Essere
nero negli Stati Uniti d’America è abbastanza per essere considerato
“non-USAmericano”, ma essere nero e musulmano equivale a
“anti-USAmericano.
“Obama
si era recato al Cairo come “inviato di un impero” che cercava di
rendere universale la potenza usamericana, mentre Malcolm X era andato
lì per “internazionalizzare le lotte per la libertà dei neri
Afro-americani con le lotte dei neri del terzo mondo, tutti vittime
dell’imperialismo”
Con Guantanamo ancora aperta, droni che continuano ad uccidere, e
un sentimento anti-musulmano come brontolio di sottofondo dell’Impero,
le elezioni presidenziali negli Stati Uniti hanno ancora una volta
sollevato lo spettro dell’Islam e del terzo mondo musulmano come
minaccia alla sicurezza nazionale degli USA e ai loro interessi. E con Obama, uno dei due candidati in corsa, la questione della “negritudine” entra in campo come l’elefante nella cristalleria.
Mentre molti pretendono ancora una volta di stigmatizzare Obama
come “Musulmano segreto” e come il “Candidato arabo” del 21° secolo,
altri imputano alla sua negritudine il tentativo di riplasmare
l’immagine dell’America e di contribuire a promuovere gli interessi
degli Stati Uniti nel terzo mondo musulmano attraverso una nuova e
benevolente maschera di facciata “post –razziale”.
Ma, come di recente ho esposto dettagliatamente in un mio libro,
queste relazioni e vicende tra negritudine, Islam e terzo mondo
musulmano non sono una novità negli Stati Uniti.
In realtà, è Malcolm X che è arrivato a definire
convergenti queste storie, ed è la sua eredità che per molti versi sta
causando tanta inquietudine nazionale negli Stati Uniti
post-11/settembre, con un presidente nero il cui secondo nome è Hussein.
Essere nero negli Stati Uniti d’America è abbastanza per essere
considerato “non-USAmericano”, ma essere nero e musulmano equivale a
“anti-USAmericano”.
Mentre “la campagna diffamatoria” contro Obama come musulmano, nel
clima post-11/settembre, veniva ispirata dalla minaccia rappresentata da
quella entità chiamata “al-Qaeda”, la negritudine di Obama e una sua
possibile “vicinanza” all’Islam generano davvero una più profonda
preoccupazione, che si va a collocare sulla scia di quell’inquietudine
generata da Malcolm X, che lanciava la sfida alle autorità statunitensi
non solo per le vicende di un passato avverso ai neri, ma anche per un
futuro “nero”, appellandosi alla gente di colore perché considerasse se
stessa non come una minoranza nazionale, ma come una maggioranza
globale.
Per Malcolm X, “l’Islam rappresenta la più grande forza unificante
del Mondo Nero”, con la Mecca come centro spirituale; e il terzo mondo
musulmano, con le sue lotte contro il colonialismo in Egitto, Algeria,
Palestina, Iraq e altrove, aveva avuto un impatto determinante sulla sua
vita e sulla sua visione politica.
Ma per Malcolm X, uno non aveva bisogno di essere un musulmano. Ciò
che era importante era il riconoscimento di una propria realtà razziale
a fronte di una sofferenza secolare provocata dalla supremazia bianca
intesa come fenomeno globale, e di conseguenza era importante collegare
le lotte nere con quelle del terzo mondo. Tuttavia, vi è stata una
persistente richiesta di contenere e addirittura azzerare la possibilità
di un internazionalismo nero negli Stati Uniti.
In adempimento alla tradizione per i diritti civili, la presidenza
Obama ha simbolicamente asserito che non solo le persone di colore
devono puntare su questo paese, ma che questo sentimento è reciproco –
quindi Obama nel suo ruolo di “leader del mondo libero” cerca di
coniugare l’identità nera con gli Stati Uniti, la sua potenza e il suo
destino.
