrizione ed andare a processo. Palazzi lo propone a mo’ di sfida, spogliandosi così platealmente dal ruolo istituzionale per assumere le vesti autentiche. Peccato che l’eventuale imputato sia deceduto e, dunque, non si capisce chi dovrebbe essere a rinunciare alla prescrizione, dal momento che le accuse sono rivolte direttamente a Facchetti e non a Moratti, peraltro non tesserato all’epoca.
Si vorrebbe un processo mediatico, sostenuto dai giornali e dalle tv amiche che vedrebbe l’Inter sola contro tutto e tutti. Ma come mai la stessa richiesta - quella cioè di non avvalersi della prescrizione di fronte ad accuse d’illecito sportivo - non venne mai indirizzata alla Juventus in occasione del processo per doping? La Juventus, infatti, accusata dal procuratore Guariniello, evidentemente certa della sua colpevolezza, si guardò bene dal rinunciare alla prescrizione. E dunque fa bene Moratti ad avvertire sulle sicure azioni dell’Inter a tutela della sua immagine e dei danni verso chi è tentato dal ribaltone dei fatti.
Per carità, l’Italia è il Paese dove i ladri si mettono a fare politica e i politici si danno da fare per le loro aziende; dove i giudici vengono confusi con gli imputati e dove i repubblichini vengono messi sullo stesso piano dei partigiani. E' il Paese dove la verità paga dazio ai potenti, da sempre. L'importante, però, é che la verità non vada persa nel regno dell'indistinto. Gigi Riva, il più grande dei bomber azzurri, ha detto: “Tutti quelli che oggi parlano su Giacinto farebbero meglio a stare zitti: lui era pulito. Facchetti era una persona semplice, pulita, onesta, il nostro angelo. Ora provo una grande rabbia”. Moggi, per quanto possa dolere alle sue numerose vedove, variamente parcheggiate nei giornali, nelle radio e nelle Tv, resterà sempre l’emblema del gioco sporco, della corruzione e della slealtà sportiva, così come Facchetti verrà ricordato sempre come un gentiluomo dello sport. Ingenuo, forse, ma onesto.
fonte
martedì 5 luglio 2011
COMUNICATO STAMPA Contro la guerra della Nato in Libia
Contro la guerra della Nato in Libia, una campagna di email ai membri non belligeranti del Consiglio di Sicurezza Onu
La Rete No War (Italia) e il gruppo US Citizens for Peace and Justice-Rome si fanno promotori di un’iniziativa contro la guerra: una campagna internazionale di appelli via email ai membri non belligeranti (permanenti e non permanenti) del Consiglio di Sicurezza Onu.
La guerra illegale alla Libia è condotta da alcuni paesi della Nato, con l’alleanza di alcune petromonarchie del Golfo; è una guerra fondata su informazioni false, portata pervicacemente avanti con vittime dirette e indirette; i paesi belligeranti violano la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che è stata votata in marzo “ a protezione dei civili libici”. La guerra continua malgrado le tante occasioni negoziali disponibili. Già agli inizi di marzo, Fidel Castro chiede – invano- ai popoli e ai governi di appoggiare la proposta di mediazione del Venezuela, approvata dai paesi dell’Alleanza Alba.
Molti paesi membri del Consiglio di Sicurezza hanno già manifestato volontà negoziali e potrebbero utilizzare come strumento di pressione questo appoggio popolare da parte di cittadini di paesi Nato.
Ecco come partecipare alla campagna, semplicemente, con una email. Basta mandare il testo seguente (in inglese) nel corpo del messaggio alle email di: Russia, Cina, India, Sudafrica, Nigeria, Gabon, Bosnia Erzegovina, Libano, Colombia, Portogallo, Germania. Per informazioni (ma l’appello va inviato direttamente agli indirizzi dei paesi!): boylan@interfree.it;mari.liberazioni@yahoo.it
CAMPAGNA PROMOSSA DA RETE NO WAR E U.S. CITIZENS FOR PEACE & JUSTICE- Rome
“Stop alla guerra Nato in Libia: scriviamo ai membri non belligeranti del Consiglio di Sicurezza Onu”
Alcuni paesi della Nato, con l’alleanza di alcune petromonarchie del Golfo, stanno conducendo da tre mesi in Libia una guerra illegale a sostegno di una delle due fazioni armate che si affrontano; una guerra fondata su informazioni false, portata pervicacemente avanti con vittime dirette e indirette; una guerra che continua malgrado le tante occasioni negoziali disponibili fin dall’inizio.
