involuzione
Poche cose abbiamo imparato dalla storia all'infuori di questa: che le idee si condensano in un sistema di ortodossia, i poteri in una forma gerarchica e che ciò che può ridare vita al corpo sociale irrigidito è soltanto l'alito della libertà, con la quale intendo quella irrequietezza dello spirito, quell'insofferenza dell'ordine stabilito, quell'aborrimento di ogni conformismo che richiede spregiudicatezza mentale ed energia di carattere.
Io sono convinto che se non avessimo imparato dal marxismo a vedere la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati. O avremmo cercato riparo nell'isola della nostra interiorità o ci saremmo messi al servizio dei vecchi padroni. Ma tra coloro che si sono salvati, solo alcuni hanno tratto in salvo un piccolo bagaglio dove, prima di buttarsi in mare, avevano deposto, per custodirli, i frutti più sani della tradizione intellettuale europea: l'inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose.
Norberto Bobbio
Io sono convinto che se non avessimo imparato dal marxismo a vedere la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati. O avremmo cercato riparo nell'isola della nostra interiorità o ci saremmo messi al servizio dei vecchi padroni. Ma tra coloro che si sono salvati, solo alcuni hanno tratto in salvo un piccolo bagaglio dove, prima di buttarsi in mare, avevano deposto, per custodirli, i frutti più sani della tradizione intellettuale europea: l'inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose.
Norberto Bobbio
martedì 31 gennaio 2012
lunedì 30 gennaio 2012
Il Brad Pitt "rinsavito" e la sua "ricetta" contro la depressione
Sicuramente è solo una trovata pubblicitaria ma di certo "il belloccio" non ci fa una gran figura,da parte mia gli invidio solo i capelli ;-)
Casablanca .- L'attore americano Brad Pitt ha rivelato alla stampa che grazie alla cannabis e alla "estrema povertà in Marocco",è riuscito a sbarazzarsi della sua grave depressione durante un viaggio condotto nel 1990 in Marocco ... uno dei principali produttori ed esportatori di cannabis e della miseria umana [immigrazione], come tutti sanno ...
"Ho visto la povertà estrema, come non avevo mai visto prima ...", ha detto Pitt nella rivista The Hollywood Reporter. Brad Pitt che ha fumato erba contro la depressione, ed il viaggio in Marocco, lo hanno aiutato a ritrovare il gusto per la vita!
Lo scorso autunno, Brad Pitt ha ammesso di aver fatto uso di droghe fino a (pochi ?) anni fa. Per The Hollywood Reporter, l'attore di 48 anni ha accettato di tornare a parlare di questo periodo buio della sua vita:
"Alla fine degli anni '90 non ne potevo più di me stesso. Volevo staccarmi dal peso della fama, fumavo troppa erba . Sdraiato sul divano mi deprimevo giorno dopo giorno. ha detto. Ma ha anche detto di vivere la depressione come un passo importante per lo sviluppo personale:
"E 'anche il modo in cui noi scopriamo chi siamo. Io lo vedo come una grande lezione. Ho fatto le stesse cose ogni notte e mi sforzaivo di dormire. Sempre la stessa routine: ero ansioso di tornare a casa per nascondermi. Ma il malessere continuava a crescere e una notte, ho detto che tutto questo era uno spreco. "
Per fortuna, vive a Casablanca,il Marocco aiuta ad aprire gli occhi e godersi la vita ancora!!!
"Ho visto la povertà estrema, come non avevo mai visto prima. Si parlava di cura e disuguaglianze di salute e mi sono reso conto che lo stato in cui mi trovavo era una sciocchezza. Esistono persone che hanno veramente bisogno per sopravvivere: i bambini che soffrono e sono stati condannati a vivere in condizioni che avrebbero potuto essere evitati. Ha funzionato ", ha detto la star ha deciso di smettere di fumare cannabis e di deprimersi sul divano. Nominato per il miglior attore agli Academy Award per la prossima 'Moneyball' il suo film, Brad ora vive su una nuvola con la sua fidanzata di lunga data, Angelina Jolie (36).
Per una volta la povertà "estrema" dei marocchini è servita a qualcosa ...
Tremonti tardo no-global
“Una volta il pronunciamiento lo facevano i militari – così scrive Giulio Tremonti nel suo ultimo libro “Uscita di sicurezza” - Occupavano la radio-tv, imponevano il coprifuoco di notte eccetera. Oggi, in versione postmoderna, lo si fa con l’argomento della tenuta sistemica dell’euro (…) lo si fa condizionando e commissariando governi e parlamenti (…) Ed è la finanza a farlo, il pronunciamiento , imponendo il proprio governo, fatto quasi sempre da gente con la sua stessa uniforme, da tecnocrati apostoli cultori delle loro utopie, convinti ancora del dogma monetarista; ingegneri applicati all'economia, come era nel Politburo prima del crollo; replicanti totalitaristi alla Saint-Simon”.
Viviamo dunque in un periodo a rischio per la democrazia, che non è minacciata dai militari, bensì dai banchieri, tecnici e funzionari del capitale finanziario cosmopolita. Ma non è la prima volta che Tremonti elabora un’interpretazione, come dire, “tardo no-global” dei processi di crisi che investono il mondo capitalistico, cioè una versione critica (più da “destra” che da “sinistra”, con tutte le ambiguità e gli equivoci che ormai accompagnano tali categorie ideologiche) contro la globalizzazione ultra-liberista.
Dopo il fallimento di Lehman Brothers, Tremonti affermò che “un mondo era finito” con “la globalizzazione finanziata dal debito”. Ed aggiunse che bisognava “fare nuove regole e le regole devono farle i governi e le autorità vietando i paradisi fiscali e i bilanci falsi delle aziende. Le crisi finiscono prima o poi e alla fine di questa turbolenza l’Italia sarà più forte di prima e più forte degli altri”. Ma rammento altre sue dichiarazioni che avrebbero potuto incontrare i consensi di Casarini e compagni, comprese le mie simpatie, se non fosse stato per la conoscenza dell’autore, vale a dire il super ministro dell’economia del precedente governo Berlusconi. E visto che si tratta di un personaggio di alto profilo e di enorme potere, non sono mancate le occasioni politiche in cui a certi discorsi Tremonti avrebbe potuto far seguire almeno un gesto concreto di coerenza. Né avrebbe mai potuto farlo, come si può facilmente immaginare.
Tuttavia, ciò non muta la sostanza delle cose, né impedisce di concordare con Tremonti nel momento in cui analizza criticamente le dinamiche del capitalismo finanziario dall’interno, un mondo che ben conosce e frequenta. Ma più che un teorico del mercatismo selvaggio, di cui pure è stato in passato un promotore dichiarato, oggi Tremonti si professa (ed è) un appassionato e convinto fautore del protezionismo. Lo stesso mutuato dalla Lega, ma spiegato meglio. Il fatto è che per argomentarlo Tremonti deve ricorrere a fatti che svelano i contenuti delle manovre finanziarie e le tendenze autocratiche del capitalismo finanziario. Analizzata dall’interno tale realtà risulta molto più inquietante di quanto si possa supporre. E’ forse questa la chiave interpretativa per provare a comprendere le contraddizioni di Tremonti. Che sono esattamente le stesse che emergevano dalle pagine del suo precedente libro, “La paura e la speranza”.
Probabilmente si potrebbe apprezzare Tremonti come intellettuale se avesse avuto mano libera e non fosse stato un “burattino” come molti politici d’oggi. In tal senso Tremonti non si distanzia molto da una tradizione ideologica “di destra” che identifica nel mercato un fattore disgregante e che oggi, in netto (e colpevole) ritardo rispetto al movimento “no-global”, denuncia le promesse tradite dalla globalizzazione neoliberista.
Lucio Garofalo
fonte
venerdì 27 gennaio 2012
Qualunquemente
Alla
fine della riunione UE tenutasi a Berlino, alcuni presidenti decidono di
rilassarsi andando a visitare lo Staatliche Museen.
Si fermano ad ammirare il dipinto "Adamo ed Eva in Paradiso" di Lucas Cranach.
Angela Merkel commenta: "Ma che perfezione quei corpi: alti, snelli, atletici e con l'aria determinata. Queste sono caratteristiche certamente tedesche..."
Al che Nicholas Sarkozy replica: "Non sono affatto d'accordo! Osservate piuttosto l'erotismo che traspare dagli sguardi e dai corpi: lui così aitante e lei così femminile... Ambedue sembrano rendersi conto che la tentazione è in agguato... Non possono essere che francesi!"
David Cameron scrolla il capo e dice: " Ma che cosa dite! Nè tedeschi nè francesi! Fatemi la cortesia di notare la serenità dei loro volti, lo stile dell'atteggiamento, la finezza della posa, la sobrietà dei gesti ... Possono essere solo inglesi".
Mario Monti sbotta: "Ma guardateli bene: sono senzatetto, non hanno vestiti e neppure le scarpe, gli resta solo una mela da mangiare in due, non protestano e si illudono di essere in paradiso. Non possono essere che italiani!"
Si fermano ad ammirare il dipinto "Adamo ed Eva in Paradiso" di Lucas Cranach.
Angela Merkel commenta: "Ma che perfezione quei corpi: alti, snelli, atletici e con l'aria determinata. Queste sono caratteristiche certamente tedesche..."
Al che Nicholas Sarkozy replica: "Non sono affatto d'accordo! Osservate piuttosto l'erotismo che traspare dagli sguardi e dai corpi: lui così aitante e lei così femminile... Ambedue sembrano rendersi conto che la tentazione è in agguato... Non possono essere che francesi!"
David Cameron scrolla il capo e dice: " Ma che cosa dite! Nè tedeschi nè francesi! Fatemi la cortesia di notare la serenità dei loro volti, lo stile dell'atteggiamento, la finezza della posa, la sobrietà dei gesti ... Possono essere solo inglesi".
Mario Monti sbotta: "Ma guardateli bene: sono senzatetto, non hanno vestiti e neppure le scarpe, gli resta solo una mela da mangiare in due, non protestano e si illudono di essere in paradiso. Non possono essere che italiani!"
