“Le
persone prima dei profitti”. Dietro a uno striscione con questa frase
sabato scorso migliaia di persone hanno sfilato a Roma per manifestare
contro il Ttip. L’acronimo inglese sta per “Transatlantic trade and
investment partnership”, il Trattato transatlantico sul commercio e gli
investimenti che da tre anni è al centro di un negoziato in larga parte
segreto fra Unione europea e Stati Uniti.
L’accordo “calpesta i
diritti dei lavoratori e mette a rischio la qualità dei prodotti - ha
detto durante la manifestazione Susanna Camusso, numero uno della Cgil –
e se non si arriverà alla firma sarà una vittoria”. Il ministro delle
politiche agricole, Maurizio Martina, ha risposto che “l’Italia non
rinuncerà mai ai suoi standard di sicurezza alimentare per fare un
accordo commerciale”.
Le rassicurazioni e la cautela del governo
italiano, fin qui favorevole al trattato tanto voluto da Barack Obama,
arrivano dopo la netta marcia indietro della Francia: “Allo stato
attuale del confronto - ha detto la settimana scorsa il presidente
François Hollande - diciamo no all’intesa, perché non siamo per un
sistema di libero scambio senza regole. Non accetteremo mai che vengano
messi in discussione i principi essenziali della nostra agricoltura e
della nostra cultura. E che non ci sia una totale reciprocità
nell’accesso agli appalti pubblici”. Con queste parole il capo
dell’Eliseo spera evidentemente di acquisire consenso in vista delle
presidenziali di maggio 2017.
E come in Francia, anche in
Germania l’anno prossimo sarà importante dal punto di vista elettorale.
Non a caso, benché Angela Merkel sia ufficialmente favorevole al Ttip,
nei giorni scorsi il leader socialdemocratico Sigmar Gabriel - numero
due del Governo e ministro dell’Economia - ha detto che “se gli Stati
Uniti non vogliono aprire davvero il loro mercato, noi non abbiamo alcun
bisogno di questo accordo commerciale”. Lo scorso ottobre, a Berlino,
contro il Ttip scesero in piazza ben 250mila persone.
Quanto agli
Stati Uniti, Donald Trump, a un passo dalla nomination repubblicana per
la Casa Bianca, ha già dichiarato tutta la sua ostilità per il progetto
di accordo transatlantico e perfino la sua omologa sul versante
democratico, Hillary Clinton, sembra meno convinta che in passato.
Insomma,
il clima internazionale intorno al Ttip è cambiato. Nato per favorire
gli affari delle multinazionali (soprattutto americane), il trattato si
sta trasformando a poco a poco in uno strumento di politica interna, uno
spauracchio contro cui agitare il vessillo del protezionismo per
stimolare l’orgoglio e l’approvazione degli elettori. Proprio per
evitare il rischio di questa metamorfosi, l’amministrazione Obama
avrebbe voluto chiudere il negoziato entro il 2015, ma le trattative si
sono allungate e a questo punto una chiusura in tempi brevi sembra
davvero improbabile.
Del resto, l’impopolarità del Ttip non fa
che aumentare con il passare del tempo. Le critiche contro il trattato
che dovrebbe creare l’area di libero scambio più grande del pianeta
(oltre 800 milioni di persone coinvolte) sono diverse. La polemica più
nota è quella contro la clausola Isds (Investor-State Dispute
Settlement), che consentirebbe alle multinazionali di fare causa ai
singoli Paesi davanti a una corte arbitrale per contrastare le leggi
(comprese quelle in materia sanitaria o ambientale) potenzialmente
dannose per i loro profitti. Nel 2010 e nel 2011, ad esempio, Philip
Morris ha portato in tribunale l’Uruguay e l’Australia per le loro
campagne anti-fumo, mentre nel 2009 il gruppo svedese Vattenfall ha
intentato una causa da 1,4 miliardi di euro contro il governo tedesco
per la sua decisione di abbandonare l’energia nucleare.
Secondo i
critici, inoltre, il Ttip metterebbe a rischio servizi pubblici e
welfare, favorendone la privatizzazione, e affosserebbe le piccole e
medie imprese, che si ritroverebbero disarmate di fronte alla
concorrenza delle multinazionali. Dal punto di vista dei consumatori,
invece, il pericolo è legato al fatto che negli Usa per una serie di
prodotti non vale il principio di precauzione che vige in Europa a
tutela della salute dell’ambiente, ovvero in America la valutazione dei
rischi non avviene prima dell’immissione sul mercato. Questo potrebbe
avere conseguenze sulla diffusione nell’Ue di Ogm, carne trattata con
ormoni, pesticidi e altro ancora.
All’inizio di maggio Greenpeace
Olanda ha pubblicato 240 pagine di documenti segreti interni al
negoziato che dimostrano proprio quanto sia agguerrita la battaglia
degli Usa contro il principio di precauzione europeo.
L’obiettivo
è consentire la vendita nei Paesi Ue di quei prodotti americani che non
rispettano le norme europee in tema di salute, ambiente e protezione
dei consumatori. In particolare, per convincere Bruxelles ad allentare
le maglie sull’importazione di prodotti agricoli e alimentari made in
Usa, Washington avrebbe minacciato di bloccare le facilitazioni sulle
esportazioni per l’industria automobilistica europea.
Altri punti di dissidio riguardano il mercato dei cosmetici (gli
americani fanno pressing contro le norme europee che vietano la
sperimentazione sugli animali), le regole di standardizzazione tecnica,
dei servizi finanziari e degli appalti pubblici.
È evidente
perciò che gli interessi al centro del negoziato sul Ttip sono
esclusivamente quelli delle grandi aziende, in particolare statunitensi,
che puntano a migliorare il fatturato aggirando le regole soprattutto
in materia ambientale e sanitaria. Il nuovo clima di ripensamento sui
termini dell’accordo è legato essenzialmente a ragioni elettorali dei
singoli Paesi e fin qui ha permesso di rinviare la firma, ma purtroppo
questo non significa che il progetto sarà abbandonato. Come in tutti i
balletti che si rispettino, ogni momento è buono per una nuova piroetta.
di Carlo Musilli