Che fare? La pressione popolare nei confronti dei paesi Nato è certo necessaria, ma non basta. Potrebbe essere utile, se attuata in massa, una campagna di email dirette a paesi non belligeranti e membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, chiedendo loro di agire. Molti di quei paesi hanno già manifestato volontà negoziali e potrebbero utilizzare come strumento di pressione questo appoggio popolare da parte di cittadini di paesi Nato. Già agli inizi di marzo, Fidel Castro ha chiesto – invano- ai popoli e ai governi di appoggiare la proposta di mediazione del Venezuela, approvata dai paesi dell’Alleanza Alba.
Per questa ragione i gruppi Rete No War e U.S. Citizens for Peace & Justice-Rome hanno consegnato un analogo appello ad alcune ambasciate a Roma.
Ecco come partecipare alla campagna, semplicemente, con una email. Basta mandare il testo seguente (in inglese) nel corpo del messaggio alle email di: Russia, Cina, India, Sudafrica, Nigeria, Gabon, Bosnia Erzegovina, Libano, Colombia, Portogallo, Germania. Per informazioni (ma l’appello va inviato direttamente agli indirizzi dei paesi!): boylan@interfree.it;mari.liberazioni@yahoo.it
Email delle rappresentanze dei paesi: ChinaMissionUN@Gmail.com; rusun@un.int; India@un.int; portugal@un.int;contact@lebanonun.org;chinesemission@yahoo.com;dsatsia@gabon-un.org;
delbrasonu@delbrasonu.org; info@new-york-un.diplo.de;siumara@delbrasonu.org; bihun@mfa.gov.ba; gabon@un.int;colombia@colombiaun.org;pmun.newyork@dirco.gov.za; perm.mission@nigerdeleg.org;perm.mission@nigerdeleg.com;aumission_ny@yahoo.com, AU-NewYork@africa-union-nyo.org; LamamraR@africa-union.org;waneg@africa-union.org;presidentrsa@po.gov.za;unsc-nowar@gmx.com
Nell’oggetto della email scrivere: PLEASE STOP NATO WAR IN LIBYA. APPEAL TO NON-BELLIGERANT MEMBERS OF THE UNSC COUNCIL
Testo da inviare
WE APPEAL TO NON-BELLIGERENT MEMBERS
OF THE U.N. SECURITY COUNCIL
- to put an end to the misuse of U.N. Security Council Resolution 1973 to influence the internal
affairs of Libya through warfare, by revoking it, and
- to press for a peaceful resolution of the conflict in Libya, backing the African
Union’s central role in this context.
We thank those countries that have tried, and are still trying, to work towards peace.
Our appeal is based on the following:
- the military intervention in Libya undertaken by some NATO members
has now gone far beyond the provisions of Security Council Resolution 1973, and is based on hyped-up accounts of defenseless citizens being massacred by their government, while the truth is that, in Libya, there is an on-going and intense internal armed conflict;
- we are aware of the economic and geo-strategic interests that lie behind the war in Libya and,
in particular, behind NATO support of one of the two armed factions;
- NATO military intervention in Libya has killed (and is continuing to kill) countless civilians, as well harming and endangering the civilian population, including migrants and refugees, in various other ways;
- the belief, at this stage, only non-belligerent countries – and particularly those with U.N. Security Council voting rights – can successfully bring a peaceful end to the conflict through negotiations and by implementing the opening paragraph of UNSC Resolution 1973, which calls for an immediate ceasefire.
Respectfully yours,
Name (or association)
Address (optional)
La Rete No War (Italia) e il gruppo US Citizens for Peace and Justice-Rome si fanno promotori di un’iniziativa contro la guerra: una campagna internazionale di appelli via email ai membri non belligeranti (permanenti e non permanenti) del Consiglio di Sicurezza Onu.
La guerra illegale alla Libia è condotta da alcuni paesi della Nato, con l’alleanza di alcune petromonarchie del Golfo; è una guerra fondata su informazioni false, portata pervicacemente avanti con vittime dirette e indirette; i paesi belligeranti violano la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che è stata votata in marzo “ a protezione dei civili libici”. La guerra continua malgrado le tante occasioni negoziali disponibili. Già agli inizi di marzo, Fidel Castro chiede – invano- ai popoli e ai governi di appoggiare la proposta di mediazione del Venezuela, approvata dai paesi dell’Alleanza Alba.