I professionisti del dolore
La lobby ebraica infiltrata in Europa, dopo aver deciso ed imposto a tutti di celebrare il 27 gennaio come “giornata della memoria” della shoah ha già predisposto con di imporre a tutti la “giornata del giusto“, che si celebrerà il 6 marzo, anniversario della morte nel 2007, guarda caso, di un ebreo Moshe Bejski, presidente della commissione dei giusti di Yad Vashem, la fiamma eterna che arde in quel ricettacolo di propaganda sionista.
La dichiarazione scritta (clicca qui per scaricare) è stata presentata al Parlamento europeo il 16 gennaio scorso. Gabriele Albertini, Lena Kolarska Bobińska, Ioan Mircea Paşcu, Niccolò Rinaldi e David-Maria Sassoli sono i primi cinque europarlamentari firmatari.
Come
mai ogni commemorazione genocida che l’Unione europea sforna affonda le
proprie radici nelle memorie olocaustiche e non in altri accadimenti
storici?
martedì 24 gennaio 2012
"Le Origini del Conflitto Israelo-Palestinese"
pubblicato da
"Jews for Justice in the Middle East"
"Jews for Justice in the Middle East"
"Jews for Justice in the Middle East"
è un'organizzazione composta esclusivamente da giudei che si
oppongono allo scempio compiuto in loro nome in Palestina.
Conducono battaglie civili contro il tentativo israeliano di
cancellare l'entità palestinese ed hanno pubblicato questo libro
per svelare al mondo il vero volto del sionismo. Il testo è
liberamente divulgabile e riproducibile; si chiede solo di
menzionarne fonti, autori, traduttori e links.
Testo tratto da
www.cactus48.org
e pubblicato per gentile
concessione di
www.arabcomint.com
che ne ha curato
la traduzione
link dei capitoli-
Tutti i miti del sionismo vengono sfatati, uno ad uno, dalle parole di ebrei "di buona volonta' "
sabato 21 gennaio 2012
wrustel e brioche,la nuova ricetta per l'europa
Sessanta caccia Eurofighter per 3,9 miliardi di euro, fregate
francesi per oltre quattro miliardi, motovedette per 400 milioni, e poi
carri armati, elicotteri Apache e sommergibili tedeschi per altri 2
miliardi di euro. E’ la lista della spesa militare per il prossimo
futuro. E la notizia ha dell’incredibile: perché il paese che sta per
impegnare queste cifre in armamenti è la Grecia, che forse in primavera
lascerà l’euro per tornare alla dracma. Gli ospedali di Atene trattano
solo i casi urgenti, gli autisti degli autobus sono in sciopero, nelle
scuole mancano ancora i libri di testo e migliaia di dipendenti statali
manifestano contro il proprio licenziamento. Il governo greco annuncia
un nuovo piano di rigore che non risparmierà nessuno. A parte l’esercito
e l’industria delle armi: due settori neppure sfiorati dall’austerity
che sta terremotando il popolo greco.
A marzo, scrive Claas Tatje su “Presseurop” in un servizio ripreso da “Megachip”, la Grecia dovrebbe ricevere la prossima tranche di aiuti finanziari, che probabilmente supererà gli 80 miliardi di euro: se così fosse, ci sarebbe una possibilità reale di concludere nuovi contratti sugli armamenti. Nel 2010, il bilancio greco della difesa ammontava a circa 7 miliardi di euro: oltre il 3% del Pil, ovvero una percentuale superata solo dagli Stati Uniti. È vero che l’anno seguente il ministero della difesa ha ridotto l’acquisto di nuovi armamenti a 500 milioni di euro, ma in fondo non ha fatto altro che sospendere la richiesta di forniture, che sarà più alta in futuro, come spiega un esperto militare. Perché allora l’Europa – così severa coi conti pubblici greci – non frena sugli armamenti? Perché ci guadagna, accusa Daniel Cohn-Bendit, portavoce dei Verdi al Parlamento europeo.
Chi ricaverà di più da questa politica greca del riarmo è proprio la Germania, aggiunge Claas Tatje: stando al Rapporto sulle esportazioni di armamenti del 2010, in via di pubblicazione, la Grecia è il maggiore acquirente di forniture tedesche dopo il Portogallo, altro paese sull’orlo del fallimento. «Per i giornali spagnoli e greci – racconta “Presseurop” – in occasione di un summit a fine ottobre, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy avrebbero invitato l’ex primo ministro greco George Papandreou a mantenere gli impegni presi sugli armamenti, e addirittura a prenderne nuovi». Altro debito, per acquistare armi sofisticate come i 90 caccia prenotati da Atene? «Parlare di Eurofighter sarebbe totalmente irresponsabile, nel pieno della crisi finanziaria che sta attraversando il paese», accusa Hilmar Linnenkamp, esperto del settore.
E non si tratta solo di aerei. Secondo l’ultimo rapporto sulle esportazioni di armamenti, nel 2010 la Grecia ha importato dalla Germania 223 carri armati e un sommergibile. Costo totale dell’operazione: 403 milioni di euro. «Queste forniture hanno avuto un peso rilevante nell’esplosione del debito pubblico greco», conferma Claas Tatje. Secondo l’ex ministro degli esteri Dimitris Droutsas, la Grecia è stata indotta al riarmo da pressioni non solo politiche: ondate di migranti provenienti dal Nordafrica e dell’Asia e, soprattutto, attriti pressoché quotidiani con i turchi. «Quand’ero ministro degli esteri – riferisce Droutsas – ogni pomeriggio ricevevo una nota dal ministero della difesa che elencava le violazioni del nostro spazio aereo da parte della Turchia». Senza contare le crescenti attività della marina turca nell’Egeo, seguite con apprensione dalla Grecia, e il fatto che sono ormai 35 anni che Cipro convive con l’“occupazione turca”.
Droutsas e compagni non devono temere la resistenza della popolazione, aggiunge “Presseurop”: il settore militare greco promette sicurezza e posti di lavoro. «In un paese dove manca un’industria nazionale forte, questo non è un dato da trascurare: le imprese tedesche del settore delle armi lo hanno capito da un pezzo e hanno stretto un legame strettissimo con le aziende greche». Nessuno preme per scongiurare le spese folli del riarmo, e il bilancio della difesa «viene a malapena considerato» nelle misure economiche supervisionate dagli esperti di Fmi, Bce e Commissione Europea. Nel 2010, quando la spesa per gli armamenti è stata ridotta allo 0,2% del Pil (meno di mezzo miliardo di euro), la spesa sociale è stata amputata di 1,8 miliardi. «Per il 2011 la Commissione Europea quindi ha raccomandato “una riduzione del budget militare”, ma nel concreto non è stato fatto niente».
Così, conclude “Presseurop”, mentre per il 2012 si pensa di ridurre di un altro 9% la spesa sociale, pari a un taglio di 2 miliardi di euro, i contributi alla Nato cresceranno invece del 50% e raggiungeranno i 60 milioni, e le spese correnti previste dalla difesa aumenteranno di 200 milioni, per un totale di 1,3 miliardi. La spesa militare avrà dunque un incremento secco del 18,2%. E il governo tedesco? «Guarda con favore al consolidamento del primo ministro greco Papademos», premette un portavoce della Merkel, favorevole a una «sensata riduzione delle spese, anche nel settore delle forze armate». Purché Atene non si scordi degli impegni appena assunti: «Piena fiducia sul fatto che gli accordi verranno rispettati».
FONTE
A marzo, scrive Claas Tatje su “Presseurop” in un servizio ripreso da “Megachip”, la Grecia dovrebbe ricevere la prossima tranche di aiuti finanziari, che probabilmente supererà gli 80 miliardi di euro: se così fosse, ci sarebbe una possibilità reale di concludere nuovi contratti sugli armamenti. Nel 2010, il bilancio greco della difesa ammontava a circa 7 miliardi di euro: oltre il 3% del Pil, ovvero una percentuale superata solo dagli Stati Uniti. È vero che l’anno seguente il ministero della difesa ha ridotto l’acquisto di nuovi armamenti a 500 milioni di euro, ma in fondo non ha fatto altro che sospendere la richiesta di forniture, che sarà più alta in futuro, come spiega un esperto militare. Perché allora l’Europa – così severa coi conti pubblici greci – non frena sugli armamenti? Perché ci guadagna, accusa Daniel Cohn-Bendit, portavoce dei Verdi al Parlamento europeo.
Chi ricaverà di più da questa politica greca del riarmo è proprio la Germania, aggiunge Claas Tatje: stando al Rapporto sulle esportazioni di armamenti del 2010, in via di pubblicazione, la Grecia è il maggiore acquirente di forniture tedesche dopo il Portogallo, altro paese sull’orlo del fallimento. «Per i giornali spagnoli e greci – racconta “Presseurop” – in occasione di un summit a fine ottobre, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy avrebbero invitato l’ex primo ministro greco George Papandreou a mantenere gli impegni presi sugli armamenti, e addirittura a prenderne nuovi». Altro debito, per acquistare armi sofisticate come i 90 caccia prenotati da Atene? «Parlare di Eurofighter sarebbe totalmente irresponsabile, nel pieno della crisi finanziaria che sta attraversando il paese», accusa Hilmar Linnenkamp, esperto del settore.
E non si tratta solo di aerei. Secondo l’ultimo rapporto sulle esportazioni di armamenti, nel 2010 la Grecia ha importato dalla Germania 223 carri armati e un sommergibile. Costo totale dell’operazione: 403 milioni di euro. «Queste forniture hanno avuto un peso rilevante nell’esplosione del debito pubblico greco», conferma Claas Tatje. Secondo l’ex ministro degli esteri Dimitris Droutsas, la Grecia è stata indotta al riarmo da pressioni non solo politiche: ondate di migranti provenienti dal Nordafrica e dell’Asia e, soprattutto, attriti pressoché quotidiani con i turchi. «Quand’ero ministro degli esteri – riferisce Droutsas – ogni pomeriggio ricevevo una nota dal ministero della difesa che elencava le violazioni del nostro spazio aereo da parte della Turchia». Senza contare le crescenti attività della marina turca nell’Egeo, seguite con apprensione dalla Grecia, e il fatto che sono ormai 35 anni che Cipro convive con l’“occupazione turca”.
