involuzione

involuzione
Poche cose abbiamo imparato dalla storia all'infuori di questa: che le idee si condensano in un sistema di ortodossia, i poteri in una forma gerarchica e che ciò che può ridare vita al corpo sociale irrigidito è soltanto l'alito della libertà, con la quale intendo quella irrequietezza dello spirito, quell'insofferenza dell'ordine stabilito, quell'aborrimento di ogni conformismo che richiede spregiudicatezza mentale ed energia di carattere.
Io sono convinto che se non avessimo imparato dal marxismo a vedere la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati. O avremmo cercato riparo nell'isola della nostra interiorità o ci saremmo messi al servizio dei vecchi padroni. Ma tra coloro che si sono salvati, solo alcuni hanno tratto in salvo un piccolo bagaglio dove, prima di buttarsi in mare, avevano deposto, per custodirli, i frutti più sani della tradizione intellettuale europea: l'inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose.
Norberto Bobbio

lunedì 30 gennaio 2012

Tremonti tardo no-global


“Una volta il pronunciamiento lo facevano i militari – così scrive Giulio Tremonti nel suo ultimo libro “Uscita di sicurezza” - Occupavano la radio-tv, imponevano il coprifuoco di notte eccetera. Oggi, in versione postmoderna, lo si fa con l’argomento della tenuta sistemica dell’euro (…) lo si fa condizionando e commissariando governi e parlamenti (…) Ed è la finanza a farlo, il pronunciamiento , imponendo il proprio governo, fatto quasi sempre da gente con la sua stessa uniforme, da tecnocrati apostoli cultori delle loro utopie, convinti ancora del dogma monetarista; ingegneri applicati all'economia, come era nel Politburo prima del crollo; replicanti totalitaristi alla Saint-Simon”.
Viviamo dunque in un periodo a rischio per la democrazia, che non è minacciata dai militari, bensì dai banchieri, tecnici e funzionari del capitale finanziario cosmopolita. Ma non è la prima volta che Tremonti elabora un’interpretazione, come dire, “tardo no-global” dei processi di crisi che investono il mondo capitalistico, cioè una versione critica (più da “destra” che da “sinistra”, con tutte le ambiguità e gli equivoci che ormai accompagnano tali categorie ideologiche) contro la globalizzazione ultra-liberista.
Dopo il fallimento di Lehman Brothers, Tremonti affermò che “un mondo era finito” con “la globalizzazione finanziata dal debito”. Ed aggiunse che bisognava “fare nuove regole e le regole devono farle i governi e le autorità vietando i paradisi fiscali e i bilanci falsi delle aziende. Le crisi finiscono prima o poi e alla fine di questa turbolenza l’Italia sarà più forte di prima e più forte degli altri”. Ma rammento altre sue dichiarazioni che avrebbero potuto incontrare i consensi di Casarini e compagni, comprese le mie simpatie, se non fosse stato per la conoscenza dell’autore, vale a dire il super ministro dell’economia del precedente governo Berlusconi. E visto che si tratta di un personaggio di alto profilo e di enorme potere, non sono mancate le occasioni politiche in cui a certi discorsi Tremonti avrebbe potuto far seguire almeno un gesto concreto di coerenza. Né avrebbe mai potuto farlo, come si può facilmente immaginare.
Tuttavia, ciò non muta la sostanza delle cose, né impedisce di concordare con Tremonti nel momento in cui analizza criticamente le dinamiche del capitalismo finanziario dall’interno, un mondo che ben conosce e frequenta. Ma più che un teorico del mercatismo selvaggio, di cui pure è stato in passato un promotore dichiarato, oggi Tremonti si professa (ed è) un appassionato e convinto fautore del protezionismo. Lo stesso mutuato dalla Lega, ma spiegato meglio. Il fatto è che per argomentarlo Tremonti deve ricorrere a fatti che svelano i contenuti delle manovre finanziarie e le tendenze autocratiche del capitalismo finanziario. Analizzata dall’interno tale realtà risulta molto più inquietante di quanto si possa supporre. E’ forse questa la chiave interpretativa per provare a comprendere le contraddizioni di Tremonti. Che sono esattamente le stesse che emergevano dalle pagine del suo precedente libro, “La paura e la speranza”.
Probabilmente si potrebbe apprezzare Tremonti come intellettuale se avesse avuto mano libera e non fosse stato un “burattino” come molti politici d’oggi. In tal senso Tremonti non si distanzia molto da una tradizione ideologica “di destra” che identifica nel mercato un fattore disgregante e che oggi, in netto (e colpevole) ritardo rispetto al movimento “no-global”, denuncia le promesse tradite dalla globalizzazione neoliberista.
Lucio Garofalo
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