Molti paesi membri del Consiglio di Sicurezza hanno già manifestato volontà negoziali e potrebbero utilizzare come strumento di pressione questo appoggio popolare da parte di cittadini di paesi Nato.
Ecco come partecipare alla campagna, semplicemente, con una email. Basta mandare il testo seguente (in inglese) nel corpo del messaggio alle email di: Russia, Cina, India, Sudafrica, Nigeria, Gabon, Bosnia Erzegovina, Libano, Colombia, Portogallo, Germania. Per informazioni (ma l’appello va inviato direttamente agli indirizzi dei paesi!): boylan@interfree.it;mari.liberazioni@yahoo.it
CAMPAGNA PROMOSSA DA RETE NO WAR E U.S. CITIZENS FOR PEACE & JUSTICE- Rome
“Stop alla guerra Nato in Libia: scriviamo ai membri non belligeranti del Consiglio di Sicurezza Onu”
Alcuni paesi della Nato, con l’alleanza di alcune petromonarchie del Golfo, stanno conducendo da tre mesi in Libia una guerra illegale a sostegno di una delle due fazioni armate che si affrontano; una guerra fondata su informazioni false, portata pervicacemente avanti con vittime dirette e indirette; una guerra che continua malgrado le tante occasioni negoziali disponibili fin dall’inizio.
Che fare? La pressione popolare nei confronti dei paesi Nato è certo necessaria, ma non basta. Potrebbe essere utile, se attuata in massa, una campagna di email dirette a paesi non belligeranti e membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, chiedendo loro di agire. Molti di quei paesi hanno già manifestato volontà negoziali e potrebbero utilizzare come strumento di pressione questo appoggio popolare da parte di cittadini di paesi Nato. Già agli inizi di marzo, Fidel Castro ha chiesto – invano- ai popoli e ai governi di appoggiare la proposta di mediazione del Venezuela, approvata dai paesi dell’Alleanza Alba.
Per questa ragione i gruppi Rete No War e U.S. Citizens for Peace & Justice-Rome hanno consegnato un analogo appello ad alcune ambasciate a Roma.
Ecco come partecipare alla campagna, semplicemente, con una email. Basta mandare il testo seguente (in inglese) nel corpo del messaggio alle email di: Russia, Cina, India, Sudafrica, Nigeria, Gabon, Bosnia Erzegovina, Libano, Colombia, Portogallo, Germania. Per informazioni (ma l’appello va inviato direttamente agli indirizzi dei paesi!): boylan@interfree.it;mari.liberazioni@yahoo.it
Email delle rappresentanze dei paesi: ChinaMissionUN@Gmail.com; rusun@un.int; India@un.int; portugal@un.int;contact@lebanonun.org;chinesemission@yahoo.com;dsatsia@gabon-un.org;
delbrasonu@delbrasonu.org; info@new-york-un.diplo.de;siumara@delbrasonu.org; bihun@mfa.gov.ba; gabon@un.int;colombia@colombiaun.org;pmun.newyork@dirco.gov.za; perm.mission@nigerdeleg.org;perm.mission@nigerdeleg.com;aumission_ny@yahoo.com, AU-NewYork@africa-union-nyo.org; LamamraR@africa-union.org;waneg@africa-union.org;presidentrsa@po.gov.za;unsc-nowar@gmx.com
Nell’oggetto della email scrivere: PLEASE STOP NATO WAR IN LIBYA. APPEAL TO NON-BELLIGERANT MEMBERS OF THE UNSC COUNCIL
Testo da inviare
WE APPEAL TO NON-BELLIGERENT MEMBERS
OF THE U.N. SECURITY COUNCIL
- to put an end to the misuse of U.N. Security Council Resolution 1973 to influence the internal
affairs of Libya through warfare, by revoking it, and
- to press for a peaceful resolution of the conflict in Libya, backing the African
Union’s central role in this context.
We thank those countries that have tried, and are still trying, to work towards peace.
Our appeal is based on the following:
- the military intervention in Libya undertaken by some NATO members
has now gone far beyond the provisions of Security Council Resolution 1973, and is based on hyped-up accounts of defenseless citizens being massacred by their government, while the truth is that, in Libya, there is an on-going and intense internal armed conflict;
- we are aware of the economic and geo-strategic interests that lie behind the war in Libya and,
in particular, behind NATO support of one of the two armed factions;
- NATO military intervention in Libya has killed (and is continuing to kill) countless civilians, as well harming and endangering the civilian population, including migrants and refugees, in various other ways;
- the belief, at this stage, only non-belligerent countries – and particularly those with U.N. Security Council voting rights – can successfully bring a peaceful end to the conflict through negotiations and by implementing the opening paragraph of UNSC Resolution 1973, which calls for an immediate ceasefire.