Droutsas e compagni non devono temere la resistenza della popolazione, aggiunge “Presseurop”: il settore militare greco promette sicurezza e posti di lavoro. «In un paese dove manca un’industria nazionale forte, questo non è un dato da trascurare: le imprese tedesche del settore delle armi lo hanno capito da un pezzo e hanno stretto un legame strettissimo con le aziende greche». Nessuno preme per scongiurare le spese folli del riarmo, e il bilancio della difesa «viene a malapena considerato» nelle misure economiche supervisionate dagli esperti di Fmi, Bce e Commissione Europea. Nel 2010, quando la spesa per gli armamenti è stata ridotta allo 0,2% del Pil (meno di mezzo miliardo di euro), la spesa sociale è stata amputata di 1,8 miliardi. «Per il 2011 la Commissione Europea quindi ha raccomandato “una riduzione del budget militare”, ma nel concreto non è stato fatto niente».
Così, conclude “Presseurop”, mentre per il 2012 si pensa di ridurre di un altro 9% la spesa sociale, pari a un taglio di 2 miliardi di euro, i contributi alla Nato cresceranno invece del 50% e raggiungeranno i 60 milioni, e le spese correnti previste dalla difesa aumenteranno di 200 milioni, per un totale di 1,3 miliardi. La spesa militare avrà dunque un incremento secco del 18,2%. E il governo tedesco? «Guarda con favore al consolidamento del primo ministro greco Papademos», premette un portavoce della Merkel, favorevole a una «sensata riduzione delle spese, anche nel settore delle forze armate». Purché Atene non si scordi degli impegni appena assunti: «Piena fiducia sul fatto che gli accordi verranno rispettati».
FONTE
giovedì 19 gennaio 2012
Un twitter fa primavera (araba)
di Emanuela Irace
Le radici sono reazionarie. Bloccano. Frenano. Annientano la mobilità di un pensiero agganciato alle origini. Incasellano, come una madre quando riconosce somiglianze nella figlia e ne indirizza il futuro regalandole il contrario dell’autonomia o il seme della lotta con cui dovrà fare i conti per il resto della vita, per differenziarsene. Un regalo non è mai innocente. Il Washington Post e il New York Times raccontano dei finanziamenti ai giovani blogger della Primavera Araba, corsi di formazione e stage per gli attivisti non violenti. Gli stessi che hanno riempito le piazze del nord Africa e del Medio Oriente realizzando la prima rivoluzione per procura della storia, a forza di slogan pensati altrove e a oligarchie interessate più ai mercati della finanza e dell’economia che alle persone. Le rivoluzioni post-moderne sono diventate reazionarie. Come i Guelfi neri all’epoca di Dante. Come la rivoluzione del 1905 all’epoca di Lenin. Sono le “Rivoluzioni 2.0”. Quelle della rete, dei social network e di Google che presta piattaforme per gli internauti dei paesi che censurano. Sono le rivoluzioni amplificate da Al Jazeera, l’emittente del Qatar, che sa dosare libertà d’espressione e ideologia salafita. La tattica é di dare cinque notizie vere e una falsa per acquisire credibilità. La strategia è quella della propaganda anglo-americana: inventare orrori per suscitare l’indignazione popolare e provocare
l’insurrezione, a scapito di giovani che ingenuamente credono di essere i protagonisti.
fonte
Le radici sono reazionarie. Bloccano. Frenano. Annientano la mobilità di un pensiero agganciato alle origini. Incasellano, come una madre quando riconosce somiglianze nella figlia e ne indirizza il futuro regalandole il contrario dell’autonomia o il seme della lotta con cui dovrà fare i conti per il resto della vita, per differenziarsene. Un regalo non è mai innocente. Il Washington Post e il New York Times raccontano dei finanziamenti ai giovani blogger della Primavera Araba, corsi di formazione e stage per gli attivisti non violenti. Gli stessi che hanno riempito le piazze del nord Africa e del Medio Oriente realizzando la prima rivoluzione per procura della storia, a forza di slogan pensati altrove e a oligarchie interessate più ai mercati della finanza e dell’economia che alle persone. Le rivoluzioni post-moderne sono diventate reazionarie. Come i Guelfi neri all’epoca di Dante. Come la rivoluzione del 1905 all’epoca di Lenin. Sono le “Rivoluzioni 2.0”. Quelle della rete, dei social network e di Google che presta piattaforme per gli internauti dei paesi che censurano. Sono le rivoluzioni amplificate da Al Jazeera, l’emittente del Qatar, che sa dosare libertà d’espressione e ideologia salafita. La tattica é di dare cinque notizie vere e una falsa per acquisire credibilità. La strategia è quella della propaganda anglo-americana: inventare orrori per suscitare l’indignazione popolare e provocare
l’insurrezione, a scapito di giovani che ingenuamente credono di essere i protagonisti.
fonte
domenica 15 gennaio 2012
Italia, operai rimettono in moto la fabbrica occupata
15 / 1 / 2012
L’Italia come l’Argentina. Licenziati un mese fa, operaie, operai e
tecnici della Jabil – la multinazionale americana subentrata tre anni fa
alla Nokia Siemens nello stabilimento di Cassina de’ Pecchi, alle porte
di Milano – hanno deciso sin da subito di occupare la fabbrica, e ora,
“dopo un’accurata manutenzione ordinaria e straordinaria di macchinari e
strumentazione”, hanno rimesso in moto linee e postazioni di lavoro.“Il ciclo produttivo funziona perfettamente. La ripartenza è stata preceduta da una meticolosa perizia e con tutte le cautele del caso, tenendo conto del fermo durato un mese – hanno raccontato a Operaicontro i lavoratore del presidio Jabil -. Il lavoro c’è, i componenti e tutta la fornitura pure. Si tratta della produzione che il padrone ha interrotto bruscamente con la serrata e i 325 licenziamenti del 12 dicembre 2011. Non manca niente, tantomeno una mano d’opera all’altezza. Noi 325 operai e lavoratori licenziati possiamo continuare a sfornare un prodotto d’eccellenza, conosciuto in tutto il mondo. La ripresa della produzione è la garanzia dell’integrità del ciclo produttivo, ed è al tempo stesso la miglior medicina per il mantenimento dell’adeguata efficienza”.
Le operaie e gli operai della Jabil, riprendendo anche se per qualche ora al giorno al produzione, stanno dimostrando che la fabbrica è pronta a ripartire e che non può essere sepolta per fare spazio alla speculazione edilizia. Per andare avanti hanno soltanto gli ottocento euro al mese della mobilità Inps, che durerà un anno per gli under quaranta e due per i più anziani.
“Sindacato, politici, istituzioni: chi ha orecchie per intendere intenda e si dia da fare per garantire la continuità produttiva della fabbrica, con o senza Jabil, tenendo ben presente che questi operai non intendono sostituirsi al padrone”, hanno precisato, concludendo: “la lotta è appena cominciata”.
La Jebil, ex Nokia, nel giro di tre anni è precipitata da stabilimento modello alla chiusura, passando per due anni di cassa integrazione. Una discesa inspiegabile, a cui i dipendenti non si rassegnano tanto da aver portato la multinazionale di fronte al Tribunale del lavoro.
“Eravamo il leader mondiale nella produzione di ponti radio – aveva raccontato Angelo Ometti, rsu della Fiom, i primi giorni dell’occupazione – poi hanno deciso di smembrare l’intera filiera, disperdendo un valore immenso”. Eppure a Cassina De’ Pecchi si faceva ricerca e progettazione, produzione e assistenza. Un sito che la stessa Nokia Siemens considerava un modello di riferimento. Finché, nel 2008, mentre Nokia Siemens porta la ricerca a Shanghai e inaugura la nuova produzione in Germania, la fabbrica passa a Jabil. “Ma nonostante le promesse di Jabil e l’impegno di Nokia a portare avanti ricerca e produzione non è stato mai presentato un piano industriale”, aveva aggiunto il sindacalista. Questa una delle ragioni che ha spinto gli operai a portare sia Jabil che Nokia Siemens di fronte al tribunale del lavoro. Ma anche quando accadde a metà 2010, quando Jabil vendette l’intera forza lavoro al fondo italoamericano Mercatech per poi tornare nuovamente alla guida dello stabilimento. Un’operazione che in soli sette mesi provocò un buco di 70 milioni. Il tutto nel totale silenzio di governo e istituzioni.
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venerdì 13 gennaio 2012
giovedì 12 gennaio 2012
Grazie Faber
Non si sa quanto il "Washington Post" se ne rendesse conto, ma l'accostamento tra bombe e titoli derivati non è solo metaforico, poiché riguarda quel legame intimo ed indissolubile tra finanza e militarismo che è alla base dell'imperialismo-colonialismo. Senza le bombe non ci sarebbero nemmeno i titoli derivati.
Oggi imperversa la formula retorica secondo cui l'economia di carta avrebbe soffocato l'economia reale. Ma la stagnazione economica non ha come necessaria conseguenza uno strapotere della finanza: se la finanza è carta, non può certo prevalere con le proprie forze sul circuito della produzione e del consumo.
