di Mariavittoria Orsolato
Per potersi chiamare No Tav non è necessario essere valsusini e il corteo che sabato ha sfilato da Bussoleno a Susa lo ha dimostrato a pieno. Una manifestazione imponente, forse la più grande mai vista tra quelle meravigliose montagne. Quasi centomila persone strette in un abbraccio simbolico e caldissimo ai 26 arrestati dal mese scorso, caduti sotto la scure del teorema Caselli che vuole dividere il movimento No Tav in buoni e cattivi.
Ci hanno provato anche sabato sera alla stazione di Torino Porta Nuova, dove un gruppo di manifestanti venuto da Milano ha trovato ad aspettarli al binario una delegazione del questore Spartaco Mortola - uno dei protagonisti della macelleria messicana Diaz - in tenuta antisommossa.
In chiaro atteggiamento intimidatorio, gli uomini della questura torinese volevano identificare uno ad uno i partecipanti alla manifestazione (pur non avendone alcun motivo) e, al costituzionale rifiuto dei ragazzi, sono partiti a caricare a freddo arrivando addirittura a lanciare fumogeni dentro i vagoni del treno.
Non è quindi possibile interpretare quanto successo sabato sera a Porta Nuova se non come l'ennesimo assist - gentilmente offerto dalla polizia - per deviare l'attenzione sulle ragioni e la partecipazione della resistenza che da oltre vent'anni contrappone la Val Susa al progetto dell'Alta Velocità e in generale alla negazione dei diritti di cittadinanza.
Perché, è sempre bene ricordarlo, il movimento No Tav è una lotta contro la devastazione del patrimonio naturale, contro lo svilimento della democrazia, contro lo sperpero di soldi pubblici e contro quelle stesse infiltrazioni mafiose che il procuratore Caselli si vanta di combattere da una vita. Ma evidentemente, per le forze dell'ordine e per certa stampa con la bava alla bocca, una manifestazione No Tav senza spargimento di sangue non ha ragione d'essere.
Perciò parliamo d'altro. Parliamo di come questo 25 febbraio abbia rappresentato per tutti soprattutto un momento di speranza, la riprova che, se uniti, esiste una chance contro il baratro incipiente in cui questo paese si sta ficcando. Percorrendo l'interminabile serpentone che ha attraversato il cuore della valle la prima parola che ti saltava alla mente era “solidarietà”. Quella per gli attivisti ingiustamente incarcerati ma anche quella umana, quella che in un presente di privazioni può rappresentare sia un appiglio che uno scudo. Nel partecipatissimo corteo di sabato l'orizzontalità era palpabile, a volte addirittura straniante, se si pensa che c'erano i comitati cattolici e subito dietro gli anarchici del FAI, che c'erano gli autonomi a sostenere gli amministratori delle comunità valligiane e montane.
Perché non è una questione di distinguo politici, fascismo escluso ovviamente. Chi si occupa della TAV sa perfettamente che la lotta valsusina è diventata un simbolo ed un esempio per molti territori e molte realtà antagoniste in giro per l'Italia, dalle mamme antidiscarica agli attivisti anticemento, dagli studenti alla disperata ricerca di un futuro ai moltissimi che vedono nel nuovo corso targato BCE un depauperamento generalizzato e privo di logica. Senza ombra di dubbio quella contro l'Alta Velocità è stata ed è la prima grande battaglia che ha messo a nudo l'assurdità della "crescita" ad ogni costo e i costi sociali ad essa legati.
Fino a qualche anno fa, si trattava di un "noi contro di voi", i montanari contro la Polizia, anzi contro chi la manda. In seguito è arrivato qualcuno "da fuori", ed è stato facile dipingerlo come il black block che va in valle a far casino. Oggi, è ormai impossibile far passare decine di migliaia di persone come un esodo di anarcoinsurrezionalisti in gita di piacere. E questo, se da un lato spaventa i nostri governanti, dall'altro ha l'incredibile forza evocativa necessaria a elaborare soluzioni diverse per l'uscita dalla crisi che ci sta stritolando.
Sabato il movimento No Tav ha deciso di contarsi e, dopo aver praticato nei mesi scorsi il conflitto e l’azione diretta, tastare il polso dei suoi sostenitori. E ha prodotto la più grande manifestazione che la valle ricordi, ma anche la più grande mobilitazione politica che questo paese abbia visto in questi anni recenti. Pablo Neruda, in uno dei suoi scritti, affermava: "La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose, il coraggio per cambiarle".
E i No Tav sono riusciti a fare di questo aforisma una splendida realtà, mobilitando un'intera comunità umana, non solo una comunità territoriale. Hanno saputo soprattutto difendere tutti gli arrestati, rivendicando ogni azione e non cedendo al binomio manicheo violenza/nonviolenza.