Respectfully yours,
Name (or association)
Address (optional)
domenica 3 luglio 2011
Lunedì 4 luglio alle 17,00 presidio davanti all’Ambasciata greca - Freedom Flotilla Italia -
DA DIFFONDERE
Il Mediterraneo non è proprietà di Israele
La nave Statunitense “Audacity of Hope” ha deciso di tenere fede al proprio nome ed è salpata, per essere bloccata dopo un quarto d'ora di navigazione dalle autorità portuali greche che hanno intimato agli attivisti di tornare in porto ad Atene minacciando l'equipaggio ed i passeggeri con le armi. Stesso tentativo e stesso esito per la nave canadese Taharir. Intanto una nota del Ministero per la sicurezza interna greco mostra tutta la subalternità del governo di Papandreou alle politiche israeliane, dichiarando che la Grecia vieta alle barche della Freedom Flotilla 2 di salpare per Gaza. Nel mare greco, in queste ore, si sta giocando un vero e proprio braccio di ferro tra i sostenitori del diritto internazionale e quelli del diritto di Israele, diritti che come è dimostrato sin dalla nascita dello Stato di Israele non fanno che confliggere. Come ignora Gianni Letta che risponde alla sollecitazione della Freedom Flotilla Italia con un comunicato dove dice che non è in grado di garantire la sicurezza degli italiani diretti a Gaza “…trattandosi di iniziative in violazione della vigente normativa israeliana”. “Non immaginavamo che tutto il Mediterraneo fosse proprietà di Israele” hanno commentato dalla FF2 gli attivisti internazionali determinati a portare a termine la missione, non solo umanitaria, ma soprattutto politica di fare approdare le navi a Gaza. L’obiettivo è quello di rompere un assedio che si protrae da troppo tempo ai danni di una popolazione che subisce una punizione collettiva, laddove sono proprio il diritto internazionale, le convenzioni e i trattati, nati per salvaguardare le popolazioni oppresse, ad affermare che tutto questo oltre a essere inumano, è fuorilegge.
MOBILITIAMOCI PER FARE PRESSIONE SUL GOVERNO GRECO
Freedom Flotilla Italia indice un presidio davanti all’Ambasciata greca in Via Mercadante 36 a Roma
Lunedì 4 luglio alle 17,00 e invita alla mobilitazione in tutta Italia
Invitiamo tutte e tutti a scrivere all’ambasciata di Grecia in Italia, all’indirizzo gremroma@tin.it, a telefonare al n. 06-8537551 e ad inviare fax al n. 06-8415927.
Per adesioni: roma@freedomflotilla.it
Contatti: 333/5601759 - 338/1521278venerdì 1 luglio 2011
Vendesi CGIL
L’accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria è stato giustamente accolto da Tremonti, Sacconi, da tutto il mondo del potere economico e governativo e dalle finte opposizioni come un grande successo. Con esso si afferma la centralità dell’aziendalismo e soprattutto si pongono limiti senza precedenti alla libertà sindacale, ai diritti contrattuali, ai poteri dei lavoratori.
Il principio ispiratore di questo accordo è che nel contratto aziendale la maggioranza dei sindacati decide, la minoranza non si può opporre. E’ un mostruoso centralismo burocratico applicato alle relazioni sindacali. (...) Ma vediamo in concreto i punti che portano a questo disastro.
Nella premessa l’accordo assume totalmente l’ideologia confindustriale. L’obiettivo comune è quello di: “un sistema di relazioni industriali che crei condizioni di competitività e produttività tali da rafforzare il sistema produttivo, l’occupazione e le retribuzioni.” E’ la filosofia di Marchionne: prima la competitività e la produttività e poi l’occupazione e, ancora dopo le retribuzioni e chissà quando i diritti.
Che Marchionne sostenga questo è in fondo parte del suo ruolo ampiamente retribuito. Che lo sostenga anche la Cgil è distruttivo per l’autonomia sindacale.