JP Morgan non è infatti soltanto una banca, ma una propaggine del Pentagono. L'11 maggio dello scorso anno "CNN-Money" ci faceva sapere che JP Morgan è in Afghanistan, a caccia delle risorse minerarie locali, con l'assistenza del Pentagono.[2]
In polemica con le teorie del complotto, si dice spesso che l'economia è un meccanismo complesso e impersonale. Ma l'esperienza storica indica che sono esistite persone complesse che hanno diretto il business mondiale, per di più agendo in tutta evidenza. Nel 2009 è scomparso Robert McNamara, segretario alla Difesa con i presidenti Kennedy e Johnson. McNamara è famoso per aver organizzato il Pentagono nella più colossale e dispotica macchina di spesa pubblica della Storia.[3]
McNamara proveniva dalle industrie Ford, per passare poi a gestire la spesa pubblica statunitense da quel gigantesco comitato d'affari che è il ministero della Difesa. Nel 1968 si rese conto che il business della guerra del Vietnam era un limone ormai spremuto; perciò mollò Johnson per andare a dirigere la Banca Mondiale, che gestì sino al 1981. L'attivismo di McNamara alla Banca Mondiale fece in modo che questo istituto diventasse un tentacolare ente assistenziale a beneficio delle banche e per le multinazionali; un organismo che fu reso da McNamara persino più efficiente del Fondo Monetario Internazionale, di cui pure la Banca Mondiale era considerata la sorella minore. Ed il tutto avvenne all'insegna dello slogan della lotta alla povertà. Tra l'altro McNamara era ossessionato dall'idea che una delle maggiori cause di povertà sia l'aumento demografico, infatti pochi come lui hanno contribuito all'aumento del tasso di mortalità nei Paesi poveri.[4]
McNamara fu la dimostrazione di come la complessità non prescinda dalle persone, ma le attraversi. McNamara fu più di un leader, fu un crovevia di interessi, la rappresentazione plastica del conflitto di interessi: manager industriale, uomo politico, banchiere, ed anche ideologo piagnone della democrazia e dei diritti umani; proprio lui che aveva fatto inondare il Vietnam di bombe. Molti oppositori della guerra continuano a rimanere ancora oggi affascinati dalle sue capacità affabulatorie. McNamara rappresentò infatti l'espressione più tipica della democrazia come falsa coscienza dell'imperialismo.[5]
I cosiddetti B.R.I.C. (Brasile, Russia, India, Cina) potranno anche vantare tassi di sviluppo del 10% annuo, ma manca loro questa capacità tutta occidentale di vedere che l'economia è una cosa e gli affari tutta un'altra cosa, e di trasformare conseguentemente gli affari in una macchina da guerra totale; un'arte in cui McNamara si rivelò maestro.
JP Morgan si avvale ancora oggi del grande lavoro di McNamara alla Banca Mondiale. Ed infatti visto che c'è un mega-programma per "proteggere" gli agricoltori poveri del mondo dalla volatilità dei prezzi, a chi lo affida la Banca Mondiale? A JP Morgan. Poi dicono che i poveri non rendono.[6]
Ci ripetono in continuazione che l'economia è gestita dai "Mercati", ma si vede che la NATO e la Banca Mondiale non lo sanno. Infatti l'organo supremo della NATO, il Consiglio Atlantico, ha organizzato un "Business & Economics Program" in collaborazione con la Banca Mondiale, per attuare una "leadership transatlantica dell'economia globale" per una "crescente integrazione tra l'economia statunitense e quella europea". "Integrazione" significa ovviamente colonizzazione. In queste riunioni si tratta persino delle questioni del debito europeo, una materia che non dovrebbe riguardare la NATO. Oppure sì?
L'ultimo incontro su questa agenda tra il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, ed il presidente del Consiglio Atlantico, Fred Kempe, è avvenuto il 16 dicembre scorso al Four Seasons Hotel di Washington. Il tutto è documentato sul sito ufficiale del Consiglio Atlantico. Mancava solo che ci dicessero il menu e quello che hanno mangiato. Strano che nessun giornale ne abbia parlato. O no?[7]
[1] http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://www.washingtonpost.com/business/battle-scarred-italian-town-now-defeated-by-debt/2012/01/02/gIQA421dhP_story.html&ei=suIJT_fgK8734QTDvMSNCA&sa=X&oi=translate&ct=result&resnum=1&ved=0CCsQ7gEwAA&prev=/search%3Fq%3Djp%2Bmorgan%2Bitaly%2Bwashington%2Bpost%26hl%3Dit%26rlz%3D1R2ACAW_it%26prmd%3Dimvnso
[2] http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://management.fortune.cnn.com/2011/05/11/jp-morgan-hunt-afghan-gold/&ei=uR4LT4XSOOWL4gSBq8CNCA&sa=X&oi=translate&ct=result&resnum=1&ved=0CCQQ7gEwAA&prev=/search%3Fq%3Dpentagon%2Bjp%2Bmorgan%26hl%3Dit%26rlz%3D1W1ACAW_itIT338%26prmd%3Dimvns
[3] http://www.defense.gov/specials/secdef_histories/bios/mcnamara.htm
[4] http://web.worldbank.org/WBSITE/EXTERNAL/EXTABOUTUS/EXTARCHIVES/0,,contentMDK:20502974~pagePK:36726~piPK:437378~theSitePK:29506,00.html
[5] http://www.youtube.com/watch?v=oie9szU_Rpg
[6] http://web.worldbank.org/WBSITE/EXTERNAL/NEWS/0,,contentMDK:22945434~pagePK:34370~piPK:34424~theSitePK:4607,00.html
[7] http://webcache.googleusercontent.com/search?hl=it&gbv=2&rlz=1R2RNRN_itIT418&gs_sm=s&gs_upl=13828l19015l0l22390l11l11l0l8l8l0l265l702l2-3l3l0&q=cache:l6Gn977dl-MJ:http://www.acus.org/program/global-business-and-economics+atlantic+council+world+bank&ct=clnk
FONTE
sabato 7 gennaio 2012
Il sistema mafioso istituzionalizzato col"ricatto del debito"
Prima di Natale ho partecipato alla presentazione di un libro sulla “tratta delle nuove schiave dalla Nigeria ai marciapiedi d’Italia”. Autrice una donna appena oltre i trenta proveniente da questa esperienza, Isoke Aikpitanyi. Il libro, Le ragazze di Benin City, edizioni Melampo, da leggere, è una cruda testimonianza di come funziona questa tratta.
Quasi tutte le ragazze che partono dalla
Nigeria – un paese ricco di risorse – vogliono sfuggire ad una
situazione di estrema miseria e degrado sociale oltre che umano. La
televisione, che tutte guardano ossessivamente, le abitua a sognare il
paradiso del mondo occidentale e la fuga da un paese dove i «poveri sono
poverissimi e i ricchi sono ricchissimi». E anche Isoke, passando e
ripassando davanti alle vetrine di un’agenzia di viaggio di Lagos, pensa
di poter realizzare il suo sogno di viaggiare, fuggire dal suo paese,
ma qui inizia il suo calvario.
Il viaggio di Isoke dal suo paese all’Italia dura due anni, durante i quali vive momenti di grande pericolo e sofferenza (deserto, Marocco, Inghilterra), è reso possibile grazie ad un’organizzazione internazionale capillare. Al termine di questo lungo calvario è sbattuta a Torino, dove, al freddo gelido davanti ad un fuoco con le altre ragazze vestite in mutande, si trova a vivere la sua prima esperienza di strada sul joint, il marciapiede su cui si lavora.
Le ragazze giovanissime, anche di tredici e quattordici anni, sono quelle più facili da gestire per gli italos perché ancora non si rendono ben conto di quello che stanno vivendo. Per individuare le “prede” gli italos (coloro che si occupano della tratta verso l’Italia) frequentano in Nigeria le feste di paese, i matrimoni, i funerali, dove c’è sempre qualcuno che filma le ragazze. E questi filmati sono vagliati con attenzione dalla maman: quella è troppo bassa, quella è troppo piatta, quella è troppo vecchia, quella va proprio bene. «Quella piccolina lì, è lei che voglio». Fatta la scelta lo sponsor va dalla famiglia con dei regali dicendo che in Europa hanno bisogno di belle ragazze per fare la modella, la parrucchiera, la sarta, l’attrice. Spesso la famiglia acconsente, e non di rado sono gli stessi genitori a darsi da fare, sanno infatti che «in quella casa lì ci sono i parenti di una donna che porta le ragazze in Europa, hanno visto che la famiglia s’è fatta la macchina, ha comprato la casa. Allora dicono: anch’io».
La maman considera un problema il fatto che le ragazze siano vergini, che non siano mai andate a letto con qualcuno e che quindi non hanno esperienza. Per questo chiedono che l’organizzazione rimedi: in Nigeria ci sono quelli pagati apposta per controllare che le ragazze non siano più vergini e, se necessario, «darsi da fare per sverginarle loro». Ma chi è la maman? Maman, sister, momma, mamma. Insomma la «sfruttatrice, la magnaccia, la padrona». È la padrona assoluta delle piccole comunità dove vivono le donne prostitute, luoghi “protetti” e chiusi, senza contatti col mondo esterno. La maman quasi sempre è una ex prostituta che, una volta smesso di frequentare il marciapiede, decide di entrare nell’organizzazione. Può essere spietata con le ragazze: «Ci sono certe maman che quando le ragazze non guadagnano abbastanza le picchiano sulle mani. Dicono: le tue mani devono raccattare i soldi. Tanti soldi. Hai capito? Altre invece non picchiano, ma usano parole dure, e ricatti, e minacce di voodoo». Succede spesso che le ragazze una volta chiuso col marciapiede – «bruciate dal marciapiede» – non riescano più a pensare a nulla che non sia la strada. «Diventerò anch’io una maman e farò un sacco di soldi».
Il ricatto più grande per queste donne è il debito. Il debito con l’organizzazione del viaggio. «Calcola 180 giorni di lavoro estivo. Sono 18 volte che gli devi dare mille euro, per un totale di diciottomila, se sei una ragazza normale. Le rapidò addirittura devono sborsarne venticinquemila. Poi calcola i 180 giorni dell’inverno, in cui ti chiedono solo la metà, novemila euro. Metti insieme estate e inverno. Fanno come minimo ventisettemila euro che gli devi dare sull’unghia sennò sono grane. E le rapidò ne danno molti di più, sui trentasette-trentottomila… In teoria se ti sbrighi in un anno e mezzo puoi pensare di pagare il debito. Oppure in due. C’è anche chi lo paga nel giro di un anno, se trova un cliente pollo da cui farsi dare i soldi. Ma tutto questo, ripeto, è solo teoria». «Bisogna trovare un minimo di quaranta-quarantacinquemila euro l’anno, se vuoi restare viva. Sono le spese fisse, diciamo… E quando finalmente hai finito di pagare tutto, devi lavorare ancora per guadagnare i soldi per la festa della maman. La festa del ringraziamento». Poi ci sono i soldi che ogni settimana bisogna dare per il joint, l’affitto, il mangiare, e i soldi da mandare a casa. Per capirci, la rapidò è quella che guadagna un sacco di soldi (la cocca della maman), non necessariamente la più bella, ma sicuramente la «più veloce nel capire e nell’adeguarsi, la più determinata, la più furba, quella che arriva sempre prima al lavoro, capisce prima come funziona il mercato, capisce al volo quali sono gli orari migliori per trovare i clienti che pagano di più…». E spesso la rapidò diventa anche maman.