Nel 2009, al Cairo, Obama ha cercato di catturare entusiasmi per la
sua elezione durante il suo intervento molto pubblicizzato, dal titolo “A New Beginning – Un nuovo inizio”, che avrebbe dovuto segnalare un deciso discostarsi dal militarismo polarizzante del regime di Bush II.
Ma anche Malcolm X aveva parlato al Cairo, e nel 1964 si era
rivolto ad una assemblea di capi di Stato presso l’Organizzazione per
l’Unità Africana.
Obama si era recato al Cairo come “inviato di un impero” che
cercava di rendere universale la potenza usamericana, mentre Malcolm X
era andato lì per “internazionalizzare le lotte per la libertà dei neri
Afro-americani con le lotte dei neri del terzo mondo, tutti vittime
dell’imperialismo”.
Al Cairo, Malcolm implorava i capi di Stato di non farsi ingannare
dal “lupo imperialista” degli Stati Uniti o dai tentativi del
Dipartimento di Stato di usare la propaganda per convincere le nazioni
africane che gli Stati Uniti stavano facendo progressi seri verso
l’uguaglianza razziale, attraverso la sentenza “Brown v. Board” e
l’adozione di una legislazione di tutela dei diritti civili.
Come
Malcolm ribadiva, queste misure erano una “manovra propagandistica”, e
“non sono altro che trucchi della potenza alla guida del
neo-colonialismo del secolo”. Malcolm implorava l’assemblea ad ascoltare
il suo avvertimento: “Non fuggite dal colonialismo europeo, solo per
ridurvi ancora più schiavizzati da un “dollarismo” statunitense
ingannevolmente 'amichevole'.”
Nel sottolineare l’uso della propaganda e il sapere ben
amministrare all’estero la propria immagine da parte degli Stati Uniti,
Malcolm anticipava non solo come, dopo l’11/settembre, il Dipartimento
di Stato avrebbe posto i Musulmani in posizioni di alto profilo nel
campo delle arti e della politica per influenzare l’opinione pubblica
musulmana all’estero, ma anche come l’elezione di Obama e la retorica
della “diversità” sarebbero state sfruttate per ridefinire gli Stati
Uniti come inclusivi, “post-razziali” e progressisti, al fine di
mascherare l’entrata in trincea del potere bianco, in ambito domestico e
globalmente.
E nel collegare la politica razziale interna usamericana al ruolo
degli Stati Uniti come “potenza neo-coloniale” e all’emergere di un
“dollarismo usamericano”, Malcolm metteva a nudo come la questione
razziale fosse vincolata al colonialismo europeo e all’apparire degli
Stati Uniti come superpotenza globale. Mentre Obama si era recato in
Egitto, al Cairo, per cooptare questa città sacra e fornire un’immagine
caritatevole del potere americano, Malcolm era stato lì per strappare la
maschera di benevolenza e rivelare la verità nuda dell’ingiustizia
razziale degli Stati Uniti e delle loro ambizioni imperiali. È per
questo che l’eredità di Malcolm X è così importante, in quanto mette in
luce le dinamiche razziali che modellano il panorama globale di oggi,
sotto il potere degli Stati Uniti.
Terrore rosso, nero e verde
Nel periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale,
quando gli Stati Uniti hanno sostituito l’Europa come attore dominante
sulla scena del mondo, il presidente Truman dichiarava il comunismo
“nemico pubblico numero uno”, perfino vedendo nel comunismo una minaccia
più grande del colonialismo nei confronti del terzo mondo in fase di
decolonizzazione.
Per altro, gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa consideravano
che un terzo mondo liberato costituisse la più grande minaccia per
l’ordine post-bellico che gli Stati Uniti volevano dominare, in quanto
si sarebbe creato un vuoto di potere che avrebbe potuto essere riempito
dal comunismo.