Ma superate queste enunciazioni filosofiche si arriva alla sostanza, cioè a un’intesa che ha lo scopo di rendere “esigibile” il comportamento delle parti, in particolare rispetto al livello aziendale. Infatti sul contratto nazionale, che a parole rimane, si stabilisce solo il principio che chi ha più del 5% delle deleghe e dei voti nelle Rsu, può andare a trattare. Non interessa all’accordo, invece, come si fanno i contratti nazionali, con quali regole e con quali diritti per i lavoratori. Tutto questo è affidato ad accordi tra le categorie, cioè a niente. E’ la dimostrazione che lo spirito di quest’accordo è quella di rendere sempre più forte l’accordo aziendale e sempre più debole il contratto nazionale.
Infatti il sistema diventa rigorosissimo quando si parla degli accordi aziendali. La maggioranza di una Rsu eletta dai lavoratori approva un accordo aziendale e questo è valido per tutti, senza bisogno di voto dei diretti interessati. La minoranza ha l’obbligo di accettare l’accordo, perché sono impegnate a rispettarlo: “tutte le associazioni sindacali firmatarie del presente accordo interconfederale operanti all’interno dell’azienda”. Cioè, le strutture della Cgil, e anche naturalmente la Fiom, non possono più opporsi in Fiat da un accordo sottoscritto dalla maggioranza delle Rsu, come è avvenuto a Mirafiori e Pomigliano, ma devono accettarlo e applicarlo in quanto la casa madre confederale si è preventivamente impegnata per loro. Questo significa anche rinunciare allo sciopero perché le “clausole di tregua sindacale finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni” hanno “effetto vincolante” per tutti i firmatari dell’accordo interconfederale. D’ora in poi se Fim, Uilm e Fismic firmano in Fiat, la Fiom deve solo obbedire e non può scioperare, perché la Cgil si è impegnata per essa.
3. Il sistema dei contratti nazionali è ampiamente derogabile. La parola deroghe non compare nell’accordo, per scelta ipocrita e complice. Ma si scrive che i contratti collettivi aziendali possono definire “specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro”. Si aggiunge anche che se i contratti non prevedono clausole di deroga, queste si possono fare lo stesso a livello aziendale, in particolare sulla “prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro”. Non si capisce a questo punto di che cosa dovrebbe lamentarsi la Fiat. La Cgil ha messo la firma tecnica agli accordi del passato e, in ogni caso, si impegna ad accettare quelli futuri.
4. I lavoratori non votano mai, se non quando in azienda operano le Rsa. Qui c’è un’altra novità negativa, perché gli accordi del passato non prevedevano più le Rsa, che come si sa sono nominate dalle organizzazioni sindacali e non elette dai lavoratori. In questo caso invece si riscopre la loro esistenza, forse perché gli accordi separati in Fiat prevedono tutti l’istituzione delle Rsa al posto delle Rsu elettive. Solo in questo caso è ammesso il voto dei lavoratori sugli accordi, quando un’organizzazione o il 30% degli interessati lo richiede. Tutto questo chiarisce ancor di più che in tutte le altre situazioni ai lavoratori è negato il diritto al voto sugli accordi. Non si vota più. Non nel contratto nazionale, dove non è prevista nessuna validazione democratica dell’accordo. Non a livello aziendale, dove decidono le Rsu. Insomma, passa una sorta di porcellum sindacale. Come per l’attuale Parlamento c’è un maggioritario che decide per tutti e che obbliga l’opposizione ad adeguarsi. E’ il sogno di Berlusconi.
5. Questo accordo chiede al governo di ridurre le tasse e i contributi sul salario aziendale legato alla produttività. Mentre si promette la riduzione delle tasse sulle retribuzioni, questo accordo chiarisce che essa va solo al salario flessibile che interessa alle aziende e a una minoranza dei lavoratori. Anche qui la Cgil improvvisamente aderisce all’ideologia di Bombassei, Sacconi, Bonanni e del libro bianco.
In conclusione, questo accordo cambia la natura del sindacato, cambia la natura della Cgil, distrugge la libertà e l’autonomia della contrattazione ai vari livelli mentre stabilisce un sistema burocratico aziendalistico governato dalle imprese e dagli accordi corporativi con le grandi confederazioni. E’ il sistema della complicità sindacale auspicato dal libro bianco di Sacconi. E’ bene inoltre ricordare che resta totalmente in vigore l’accordo separato del 2009, che la Cgil non aveva sottoscritto. Ora quell’accordo viene regolato da questa intesa unitaria.