Sulla strada, sul marciapiede, bisogna andarci come si va ad una «sfilata» da preparare scrupolosamente a casa prima di uscire. La sfilata è il travestimento, una messa in scena per il lavoro. «Ognuna si inventa qualcosa, pur di colpire il cliente. Tu devi colpirlo in una frazione di secondo, mentre passa in macchina. Devi farti scegliere tra cento e cento, se vuoi lavorare». Bisogna mettere in mostra quello che si ha: «C’era la mia amica, Lisa, che aveva la quinta di suo, e ancora si imbottiva il reggiseno fino a mostrare una cosa spropositata… lavorava tantissimo… sei hai un bel sedere mostri quello… e poi ci sono le parrucche, ti tengono caldo e ti fanno apparire più sexi, perché coi capelli corti non ti guarda nessuno. Ognuno ha il suo stile, ma a ogni modo le scarpe devono sempre avere il tacco altissimo… Bisogna mostrare la merce, e più merce metti in mostra meglio è».
I pericoli che si corrono sulla strada sono davvero tanti: i balordi che passano e tirano qualcosa; quelli che rubano e picchiano; gli stupratori a pagamento (come sono chiamati dalle ragazze), cioè quelli che solo perché pagano «si sentono in diritto di esigere qualunque cosa, e se dici di no giù botte»; gli stupratori di gruppo, cioè quelli che in tre o quattro per volta caricano a forza la ragazza in auto e «sei fortunata ad uscirne viva»; e poi ci sono anche i due carabinieri che solo perché non soddisfatti hanno picchiato Felicia fino a che non le rimane un solo dente in bocca.
I soldi alle famiglie sono il tormento delle ragazze, sono ossessionate dal dovere di spedire i soldi a casa, raccomandandosi presso di loro di metterli in un conto corrente per quando ritorneranno. Ma quasi sempre questi soldi non ci sono, svaniscono. «Manda i soldi – le avevano detto al telefono –, che costruiamo una casa. Lei manda i soldi per i mattoni, il tetto, le finestre, poi ritorna e non trova niente. Solo il terreno. E a volte nemmeno quello… Tutta l’economia della città (Benin City) si regge sui soldi che arrivano dall’Europa, tutto il business, i taxi, il noleggio dei motorini, l’edilizia, le scuole, tutto si regge sui soldi mandati dalla Western Union».
E se qualcuna pensa di uscire dal giro deve fare i conti con l’organizzazione, a partire dalla maman che la considera propria e per ricattarla – nei casi di ragazze più sprovvedute ed ingenue – ricorre pure ai riti voodoo che la terrorizzano. Ci sono quelle che non credono al voodoo e magari vanno in chiesa, non quella cattolica, però, perché in Nigeria ci sono tante chiese cristiane, pentecostali, evangeliste, ed avventiste che stanno prendendo piede grazie ad un predicatore americano (guarda un po’!). Il ricatto ed il controllo passa anche per questi canali, le ragazze vanno in queste chiese organizzate per gli africani: «è l’unico svago nella brutta vita che fanno». In queste chiese si riuniscono anche due o tre volte a settimana, c’è una messa che dura quasi tutto il giorno, si balla, si mangia e c’è tanta gente. «Il pastore non è quasi mai un vero pastore. Per fare il pastore in Africa basta avere una bibbia… l’Europa è piena di questi pastori così. Ovviamente il pastore è sempre d’accordo con la maman. Le ragazze vanno da lui a chiedere consigli, se stanno male lui impone le mani… cosa vuoi farci – dice il pastore –, è Dio che lo vuole. Prostituirsi è una cosa brutta ma anche non mantenere le promesse è molto brutto. Pentiti. E ricorda che anche il padre nostro dice: paga il tuo debito. Così le ragazze pagano il debito e pagano la chiesa».
Chi sono i clienti? Non tutti i clienti sono uomini pericolosi, nel libro possiamo leggere che fra di loro ci sono «persone per bene e persone civili». Di più: «Questi clienti sono l’unico momento di libertà delle ragazze, soprattutto per quelle che non hanno mai un attimo di libertà». Tra questi ci sono quelli che pagano ma che non vogliono fare niente, e che propongono anche di andare a mangiare insieme una pizza; e i giovani senza compagnia femminile che dovendo andare ad una festa propongono alle ragazze di far finta di esser la fidanzata. «Va bene. Sei pagata, vai alle feste, vai a ballare. È sempre meglio che stare in strada. E in questo modo vedi come vivono le ragazze italiane. Ti fai un’idea di come vive la gente normale». Ci sono quelli che diventano «fidanzati», che arrivano pure ad accompagnare la ragazza al marciapiede e che semmai stanno lì nei dintorni per verificare che tutto scorra fuori dal pericolo e che in taluni casi arrivano anche a salvarle la vita. Insomma non tutti i clienti vogliono «sempre e solo fare sesso»: molti ci vanno per parlare dei propri problemi, per trovare compagnia, per sfogarsi, per fare domande.
Quelli che fanno tante domande e parlano più di tutti sono i cosiddetti papagiri, dai quali è «inutile però sperare di cavare i soldi». Il papagiro non va mai sulla strada per fare sesso: «passa in macchina, si ferma, ti porta i cioccolatini, un panino, un termos di caffè bollente per scaldarti quando fa molto freddo. Anche lui chiacchiera, chiacchiera sempre. Chiede, s’impiccia, tu da dove vieni, ma quanto devi pagare, la tua famiglia dove sta, che tipo di viaggio hai fatto. Io non ho ancora capito che tipo di uomo è… ma in questi papagiri c’è qualcosa di buono, son capaci di girare tutta la notte, come una specie di unità di strada, sanno tutto quello che succede nella strada… magari ti danno l’allarme quando c’è la polizia che sta arrivando. Ed ogni tanto qualche ragazza al suo papagiro fa fare un po’ di sesso».
C’è la variante pericolosa del papagiro, quella considerata disperata, «quelli che si arrotolano». A differenze dei papagiri “buoni” questi «vanno con le ragazze e fanno sesso da clienti. Ma ogni volta si coinvolgono. E allora succede il disastro». Il loro arrotolamento li trascina a parlare ossessivamente di sé e dei loro problemi al punto che le ragazze si infastidiscono e dicono: «Ma come, io sto qua, piove, nevica, c’è il sole, fa freddo, devo stare qua a sbattermi e questo viene pure a farsi compatire».
Non è infrequente che una ragazza rimanga incinta, il più delle volte perché i preservativi che «hanno un odore orribile» si rompono come niente. Se la maman non vuole «un bastardo in giro per casa» spesso finisce male, con un raschiamento con conseguenze anche drammatiche, ma se la ragazza tiene duro e vuole tenersi il figlio allora è costretta a lavorare fino ad una settimana prima di partorire, «i clienti non fanno mica problemi» dice la maman, ed infatti succede che «ogni sera davanti a loro c’è la fila» perché trovano che «le donne incinte siano erotiche». A volte il bambino è spedito dai nonni o da qualche zia, e «questo diventa per la madre l’incubo peggiore, perché ogni settimana deve trovare non solo i soldi del debito e dell’affitto e del joint, ma anche quelli per il bambino e per tutta la famiglia che lo cresce». Perché se non manda abbastanza «ha paura che il bambino non venga seguito, che gli succeda qualcosa».
Ci sono le ragazze che provano ad uscire dal giro, ma «qualcuna dopo un po’ cede e va a trovare le vecchie compagne»… e così riprende la strada del marciapiede. Sono poche le ragazze che escono dal giro grazie ai cosiddetti operatori di strada, quasi tutte o si sono sposate con i clienti o sono andati a vivere con questi. «Il cliente, che ti piaccia o no, è spesso l’unica risorsa di noi ragazze». Alle ragazze non piace andare in comunità perché «dopo anni di schiavitù non sopportano più le regole, le imposizioni, i divieti». Quelle che ci provano resistono solo pochi giorni, scappano, non riescono nemmeno ad aspettare il permesso di soggiorno, «per chi entra in comunità il percorso è troppo lungo, anche due anni».
Le ragazze di Benin City – scrive Isoke – sono uno «sfogatoio perfetto, un meraviglioso calmieratore di tensioni sociali ed etniche». «Un’africana stuprata è un’italiana salvata». Non bisogna rassegnarsi, afferma, certo i problemi della Nigeria sono tantissimi e la miseria dei molti è impressionante, ma se «le famiglie non hanno i soldi per mangiare, o per vestire i figli, o per mandarli a scuola, allora devono fare la loro parte: che protestino». «Non è vendendo le loro figlie ai trafficanti che costruiranno per loro, e per la Nigeria, un futuro decente». La tratta – continua Isoke – non è soltanto un problema di sesso, di puttane e di clienti: «la tratta è innanzitutto un affare colossale. Un business. È una schiavitù che rende un mucchio di soldi e questi soldi se li dividono bianchi e neri, in perfetto accordo. Sulla pelle di noi ragazze non nasce solo la fortuna di gente come la maman ma anche quella dei bianchi perbene, quelli che non picchiano mai i figli o la moglie… sono questi che vendono i visti, che organizzano i viaggi, che ti fanno passare senza dare nell’occhio dentro gli aeroporti, sono i poliziotti venduti, gli avvocati delle maman, i mediatori, gli affittuari».