La paura reale, come avevano ben afferrato Malcolm e altri, come
Lumumba, Fanon e Nkrumah, era che la liberazione e l’indipendenza della
maggior parte del mondo avrebbero avuto il potenziale di radicalmente
ridistribuire il potere e la ricchezza globale, lontano dal mondo dei
bianchi.
Per contrasto, gli Stati Uniti espandevano la propria impronta
imperiale sul terzo mondo e diffondevano la logica del razzismo
coloniale, utilizzando l’“anti-comunismo” come mezzo per giustificare i
loro interventi, il sostegno dei dittatori, il rovesciamento dei leader
democraticamente eletti, gli omicidi e la destabilizzazione in tutto il
terzo mondo (di testimonianza: Mossadeq, Arbenz, Lumumba e tanti altri).
Di conseguenza, la politica estera degli Stati Uniti utilizzava
l’“anti-comunismo” come agente per procura nella corsa per insidiare la
decolonizzazione del terzo mondo.
Malcolm balzava fuori da questo crogiolo della Guerra Fredda, in
cui gli attivisti dei diritti civili abbracciavano un’identità americana
e sostenevano che la “violenza di Jim Crow” era un tallone di Achille,
che arrecava pregiudizio alle ambizioni globali degli Stati Uniti verso
un terzo mondo già ostile alla supremazia bianca.
Malcolm era profondamente critico nei confronti di tutte le
organizzazioni a favore dei diritti civili, che cercavano di
addomesticare la lotta dei neri all’interno della struttura sociale
degli Stati Uniti e sostenevano la logica dell’“anti-comunismo”. Per
Malcolm e gli altri, la struttura organizzativa in favore dei diritti
civili in ambito nazionale, non comprendendo la natura globale della
supremazia bianca, non mirava ad ottenere conquiste contro le
discriminazioni razziali.
Invece di collegare i loro destini a quelli del terzo mondo in fase
di decolonizzazione, annullando il sistema del potere bianco, i
mandatari per i diritti civili mascheravano il potere bianco attraverso
un atteggiamento riformista nazionale, facilitando al tempo stesso il
radicamento aggressivo del potere bianco in tutto il mondo, assumendo la
logica incrinata dell’“anti-comunismo”.
Nel 1964, Malcolm X nel suo tanto vituperato discorso “The Ballot or the Bullet
- La scheda (di votazione) o la pallottola” contestava le istituzioni
in favore dei diritti civili, affermando l’inutilità del voto nero come
mezzo per conquistare la parità negli Stati Uniti.
Invece, sosteneva che il popolo nero aveva bisogno di
internazionalizzare le sue lotte, collegandole alle lotte che si stavano
svolgendo in tutto il terzo mondo dell’Africa, Asia e America Latina.
Così Malcolm affermava: “Non portate i vostri casi davanti alle
corti criminali, portate i criminali davanti alle vostre corti!”.
Per Malcolm X, il passaggio da “diritti civili” a “diritti umani”
avrebbe presentato la condizione dei popoli neri negli Stati Uniti ad un
forum più ampio, che avrebbe costretto gli Stati Uniti a sottoporsi ad
un esame critico e alla sfida del terzo mondo, e che avrebbe potuto far
pendere la bilancia del potere in favore delle nazioni nere, in quanto
avrebbe rivelato le ipocrisie degli Stati Uniti, compromesso gli
obiettivi di politica estera di questo paese nei confronti del terzo
mondo, e rivelato il diffondersi all’interno degli Stati Uniti del
razzismo coloniale di stampo europeo.
Come parte del suo internazionalismo radicale, e in profondo
contrasto con le istituzioni dei diritti civili, Malcolm sosteneva le
lotte dei Palestinesi contro il sionismo, paragonava i ghetti di Harlem
sottoposti a segregazione razzista alla Casbah di Algeri sotto il
dominio coloniale francese, esaltava le prese di posizione di Nasser
contro Inghilterra, Francia e Israele, celebrava la Conferenza di
Bandung e la considerava come un modello per l’unificazione della
politica culturale nera durante la Guerra Fredda, appoggiava la
ribellione dei Mau Mau contro il colonialismo britannico e quella dei
Vietnamiti contro la dominazione francese, incontrava Fidel Castro,
lodava Lumumba come “il più grande Nero che abbia mai calpestato il
continente africano”, e come Fanon, dava una giustificazione etica alla
possibilità di lotta armata, fondamentalmente sfidando l’opinione
generale all’epoca della Guerra Fredda.