Con questa intesa si opera una rottura profonda con questo anno di lotte e di movimenti, mentre, come ha giustamente sottolineato Tremonti, si dà un vero aiuto alla politica economica del governo e alle banche europee che chiedono flessibilità, aziendalismo e tagli allo stato e ai diritti sociali. La segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, con questa firma è venuta meno allo spirito e alle stesse norme statutarie della confederazione, e come minimo dovrebbe dimettersi. Non lo farà ma sappia che c’è chi glielo chiede e continuerà a chiederglielo. Mobilitiamoci per far ritirare alla Cgil la firma da questa intesa e, in ogni caso, per contrastarla e rovesciarla. E’ una battaglia di democrazia e giustizia sociale contro un modello economico autoritario e aziendalistico che si vuole imporre ai lavoratori perché paghino tutti i costi della crisi. Contro questo accordo bisogna ribellarsi.
Il principio ispiratore di questo accordo è che nel contratto aziendale la maggioranza dei sindacati decide, la minoranza non si può opporre. E’ un mostruoso centralismo burocratico applicato alle relazioni sindacali. (...) Ma vediamo in concreto i punti che portano a questo disastro.
Nella premessa l’accordo assume totalmente l’ideologia confindustriale. L’obiettivo comune è quello di: “un sistema di relazioni industriali che crei condizioni di competitività e produttività tali da rafforzare il sistema produttivo, l’occupazione e le retribuzioni.” E’ la filosofia di Marchionne: prima la competitività e la produttività e poi l’occupazione e, ancora dopo le retribuzioni e chissà quando i diritti.
Che Marchionne sostenga questo è in fondo parte del suo ruolo ampiamente retribuito. Che lo sostenga anche la Cgil è distruttivo per l’autonomia sindacale.
Ma superate queste enunciazioni filosofiche si arriva alla sostanza, cioè a un’intesa che ha lo scopo di rendere “esigibile” il comportamento delle parti, in particolare rispetto al livello aziendale. Infatti sul contratto nazionale, che a parole rimane, si stabilisce solo il principio che chi ha più del 5% delle deleghe e dei voti nelle Rsu, può andare a trattare. Non interessa all’accordo, invece, come si fanno i contratti nazionali, con quali regole e con quali diritti per i lavoratori. Tutto questo è affidato ad accordi tra le categorie, cioè a niente. E’ la dimostrazione che lo spirito di quest’accordo è quella di rendere sempre più forte l’accordo aziendale e sempre più debole il contratto nazionale.
Infatti il sistema diventa rigorosissimo quando si parla degli accordi aziendali. La maggioranza di una Rsu eletta dai lavoratori approva un accordo aziendale e questo è valido per tutti, senza bisogno di voto dei diretti interessati. La minoranza ha l’obbligo di accettare l’accordo, perché sono impegnate a rispettarlo: “tutte le associazioni sindacali firmatarie del presente accordo interconfederale operanti all’interno dell’azienda”. Cioè, le strutture della Cgil, e anche naturalmente la Fiom, non possono più opporsi in Fiat da un accordo sottoscritto dalla maggioranza delle Rsu, come è avvenuto a Mirafiori e Pomigliano, ma devono accettarlo e applicarlo in quanto la casa madre confederale si è preventivamente impegnata per loro. Questo significa anche rinunciare allo sciopero perché le “clausole di tregua sindacale finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni” hanno “effetto vincolante” per tutti i firmatari dell’accordo interconfederale. D’ora in poi se Fim, Uilm e Fismic firmano in Fiat, la Fiom deve solo obbedire e non può scioperare, perché la Cgil si è impegnata per essa.
3. Il sistema dei contratti nazionali è ampiamente derogabile. La parola deroghe non compare nell’accordo, per scelta ipocrita e complice. Ma si scrive che i contratti collettivi aziendali possono definire “specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro”. Si aggiunge anche che se i contratti non prevedono clausole di deroga, queste si possono fare lo stesso a livello aziendale, in particolare sulla “prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro”. Non si capisce a questo punto di che cosa dovrebbe lamentarsi la Fiat. La Cgil ha messo la firma tecnica agli accordi del passato e, in ogni caso, si impegna ad accettare quelli futuri.
4. I lavoratori non votano mai, se non quando in azienda operano le Rsa. Qui c’è un’altra novità negativa, perché gli accordi del passato non prevedevano più le Rsa, che come si sa sono nominate dalle organizzazioni sindacali e non elette dai lavoratori. In questo caso invece si riscopre la loro esistenza, forse perché gli accordi separati in Fiat prevedono tutti l’istituzione delle Rsa al posto delle Rsu elettive. Solo in questo caso è ammesso il voto dei lavoratori sugli accordi, quando un’organizzazione o il 30% degli interessati lo richiede. Tutto questo chiarisce ancor di più che in tutte le altre situazioni ai lavoratori è negato il diritto al voto sugli accordi. Non si vota più. Non nel contratto nazionale, dove non è prevista nessuna validazione democratica dell’accordo. Non a livello aziendale, dove decidono le Rsu. Insomma, passa una sorta di porcellum sindacale. Come per l’attuale Parlamento c’è un maggioritario che decide per tutti e che obbliga l’opposizione ad adeguarsi. E’ il sogno di Berlusconi.