Toccanti le pagine nelle quali Isoke racconta della madre e di come, dopo la sua prematura morte, inizi per lei quel percorso di elaborazione da che la porta non solo ad uscire dal giro, ma anche a diventare punto di riferimento per le ragazze che vogliono provarci. «Quando mi hanno detto che è morta mia madre non sono nemmeno riuscita a piangere. Il mondo era crollato, semplicemente. Nulla più aveva senso». Racconta della sorella minore che la chiama al telefono per dirle che ha trovato un viaggio per l’Europa, la sua «bella occasione». «Ho chiuso gli occhi e dentro di me una voce ha gridato: non è possibile. Quando mai finirà questa storia. Quanti anni, quanto dolore, quante morti ci vorranno ancora, prima che la Nigeria smetta di mandare al macello le sue figlie». «Ascolta. Ho preso il cuore in mano e ho cominciato a parlare. Cos’è la tratta. Che cosa fanno le ragazze. Come vivono. L’esistenza che fanno. Era la prima volta che trovavo il coraggio di parlare con qualcuno della mia famiglia: dire tutto, tutto!, senza risparmiare un solo dettaglio». «Mia sorella l’ho salvata, e lei adesso sta salvando le sue amiche. Dice: non partite. In Italia succede questo. Ogni volta che ci penso le mie spalle diventano più leggere. Penso: ho fatto proprio quel che avrebbe fatto mia madre. Ovhoweyemé [la madre] è morta, ma io no. Sono viva. Sono qui. Io. Isoke».
Alcune considerazioniIl viaggio di Isoke dal suo paese all’Italia dura due anni, durante i quali vive momenti di grande pericolo e sofferenza (deserto, Marocco, Inghilterra), è reso possibile grazie ad un’organizzazione internazionale capillare. Al termine di questo lungo calvario è sbattuta a Torino, dove, al freddo gelido davanti ad un fuoco con le altre ragazze vestite in mutande, si trova a vivere la sua prima esperienza di strada sul joint, il marciapiede su cui si lavora.
Le ragazze giovanissime, anche di tredici e quattordici anni, sono quelle più facili da gestire per gli italos perché ancora non si rendono ben conto di quello che stanno vivendo. Per individuare le “prede” gli italos (coloro che si occupano della tratta verso l’Italia) frequentano in Nigeria le feste di paese, i matrimoni, i funerali, dove c’è sempre qualcuno che filma le ragazze. E questi filmati sono vagliati con attenzione dalla maman: quella è troppo bassa, quella è troppo piatta, quella è troppo vecchia, quella va proprio bene. «Quella piccolina lì, è lei che voglio». Fatta la scelta lo sponsor va dalla famiglia con dei regali dicendo che in Europa hanno bisogno di belle ragazze per fare la modella, la parrucchiera, la sarta, l’attrice. Spesso la famiglia acconsente, e non di rado sono gli stessi genitori a darsi da fare, sanno infatti che «in quella casa lì ci sono i parenti di una donna che porta le ragazze in Europa, hanno visto che la famiglia s’è fatta la macchina, ha comprato la casa. Allora dicono: anch’io».
La maman considera un problema il fatto che le ragazze siano vergini, che non siano mai andate a letto con qualcuno e che quindi non hanno esperienza. Per questo chiedono che l’organizzazione rimedi: in Nigeria ci sono quelli pagati apposta per controllare che le ragazze non siano più vergini e, se necessario, «darsi da fare per sverginarle loro». Ma chi è la maman? Maman, sister, momma, mamma. Insomma la «sfruttatrice, la magnaccia, la padrona». È la padrona assoluta delle piccole comunità dove vivono le donne prostitute, luoghi “protetti” e chiusi, senza contatti col mondo esterno. La maman quasi sempre è una ex prostituta che, una volta smesso di frequentare il marciapiede, decide di entrare nell’organizzazione. Può essere spietata con le ragazze: «Ci sono certe maman che quando le ragazze non guadagnano abbastanza le picchiano sulle mani. Dicono: le tue mani devono raccattare i soldi. Tanti soldi. Hai capito? Altre invece non picchiano, ma usano parole dure, e ricatti, e minacce di voodoo». Succede spesso che le ragazze una volta chiuso col marciapiede – «bruciate dal marciapiede» – non riescano più a pensare a nulla che non sia la strada. «Diventerò anch’io una maman e farò un sacco di soldi».
Il ricatto più grande per queste donne è il debito. Il debito con l’organizzazione del viaggio. «Calcola 180 giorni di lavoro estivo. Sono 18 volte che gli devi dare mille euro, per un totale di diciottomila, se sei una ragazza normale. Le rapidò addirittura devono sborsarne venticinquemila. Poi calcola i 180 giorni dell’inverno, in cui ti chiedono solo la metà, novemila euro. Metti insieme estate e inverno. Fanno come minimo ventisettemila euro che gli devi dare sull’unghia sennò sono grane. E le rapidò ne danno molti di più, sui trentasette-trentottomila… In teoria se ti sbrighi in un anno e mezzo puoi pensare di pagare il debito. Oppure in due. C’è anche chi lo paga nel giro di un anno, se trova un cliente pollo da cui farsi dare i soldi. Ma tutto questo, ripeto, è solo teoria». «Bisogna trovare un minimo di quaranta-quarantacinquemila euro l’anno, se vuoi restare viva. Sono le spese fisse, diciamo… E quando finalmente hai finito di pagare tutto, devi lavorare ancora per guadagnare i soldi per la festa della maman. La festa del ringraziamento». Poi ci sono i soldi che ogni settimana bisogna dare per il joint, l’affitto, il mangiare, e i soldi da mandare a casa. Per capirci, la rapidò è quella che guadagna un sacco di soldi (la cocca della maman), non necessariamente la più bella, ma sicuramente la «più veloce nel capire e nell’adeguarsi, la più determinata, la più furba, quella che arriva sempre prima al lavoro, capisce prima come funziona il mercato, capisce al volo quali sono gli orari migliori per trovare i clienti che pagano di più…». E spesso la rapidò diventa anche maman.
Sulla strada, sul marciapiede, bisogna andarci come si va ad una «sfilata» da preparare scrupolosamente a casa prima di uscire. La sfilata è il travestimento, una messa in scena per il lavoro. «Ognuna si inventa qualcosa, pur di colpire il cliente. Tu devi colpirlo in una frazione di secondo, mentre passa in macchina. Devi farti scegliere tra cento e cento, se vuoi lavorare». Bisogna mettere in mostra quello che si ha: «C’era la mia amica, Lisa, che aveva la quinta di suo, e ancora si imbottiva il reggiseno fino a mostrare una cosa spropositata… lavorava tantissimo… sei hai un bel sedere mostri quello… e poi ci sono le parrucche, ti tengono caldo e ti fanno apparire più sexi, perché coi capelli corti non ti guarda nessuno. Ognuno ha il suo stile, ma a ogni modo le scarpe devono sempre avere il tacco altissimo… Bisogna mostrare la merce, e più merce metti in mostra meglio è».
I pericoli che si corrono sulla strada sono davvero tanti: i balordi che passano e tirano qualcosa; quelli che rubano e picchiano; gli stupratori a pagamento (come sono chiamati dalle ragazze), cioè quelli che solo perché pagano «si sentono in diritto di esigere qualunque cosa, e se dici di no giù botte»; gli stupratori di gruppo, cioè quelli che in tre o quattro per volta caricano a forza la ragazza in auto e «sei fortunata ad uscirne viva»; e poi ci sono anche i due carabinieri che solo perché non soddisfatti hanno picchiato Felicia fino a che non le rimane un solo dente in bocca.
I soldi alle famiglie sono il tormento delle ragazze, sono ossessionate dal dovere di spedire i soldi a casa, raccomandandosi presso di loro di metterli in un conto corrente per quando ritorneranno. Ma quasi sempre questi soldi non ci sono, svaniscono. «Manda i soldi – le avevano detto al telefono –, che costruiamo una casa. Lei manda i soldi per i mattoni, il tetto, le finestre, poi ritorna e non trova niente. Solo il terreno. E a volte nemmeno quello… Tutta l’economia della città (Benin City) si regge sui soldi che arrivano dall’Europa, tutto il business, i taxi, il noleggio dei motorini, l’edilizia, le scuole, tutto si regge sui soldi mandati dalla Western Union».
E se qualcuna pensa di uscire dal giro deve fare i conti con l’organizzazione, a partire dalla maman che la considera propria e per ricattarla – nei casi di ragazze più sprovvedute ed ingenue – ricorre pure ai riti voodoo che la terrorizzano. Ci sono quelle che non credono al voodoo e magari vanno in chiesa, non quella cattolica, però, perché in Nigeria ci sono tante chiese cristiane, pentecostali, evangeliste, ed avventiste che stanno prendendo piede grazie ad un predicatore americano (guarda un po’!). Il ricatto ed il controllo passa anche per questi canali, le ragazze vanno in queste chiese organizzate per gli africani: «è l’unico svago nella brutta vita che fanno». In queste chiese si riuniscono anche due o tre volte a settimana, c’è una messa che dura quasi tutto il giorno, si balla, si mangia e c’è tanta gente. «Il pastore non è quasi mai un vero pastore. Per fare il pastore in Africa basta avere una bibbia… l’Europa è piena di questi pastori così. Ovviamente il pastore è sempre d’accordo con la maman. Le ragazze vanno da lui a chiedere consigli, se stanno male lui impone le mani… cosa vuoi farci – dice il pastore –, è Dio che lo vuole. Prostituirsi è una cosa brutta ma anche non mantenere le promesse è molto brutto. Pentiti. E ricorda che anche il padre nostro dice: paga il tuo debito. Così le ragazze pagano il debito e pagano la chiesa».
Chi sono i clienti? Non tutti i clienti sono uomini pericolosi, nel libro possiamo leggere che fra di loro ci sono «persone per bene e persone civili». Di più: «Questi clienti sono l’unico momento di libertà delle ragazze, soprattutto per quelle che non hanno mai un attimo di libertà». Tra questi ci sono quelli che pagano ma che non vogliono fare niente, e che propongono anche di andare a mangiare insieme una pizza; e i giovani senza compagnia femminile che dovendo andare ad una festa propongono alle ragazze di far finta di esser la fidanzata. «Va bene. Sei pagata, vai alle feste, vai a ballare. È sempre meglio che stare in strada. E in questo modo vedi come vivono le ragazze italiane. Ti fai un’idea di come vive la gente normale». Ci sono quelli che diventano «fidanzati», che arrivano pure ad accompagnare la ragazza al marciapiede e che semmai stanno lì nei dintorni per verificare che tutto scorra fuori dal pericolo e che in taluni casi arrivano anche a salvarle la vita. Insomma non tutti i clienti vogliono «sempre e solo fare sesso»: molti ci vanno per parlare dei propri problemi, per trovare compagnia, per sfogarsi, per fare domande.