Il post 11/settembre, ora
Nell’epoca di iper-nazionalismo seguita all’11/settembre, che ha
alimentato la guerra degli Stati Uniti contro il terzo mondo musulmano,
l’eredità di resistenza lasciataci da Malcolm, con l’associazione
dell’internazionalismo nero alle politiche del terzo mondo musulmano, ci
fornisce un programma per sfidare il consenso all’ideologia imperiale
che ha caratterizzato l’era post-11/settembre.
Proprio come l’“anti-comunismo” costituiva un pretesto per azioni
razziali durante la Guerra Fredda, così l’“anti-terrorismo” è diventato
il nuovo pretesto per azioni razziali e per il nuovo radicamento della
supremazia bianca, a giustificazione dell’intervento degli Stati Uniti
all’estero, mentre anche il dissenso interno viene represso, e la
categoria…logica di “terrorismo” viene utilizzata per determinare chi è
un cittadino e chi è un nemico, chi è umano e chi non lo è, e chi deve
essere ucciso e chi ha il permesso di vivere.
Forgiatasi nell’era della Guerra Fredda, l’eredità di Malcolm può
sfidare e contrastare l’accettazione da parte di organizzazioni sociali
minoritarie (comprese le musulmane) della retorica del “terrorismo”,
riconoscendone le sue radici da codificarsi razziali, e facendo assumere
consapevolezza come l’“anti-terrorismo” venga utilizzato dagli organi
di polizia contro il dissenso interno, ma anche per consentire la
violenta espansione dell’impero degli Stati Uniti.
Non bisogna stare al gioco della logica dell’“anti-terrorismo” che
tende a distinguere fra Musulmani “moderati” e “radicali”, altrimenti
non si riesce a dare dignità alle sfide alla potenza degli Stati Uniti
in tutto il mondo.
Mentre molti attivisti, artisti, studiosi e organizzazioni stanno
infondendo le idee di Malcolm nel loro lavoro, è importante che le
comunità nere e musulmane, così come le altre comunità di colore,
continuino a sottolineare le profonde connessioni internazionaliste che
Malcolm ha prodotto.
Il collegamento di queste lotte non corrisponde ad una visione romantica della solidarietà.
È il radicamento di una comprensione più profonda di quanto nella
realtà siano strettamente connesse queste forze impetuose. Ed è la presa
di coscienza che la persistenza del razzismo qui negli Stati Uniti è
dovuta al fatto che la supremazia bianca è profondamente intrecciata con
le stesse strutture di governo degli Stati Uniti, e perpetuamente
prende respiro dal quotidiano procedere degli Stati Uniti nella
conduzione dei loro affari, interni o esteri.
È il riconoscimento che la logica della carcerazione di massa negli
Stati Uniti, che ha distrutto la possibilità politica dei neri e ha
represso il dissenso e i movimenti di rivolta attraverso gli organi
locali di polizia e di contro-insurrezione, è anche ciò che guida
l’esercito americano e le sue carcerazioni imperialiste ad Abu Ghraib,
Guantanamo, Bagram e in altri posti. È il riconoscimento che la
condizione dei migranti attraverso il confine pesantemente militarizzato
fra Stati Uniti e Messico è del tutto paragonabile alla condizione che
vede represse e distrutte le vite dei Palestinesi.
Ed è il riconoscimento che le politiche economiche neoliberiste,
che hanno distrutto il salario sociale e hanno assistito all’emergere di
uno stato di guerra permanente negli Stati Uniti, sono profondamente
radicate nello sfruttamento del terzo mondo attraverso il capitale
finanziario globale e la guerra.