5. Questo accordo chiede al governo di ridurre le tasse e i contributi sul salario aziendale legato alla produttività. Mentre si promette la riduzione delle tasse sulle retribuzioni, questo accordo chiarisce che essa va solo al salario flessibile che interessa alle aziende e a una minoranza dei lavoratori. Anche qui la Cgil improvvisamente aderisce all’ideologia di Bombassei, Sacconi, Bonanni e del libro bianco.
In conclusione, questo accordo cambia la natura del sindacato, cambia la natura della Cgil, distrugge la libertà e l’autonomia della contrattazione ai vari livelli mentre stabilisce un sistema burocratico aziendalistico governato dalle imprese e dagli accordi corporativi con le grandi confederazioni. E’ il sistema della complicità sindacale auspicato dal libro bianco di Sacconi. E’ bene inoltre ricordare che resta totalmente in vigore l’accordo separato del 2009, che la Cgil non aveva sottoscritto. Ora quell’accordo viene regolato da questa intesa unitaria.
Con questa intesa si opera una rottura profonda con questo anno di lotte e di movimenti, mentre, come ha giustamente sottolineato Tremonti, si dà un vero aiuto alla politica economica del governo e alle banche europee che chiedono flessibilità, aziendalismo e tagli allo stato e ai diritti sociali. La segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, con questa firma è venuta meno allo spirito e alle stesse norme statutarie della confederazione, e come minimo dovrebbe dimettersi. Non lo farà ma sappia che c’è chi glielo chiede e continuerà a chiederglielo. Mobilitiamoci per far ritirare alla Cgil la firma da questa intesa e, in ogni caso, per contrastarla e rovesciarla. E’ una battaglia di democrazia e giustizia sociale contro un modello economico autoritario e aziendalistico che si vuole imporre ai lavoratori perché paghino tutti i costi della crisi. Contro questo accordo bisogna ribellarsi.
Giorgio Cremaschi
Cosa non si deve dire a proposito della Val di Susa
di
Claudio Guerra
Scrivo a tutti coloro che mi hanno conosciuto, e che hanno conosciuto l’associazione Materya, e il suo impegno per l’ambiente.In Val di Susa c’è una guerra. E nessun telegiornale sta dicendo la verità.
Una popolazione locale sta tentando di opporre resistenza alla costruzione di
un’opera voluta da lobbies finanziarie, sostanzialmente inutile, destinata al
trasporto delle merci (non è alta velocità… per chi ancora non lo sapesse!),
dal costo pari a tre volte il ponte sullo Stretto di Messina. Tre volte il costo del Ponte
sullo stretto di Messina!
Cito inchieste del Politecnico di Torino e Milano, e dati estratti dalla trasmissione Report (Rai tre) e da una bellissima trasmissione andata in onda alcuni mesi fa su La 7.
Non mi dilungo sull’impatto ambientale, la collina di amianto (una stima di una ASL di Torino parla di 20.000 morti nei prossimi anni per la nube di fibre..) il tunnel di 54
km dentro una montagna già scavata dall’enel perchè ricca di Uranio.. ma vi
informo di questo:
i soldi destinati alla costruzione li metteranno le banche, ad un tasso del 6,2 % (interessante eh.. ) ma la fidejussione a garanzia del prestito sapete chi l’ha messa? Voi!! o se preferite lo Stato italiano! entro 9 anni dovremo restituire 45 miliardi di
debito alle banche che hanno finanziato l’opera. 45
miliardi sono quello che dovremo sostenere come costo per ridurre un pochino il
nostro debito con l’estero per stare in Europa e il povero Tremonti non sa dove
reperirli.
Siete pronti a pagare altri 45 miliardi per far viaggiare più veloce l’acqua minerale di Lecce verso la Norvegia, e far arrivare prima i biscotti inglesi sullo scaffale del vostro
supermercato?