Quelli che fanno tante domande e parlano più di tutti sono i cosiddetti papagiri, dai quali è «inutile però sperare di cavare i soldi». Il papagiro non va mai sulla strada per fare sesso: «passa in macchina, si ferma, ti porta i cioccolatini, un panino, un termos di caffè bollente per scaldarti quando fa molto freddo. Anche lui chiacchiera, chiacchiera sempre. Chiede, s’impiccia, tu da dove vieni, ma quanto devi pagare, la tua famiglia dove sta, che tipo di viaggio hai fatto. Io non ho ancora capito che tipo di uomo è… ma in questi papagiri c’è qualcosa di buono, son capaci di girare tutta la notte, come una specie di unità di strada, sanno tutto quello che succede nella strada… magari ti danno l’allarme quando c’è la polizia che sta arrivando. Ed ogni tanto qualche ragazza al suo papagiro fa fare un po’ di sesso».
C’è la variante pericolosa del papagiro, quella considerata disperata, «quelli che si arrotolano». A differenze dei papagiri “buoni” questi «vanno con le ragazze e fanno sesso da clienti. Ma ogni volta si coinvolgono. E allora succede il disastro». Il loro arrotolamento li trascina a parlare ossessivamente di sé e dei loro problemi al punto che le ragazze si infastidiscono e dicono: «Ma come, io sto qua, piove, nevica, c’è il sole, fa freddo, devo stare qua a sbattermi e questo viene pure a farsi compatire».
Non è infrequente che una ragazza rimanga incinta, il più delle volte perché i preservativi che «hanno un odore orribile» si rompono come niente. Se la maman non vuole «un bastardo in giro per casa» spesso finisce male, con un raschiamento con conseguenze anche drammatiche, ma se la ragazza tiene duro e vuole tenersi il figlio allora è costretta a lavorare fino ad una settimana prima di partorire, «i clienti non fanno mica problemi» dice la maman, ed infatti succede che «ogni sera davanti a loro c’è la fila» perché trovano che «le donne incinte siano erotiche». A volte il bambino è spedito dai nonni o da qualche zia, e «questo diventa per la madre l’incubo peggiore, perché ogni settimana deve trovare non solo i soldi del debito e dell’affitto e del joint, ma anche quelli per il bambino e per tutta la famiglia che lo cresce». Perché se non manda abbastanza «ha paura che il bambino non venga seguito, che gli succeda qualcosa».
Ci sono le ragazze che provano ad uscire dal giro, ma «qualcuna dopo un po’ cede e va a trovare le vecchie compagne»… e così riprende la strada del marciapiede. Sono poche le ragazze che escono dal giro grazie ai cosiddetti operatori di strada, quasi tutte o si sono sposate con i clienti o sono andati a vivere con questi. «Il cliente, che ti piaccia o no, è spesso l’unica risorsa di noi ragazze». Alle ragazze non piace andare in comunità perché «dopo anni di schiavitù non sopportano più le regole, le imposizioni, i divieti». Quelle che ci provano resistono solo pochi giorni, scappano, non riescono nemmeno ad aspettare il permesso di soggiorno, «per chi entra in comunità il percorso è troppo lungo, anche due anni».
Le ragazze di Benin City – scrive Isoke – sono uno «sfogatoio perfetto, un meraviglioso calmieratore di tensioni sociali ed etniche». «Un’africana stuprata è un’italiana salvata». Non bisogna rassegnarsi, afferma, certo i problemi della Nigeria sono tantissimi e la miseria dei molti è impressionante, ma se «le famiglie non hanno i soldi per mangiare, o per vestire i figli, o per mandarli a scuola, allora devono fare la loro parte: che protestino». «Non è vendendo le loro figlie ai trafficanti che costruiranno per loro, e per la Nigeria, un futuro decente». La tratta – continua Isoke – non è soltanto un problema di sesso, di puttane e di clienti: «la tratta è innanzitutto un affare colossale. Un business. È una schiavitù che rende un mucchio di soldi e questi soldi se li dividono bianchi e neri, in perfetto accordo. Sulla pelle di noi ragazze non nasce solo la fortuna di gente come la maman ma anche quella dei bianchi perbene, quelli che non picchiano mai i figli o la moglie… sono questi che vendono i visti, che organizzano i viaggi, che ti fanno passare senza dare nell’occhio dentro gli aeroporti, sono i poliziotti venduti, gli avvocati delle maman, i mediatori, gli affittuari».
Toccanti le pagine nelle quali Isoke racconta della madre e di come, dopo la sua prematura morte, inizi per lei quel percorso di elaborazione da che la porta non solo ad uscire dal giro, ma anche a diventare punto di riferimento per le ragazze che vogliono provarci. «Quando mi hanno detto che è morta mia madre non sono nemmeno riuscita a piangere. Il mondo era crollato, semplicemente. Nulla più aveva senso». Racconta della sorella minore che la chiama al telefono per dirle che ha trovato un viaggio per l’Europa, la sua «bella occasione». «Ho chiuso gli occhi e dentro di me una voce ha gridato: non è possibile. Quando mai finirà questa storia. Quanti anni, quanto dolore, quante morti ci vorranno ancora, prima che la Nigeria smetta di mandare al macello le sue figlie». «Ascolta. Ho preso il cuore in mano e ho cominciato a parlare. Cos’è la tratta. Che cosa fanno le ragazze. Come vivono. L’esistenza che fanno. Era la prima volta che trovavo il coraggio di parlare con qualcuno della mia famiglia: dire tutto, tutto!, senza risparmiare un solo dettaglio». «Mia sorella l’ho salvata, e lei adesso sta salvando le sue amiche. Dice: non partite. In Italia succede questo. Ogni volta che ci penso le mie spalle diventano più leggere. Penso: ho fatto proprio quel che avrebbe fatto mia madre. Ovhoweyemé [la madre] è morta, ma io no. Sono viva. Sono qui. Io. Isoke».
Questa drammatica e vibrante testimonianza ci dice più cose di uno studio sociologico del fenomeno. In questo libro si racconta della triste sorte delle ragazze di Benin City (popolosa città nigeriana dello stato di Edo) avviate alla prostituzione in Italia; ma sappiamo bene, purtroppo, che il mercato occidentale attinge da tanti altri paesi la “risorsa vitale”; cambieranno le facce, le situazioni, i nomi, ma la sostanza della questione rimane invariata, si tratta pur sempre di tratte schiavistiche. Il motore che mette in moto la terribile macchina è la fame di sesso che la nostra “libera” e “disinibita” società produce; ma si tratta di sesso alienato, abbrutito, ridotto a pura meccanicità, un sesso concepito dalla logica capitalistica del consumo illimitato. L’atto sessuale, che dovrebbe esprimere una vitale e gioiosa espressione della più alta relazionalità affettiva umana che nella compenetrazione dei corpi vive la sublimità dell’amore, si esprime come appropriazione e possedimento brutali di corpi considerati alla stregua di oggetti procuranti piacere fisico. Come scrive Isoke, le ragazze sono uno sfogatoio perfetto. Infatti, il sesso, così come insistentemente proposto dai mezzi di comunicazione di massa della civiltà capitalistica, diventa momento di consumo nel consumo più generale di merce; e quindi il corpo diventa merce che – in quanto merce – può essere acquistato, posseduto, goduto. Il mercato capitalistico (che definisco totale nel senso che è penetrato – mercificando tutto – in tutte le pieghe, anche più intime, dei rapporti sociali) risponde al bisogno sessuale alienato costruendo una rete internazionale di traffici che ha bisogno – per bene potersi svolgere – di una società “fluida” nella quale affermare con disinvoltura l’idea di un sesso al di sopra di qualsiasi morale che non sia quella dello scambio mercantile. Perciò serve una mentalità “libera”, “disinibita”, “trasgressiva”, “aperta”, “spregiudicata”, “moderna”, che i sacerdoti della pubblicità, del cinema, della televisione, del mondo dello spettacolo, dello sport, del turismo disinvolto, eccetera, propongono con continuità maniacale attraverso i mille canali di cui dispongono.
Le tratte delle nuove schiave nascono dalla spregiudica violenza del sistema capitalistico che è riuscito a perfezionare con sistemi incredibilmente sofisticati le antiche schiavitù. Benin city sorge intorno a quella che una volta era chiamata Costa degli Schiavi, dalla quale navi negriere imbarcavano nelle proprie stive masse di uomini catturati come bestie e schiavizzati, destinati al lavoro forzato delle piantagioni americane (si stima che oltre dieci milioni di schiavi siano sbarcati oltreoceano tra il 1500 e il 1890). Queste tratte neo-schiavistiche si accompagnano alla depredazione sistematica di risorse energetiche, minerarie, agricole, culturali, umane, in tutte quelle nazioni considerate dai paesi dominanti (Usa in testa) come esclusive riserve di caccia. La “democrazia” occidentale nasce, si sviluppa e si afferma grazie alle ricchezze che espropria dal sud del mondo; spoliazione che può esserci solo alla condizione che questi popoli e nazioni siano tenuti nell’oppressione: militare, economica, politica, sociale, culturale, e nel profondo degrado umano. Ecco perché laddove ci sono focolai di volontà di sganciamento dal controllo imperialistico, di resistenza, di affermazione di indipendenza, non tarda a delinearsi la minaccia delle sanzioni, degli embargo, degli interventi militari con seguito di bombardamenti umanitari. Per esportare la democrazia. S’intende.
fonte
martedì 3 gennaio 2012
Ungheria, Con Viktor Orbán ce la vediamo noi
di Gáspár Miklós Tamás
trad. di Andrea De Ritis
L’opposizione alle riforme del governo conservatore continua a crescere. Ma gli ungheresi devono diffidare della sponda offerta dall’occidente, che strumentalizza le critiche per imporre le proprie ricette. Serve un’alternativa che rispetti la sovranità.
Non c'è dubbio che la Commissione europea e il Fondo monetario internazionale abbiano imposto volutamente delle condizioni impossibili da rispettare per il governo ungherese, allo scopo di costringere Viktor Orban alle dimissioni. Questo ha portato alla rottura dei negoziati con la delegazione Eu-Fmi.