Manifestare l’anti-razzismo solo in sede nazionale, e non
considerare la supremazia bianca come un problema globale, o muovere
solo tiepide critiche alla politica estera degli Stati Uniti, alle loro
tattiche e strategie, e non criticare le loro condizioni sociali
fondamentalmente razziste, suona a vuoto falsamente e fa perdere di
vista l’obiettivo. Perché non fa riconoscere che la supremazia bianca è
radicata nella struttura stessa delle relazioni globali che gli Stati
Uniti hanno contribuito a porre in essere - un insieme di relazioni in
cui diplomazia, traffici, manovre politiche, guerra e questioni di
sovranità entrano in gioco in un campo decisamente dissestato, in cui
Stati Uniti ed Europa esercitano un’influenza diplomatica opprimente, un
potere politico e militare brutale.
Ignorare tutto ciò comporta l’adesione alle peggiori forme di
internazionalismo liberista, che presuppongono gli Stati Uniti essere
una “forza del bene” nel mondo, e si reitera la medesima questione che
Malcolm X eroicamente ha combattuto, e per cui alla fine è stato ucciso.
Anche se le pallottole alla fine lo hanno abbattuto, Malcolm ha
lasciato un’impronta indelebile sulle generazioni di artisti e
attivisti. Ma la sua eredità è sotto attacco, e si tenta di cancellarla
del tutto quando la presidenza Obama, con la sua narrazione
trionfalistica sui diritti civili, mira a rendere le spinte propulsive
internazionaliste dei popoli di colore irrilevanti e obsolete.
Mentre ci sono coloro che sostengono che il voto per Obama è
l’unica cosa pragmatica da fare, e che votare per una terza parte
politica (non democratica, né repubblicana) o non votare è
un’opzione del tutto “impraticabile” e “sbagliata”, Malcolm potrebbe
rovesciare la questione e chiedere quanto “positivo” sia votare per uno
dei due principali partiti, quando le forze violente che li determinano
sono così intrattabili e resistenti ad ogni cambiamento, tanto meno ad
una profonda trasformazione?
E quando ci si confronta con tali forze, tenendo ben presenti alla
mente tutti coloro che in passato hanno tentato tanto valorosamente di
contrastare queste forze, è praticabile continuare ad investire e ad
impegnarsi in questo processo e aspettarsi qualcosa di diverso? A ben
vedere, tutto ciò non risulta “impraticabile” e il percorso non
pertinente?
Note del traduttore su personaggi ed eventi citati nel documento:
Malcolm X, pseudonimo
di Malcolm Little, (Omaha, 1925 – New York, 1965), è stato un attivista
statunitense a favore dei diritti degli Afro-americani e dei “diritti
umani” in genere.
Figlio di un predicatore negro, dopo
avere aderito al movimento dei “Musulmani neri” ne uscì nel 1964 in
seguito ai contrasti sorti sulla linea separatista del movimento e formò
l’Organizzazione per l’unità afro-americana, ispirata ad una linea di
nazionalismo negro e di solidarietà con tutti i popoli oppressi non di
razza bianca.
Malcolm X teorizzava il ricorso
all’autodifesa armata in nome dei “diritti umani”, che si collocano al
di sopra dei “diritti civili”.
Fu assassinato durante un comizio a
New York il primo giorno della Settimana Nazionale della Fratellanza per
mano di membri dell’organizzazione di cui era stato portavoce, la
Nation of Islam.
È considerato uno dei più grandi, ma
anche controversi, capifila afro-americani del XX secolo. Alla fine di
una lunga evoluzione del suo pensiero, sostenne che la religione
islamica fosse capace di abbattere ogni barriera razziale e ogni forma
di discriminazione.
Sohail Daulatzai
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Tradotto da Curzio Bettio |
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