A proposito… non passeranno dalla Val di Susa le merci… Un noto docente del Politecnico dice che il costo del transito per un camion da questo valico non sarà competitivo
con i costi degli altri tunnel che già esistono. Questa sarà davvero una
cattedrale nel deserto.
fonte
I No Tav della Val di Susa stanno facendo un favore – un gran favore – a tutt’Italia. Ora si parla di aprire urgentemente il cantiere della linea ferroviaria Torino-Lione per non perdere i fondi europei, e trovo scandaloso che maggiori media e istituzioni varie descrivano il movimento come un frutto della sindrome Nimby (not in my back yard, ovvero: la linea ferroviaria fatela pure, ma lontano da casa mia), o come figlio di un irragionevole quanto bucolico “come era verde la mia valle”.
La Val di Susa è bruttissima, parola di torinese, e infatti i valsusini non difendono un presunto paesaggio incontaminato. Si battono contro il peccato originale della Tav Torino-Lione, cioè contro il fatto che è assolutamente inutile e che secondo i più aggiornati calcoli costerà, per la sola parte di competenza italiana, 15-20 miliardi di euro. Il triplo di quell’altra assurda inutilità chiamata ponte di Messina.
Vi sento già obiettare: ah, ma ci sono i fondi europei! Non fatemi ridere. L’Italia, per ricevere 6 milioni e rotti di finanziamenti Ue, ne estrarrà 25 volte tanti dalle nostre tasche.
Soldi che – soprattutto in tempi di crisi – potrebbero essere spesi molto meglio. Asili nido, scuole, ospedali… Qualcuno vuole continuare l’elenco?
Dicevo che il treno superveloce Torino-Lione è inutile. Infatti esiste già la linea ferroviaria del traforo del Frejus che collega Torino alla Francia passando dal la Val di Susa.
I No Tav insistono che l’attuale linea ferroviaria non è affatto satura ed esistono amplissimi spazi di ulteriore sfruttamento. In effetti i pro-Tav dicono che bisogna costruire la nuova linea per prevenire la saturazione.
C’è saturazione in vista? Prendiamo il caso delle merci. Secondo le statistiche elaborate ogni cinque anni dall’Ufficio federale dei trasporti svizzero, nel 2004-09 il volume del traffico merci ferroviario attraverso le Alpi è diminuito del 9%, mentre è aumentato del 6% circa quello su strada.
Ecco, allora bisognerà forse costruire la nuova linea ferroviaria per decongestionare il traffico su gomma? Ma proprio no.
Sull‘autostrada che collega Piemonte e Francia passando sempre dalla Val di Susa (e da un altro traforo del Frejus), il traffico è in diminuzione dal 2001 in poi.
Ci sono due eccezioni: gli aumenti del 6,29% nel 1010 e del 3,65% nel 2007. Volendo, posiamo aggiungere anche il modestissimo incremento (+0,13%) dei primi cinque mesi di questo 2011 rispetto al corrispondente periodo dell’anno scorso. Ma i cali sono ben più vistosi, a cominciare dal -15,47 del 2003 e dal -15,34 del 2006.
Allora forse bisogna costruire la nuova linea ferroviaria per andare più rapidamente da Torino a Parigi? I treni ci mettono oggi quattro ore e mezza. Con la Tav impiegheranno un’ora in meno.
Un’ora in meno, e 15-20 miliardi dei nostri soldi. Ah, ma – si dirà – i lavori creeranno occupazione. E in effetti i pro Tav lo sottolineano: oltre 3.000 posti di lavoro diretti nel periodo di apertura dei cantieri, cioè fra il 2013 e 2023.
Dicevo che la Tav costerà alle casse pubbliche 15-20 miliardi di euro. Facciamo 15 miliardi. Se si calcola un costo del lavoro pari a 40.000 euro annui per persona, lo Stato con quei soldi potrebbe assumere oltre 10.500 dipendenti per 35 anni, cioè per la durata dell’intera carriera lavorativa.
Insegnanti, infermieri, medici, ferrovieri… Tutte persone che potrebbero far funzionare un po’ meglio gli scalcinati servizi pubblici. 10.500 posti di lavoro per una vita contro i 3.000 effimeri legati ai cantieri: volete mettere?
I No Tav stanno facendo un piacere, e un piacere grosso, a tutt’Italia. Non dimenticatelo mai, mai! Cercano di impedire una grande opera che costerebbe a noi contribuenti 1200 euro al centimetro. Non ci darebbe nessun vantaggio, e se l’Italia ci rinunciasse non pagherebbe un centesimo di penali.
Iscriviti a:
Post (Atom)