Nel frattempo il vicesegretario di Stato americano Thomas O. Melia ha ribadito le sue preoccupazioni sulla regressione della "democrazia" in Ungheria in favore di un potere autoritario e dittatoriale. Viviane Reding, commissaria Ue incaricata dei diritti fondamentali, ha duramente rimproverato il governo ungherese sulle continue violazioni dei principi della democrazia libera e costituzionale, aggiungendosi alle severe critiche del Parlamento europeo, dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, del Consiglio d'Europa e della Commissione di Venezia (e dello stesso segretario generale dell'Onu).
Di recente il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, ha scritto una lettera al primo ministro ungherese invitandolo cortesemente a non sottomettere al voto del parlamento determinati progetti di legge. Gli organi di stampa più prestigiosi dell'Europa occidentale e orientale e del Nord America e i loro giornalisti protestano contro questa deriva autoritaria. Difficile immaginare una pressione maggiore. L'unico passo successivo potrebbero essere delle sanzioni.
Mentre il partito Lmp (centrosinistra ecologista) dichiara che fare opposizione pacifica in parlamento è ormai impossibile e scende in piazza, due nuovi movimenti interessanti, Szolidaritàs e 4K! manifestano (e promettono manifestazioni ancora più importanti), i sindacati e nuovi movimenti provenienti dalla società civile parlano di nuove azioni di protesta.
Il problema è sapere qual’è la posizione delle forze di opposizione di sinistra e/o liberali nei confronti delle pressioni provenienti dall'estero (occidente e grandi potenze). La risposta non è facile. Da un certo punto di vista la distruzione delle istituzioni democratiche potrebbe giustificare, visto il potere schiacciante della destra antidemocratica, l'intervento occidentale in favore della democrazia.
Tuttavia le potenze occidentali e in particolare modo la Commissione europea, oltre a voler conservare un regime di tipo rappresentativo e costituzionale e la separazione dei poteri, vogliono che l'Ungheria adotti una politica economica che non faccia necessariamente (per utilizzare un eufemismo) gli interessi del popolo magiaro.
Gli ungheresi sono deluso e potrebbero vedere nella "causa democratica" solo una giustificazione delle misure di rigore sempre più dure provenienti dalle potenze occidentali, preoccupate della stabilità finanziaria del paese. Se la difesa delle istituzioni democratiche continuerà a essere accompagnata dall’impoverimento del popolo ungherese, non ci si deve stupire che questo non sia entusiasta dell’equazione democrazia liberale-miseria.
La maggior parte delle critiche occidentali nei confronti del governo sono giuste, ma non sono espresse dal corpo elettorale ungherese. I cittadini ungheresi non possono delegare alle potenze occidentali la politica del loro paese. Vincolare la democrazia a mezzi antidemocratici esterni è ingiustificabile, e l'esperienza mostra che queste soluzioni non sono efficaci.
Questa situazione rende molto difficile la posizione dell'opposizione democratica ungherese. Da un lato quest'ultima sostiene una politica economica e sociale che contrasterebbe se fosse portata avanti dal governo; dall'altro si dimostra favorevole a iniziative antidemocratiche – e quindi in contraddizione con se stessa – e potrebbe essere accusata di tradimento.
Il governo insiste nel voler distruggere il sistema di contributi sociali e continua il suo attacco contro ogni forma di sovvenzione. A lui si deve la soppressione dei sussidi di disoccupazione, la riduzione delle pensioni, la demolizione del sistema sanitario e il ripristino del sistema sanitario privato. Un attacco ancora più radicale di quello dei suoi predecessori neoliberisti [il governo di sinistra di Ferenc Gyurcsany], che avevano dovuto fare i conti con i sindacati all'epoca sostenuti da Orban. La differenza fra il governo e l'Ue-Fmi non è poi così grande.
Da un punto di vista più generale il dilemma è il seguente: bisogna difendere l'indipendenza nazionale quando la sovranità di un popolo è in crisi e quando i diritti fondamentali sono messi in discussione? Una premessa fondamentale per la restaurazione dell'indipendenza nazionale è il ripristino del regime democratico. Il rinnovamento della democrazia, che a mio parere può venire solo da nuove forze politiche provenienti dalla società civile, non deve essere messo in pericolo da considerazioni temporanee di carattere tattico.
Finché non sarà realizzata una democrazia europea di tipo federale, l'indipendenza sarà la nostra ultima protezione. E’ l’elemento che ci permette di consolidare e reinventare la sovranità del popolo. E’ inquietante che il popolo ungherese non abbia alleati forti né all'interno né all'esterno. Di conseguenza è ancora più importante che gli amici del popolo siano fedeli e coerenti.
fonte
trad. di Andrea De Ritis
L’opposizione alle riforme del governo conservatore continua a crescere. Ma gli ungheresi devono diffidare della sponda offerta dall’occidente, che strumentalizza le critiche per imporre le proprie ricette. Serve un’alternativa che rispetti la sovranità.
Non c'è dubbio che la Commissione europea e il Fondo monetario internazionale abbiano imposto volutamente delle condizioni impossibili da rispettare per il governo ungherese, allo scopo di costringere Viktor Orban alle dimissioni. Questo ha portato alla rottura dei negoziati con la delegazione Eu-Fmi.
Nel frattempo il vicesegretario di Stato americano Thomas O. Melia ha ribadito le sue preoccupazioni sulla regressione della "democrazia" in Ungheria in favore di un potere autoritario e dittatoriale. Viviane Reding, commissaria Ue incaricata dei diritti fondamentali, ha duramente rimproverato il governo ungherese sulle continue violazioni dei principi della democrazia libera e costituzionale, aggiungendosi alle severe critiche del Parlamento europeo, dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, del Consiglio d'Europa e della Commissione di Venezia (e dello stesso segretario generale dell'Onu).
Di recente il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, ha scritto una lettera al primo ministro ungherese invitandolo cortesemente a non sottomettere al voto del parlamento determinati progetti di legge. Gli organi di stampa più prestigiosi dell'Europa occidentale e orientale e del Nord America e i loro giornalisti protestano contro questa deriva autoritaria. Difficile immaginare una pressione maggiore. L'unico passo successivo potrebbero essere delle sanzioni.
Mentre il partito Lmp (centrosinistra ecologista) dichiara che fare opposizione pacifica in parlamento è ormai impossibile e scende in piazza, due nuovi movimenti interessanti, Szolidaritàs e 4K! manifestano (e promettono manifestazioni ancora più importanti), i sindacati e nuovi movimenti provenienti dalla società civile parlano di nuove azioni di protesta.
Il problema è sapere qual’è la posizione delle forze di opposizione di sinistra e/o liberali nei confronti delle pressioni provenienti dall'estero (occidente e grandi potenze). La risposta non è facile. Da un certo punto di vista la distruzione delle istituzioni democratiche potrebbe giustificare, visto il potere schiacciante della destra antidemocratica, l'intervento occidentale in favore della democrazia.
Tuttavia le potenze occidentali e in particolare modo la Commissione europea, oltre a voler conservare un regime di tipo rappresentativo e costituzionale e la separazione dei poteri, vogliono che l'Ungheria adotti una politica economica che non faccia necessariamente (per utilizzare un eufemismo) gli interessi del popolo magiaro.
Gli ungheresi sono deluso e potrebbero vedere nella "causa democratica" solo una giustificazione delle misure di rigore sempre più dure provenienti dalle potenze occidentali, preoccupate della stabilità finanziaria del paese. Se la difesa delle istituzioni democratiche continuerà a essere accompagnata dall’impoverimento del popolo ungherese, non ci si deve stupire che questo non sia entusiasta dell’equazione democrazia liberale-miseria.
La maggior parte delle critiche occidentali nei confronti del governo sono giuste, ma non sono espresse dal corpo elettorale ungherese. I cittadini ungheresi non possono delegare alle potenze occidentali la politica del loro paese. Vincolare la democrazia a mezzi antidemocratici esterni è ingiustificabile, e l'esperienza mostra che queste soluzioni non sono efficaci.
Questa situazione rende molto difficile la posizione dell'opposizione democratica ungherese. Da un lato quest'ultima sostiene una politica economica e sociale che contrasterebbe se fosse portata avanti dal governo; dall'altro si dimostra favorevole a iniziative antidemocratiche – e quindi in contraddizione con se stessa – e potrebbe essere accusata di tradimento.
Indipendenza e democrazia
L’analisi di Orban è questa: "Nel corso dell'ultimo decennio per sostenere i consumi i paesi occidentali si sono rifugiati nell'uso dell'indebitamento a scapito dei redditi da lavoro. Questa forma di indebitamento è diventata incontrollabile, soprattutto quando lo stato l’ha utilizzata per finanziare il suo sistema di prestazioni sociali". Questa mezza verità è espressione di un modello neoconservatore che in teoria il premier dovrebbe avversare.Il governo insiste nel voler distruggere il sistema di contributi sociali e continua il suo attacco contro ogni forma di sovvenzione. A lui si deve la soppressione dei sussidi di disoccupazione, la riduzione delle pensioni, la demolizione del sistema sanitario e il ripristino del sistema sanitario privato. Un attacco ancora più radicale di quello dei suoi predecessori neoliberisti [il governo di sinistra di Ferenc Gyurcsany], che avevano dovuto fare i conti con i sindacati all'epoca sostenuti da Orban. La differenza fra il governo e l'Ue-Fmi non è poi così grande.
Da un punto di vista più generale il dilemma è il seguente: bisogna difendere l'indipendenza nazionale quando la sovranità di un popolo è in crisi e quando i diritti fondamentali sono messi in discussione? Una premessa fondamentale per la restaurazione dell'indipendenza nazionale è il ripristino del regime democratico. Il rinnovamento della democrazia, che a mio parere può venire solo da nuove forze politiche provenienti dalla società civile, non deve essere messo in pericolo da considerazioni temporanee di carattere tattico.
Finché non sarà realizzata una democrazia europea di tipo federale, l'indipendenza sarà la nostra ultima protezione. E’ l’elemento che ci permette di consolidare e reinventare la sovranità del popolo. E’ inquietante che il popolo ungherese non abbia alleati forti né all'interno né all'esterno. Di conseguenza è ancora più importante che gli amici del popolo siano fedeli e coerenti.
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