Perché è pacifico che nel nostro Paese - e la recente sentenza Mills lo dimostra a dovere - troppo spesso la legalità non coincide con la giustizia e i No Tav lo sanno benissimo. Tutti gli arrestati o inquisiti sono parte integrante di questa comunità allargata e tutta la comunità ha gridato che lo scorso 3 di luglio a tagliare le reti e difendersi dai lacrimogeni CS non c'erano solo quei 26 ora in carcere ma le mani di tutti. E sabato erano quasi centomila.
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Per potersi chiamare No Tav non è necessario essere valsusini e il corteo che sabato ha sfilato da Bussoleno a Susa lo ha dimostrato a pieno. Una manifestazione imponente, forse la più grande mai vista tra quelle meravigliose montagne. Quasi centomila persone strette in un abbraccio simbolico e caldissimo ai 26 arrestati dal mese scorso, caduti sotto la scure del teorema Caselli che vuole dividere il movimento No Tav in buoni e cattivi.
Ci hanno provato anche sabato sera alla stazione di Torino Porta Nuova, dove un gruppo di manifestanti venuto da Milano ha trovato ad aspettarli al binario una delegazione del questore Spartaco Mortola - uno dei protagonisti della macelleria messicana Diaz - in tenuta antisommossa.
In chiaro atteggiamento intimidatorio, gli uomini della questura torinese volevano identificare uno ad uno i partecipanti alla manifestazione (pur non avendone alcun motivo) e, al costituzionale rifiuto dei ragazzi, sono partiti a caricare a freddo arrivando addirittura a lanciare fumogeni dentro i vagoni del treno.
Non è quindi possibile interpretare quanto successo sabato sera a Porta Nuova se non come l'ennesimo assist - gentilmente offerto dalla polizia - per deviare l'attenzione sulle ragioni e la partecipazione della resistenza che da oltre vent'anni contrappone la Val Susa al progetto dell'Alta Velocità e in generale alla negazione dei diritti di cittadinanza.
Perché, è sempre bene ricordarlo, il movimento No Tav è una lotta contro la devastazione del patrimonio naturale, contro lo svilimento della democrazia, contro lo sperpero di soldi pubblici e contro quelle stesse infiltrazioni mafiose che il procuratore Caselli si vanta di combattere da una vita. Ma evidentemente, per le forze dell'ordine e per certa stampa con la bava alla bocca, una manifestazione No Tav senza spargimento di sangue non ha ragione d'essere.
Perciò parliamo d'altro. Parliamo di come questo 25 febbraio abbia rappresentato per tutti soprattutto un momento di speranza, la riprova che, se uniti, esiste una chance contro il baratro incipiente in cui questo paese si sta ficcando. Percorrendo l'interminabile serpentone che ha attraversato il cuore della valle la prima parola che ti saltava alla mente era “solidarietà”. Quella per gli attivisti ingiustamente incarcerati ma anche quella umana, quella che in un presente di privazioni può rappresentare sia un appiglio che uno scudo. Nel partecipatissimo corteo di sabato l'orizzontalità era palpabile, a volte addirittura straniante, se si pensa che c'erano i comitati cattolici e subito dietro gli anarchici del FAI, che c'erano gli autonomi a sostenere gli amministratori delle comunità valligiane e montane.
Perché non è una questione di distinguo politici, fascismo escluso ovviamente. Chi si occupa della TAV sa perfettamente che la lotta valsusina è diventata un simbolo ed un esempio per molti territori e molte realtà antagoniste in giro per l'Italia, dalle mamme antidiscarica agli attivisti anticemento, dagli studenti alla disperata ricerca di un futuro ai moltissimi che vedono nel nuovo corso targato BCE un depauperamento generalizzato e privo di logica. Senza ombra di dubbio quella contro l'Alta Velocità è stata ed è la prima grande battaglia che ha messo a nudo l'assurdità della "crescita" ad ogni costo e i costi sociali ad essa legati.
Fino a qualche anno fa, si trattava di un "noi contro di voi", i montanari contro la Polizia, anzi contro chi la manda. In seguito è arrivato qualcuno "da fuori", ed è stato facile dipingerlo come il black block che va in valle a far casino. Oggi, è ormai impossibile far passare decine di migliaia di persone come un esodo di anarcoinsurrezionalisti in gita di piacere. E questo, se da un lato spaventa i nostri governanti, dall'altro ha l'incredibile forza evocativa necessaria a elaborare soluzioni diverse per l'uscita dalla crisi che ci sta stritolando.
Sabato il movimento No Tav ha deciso di contarsi e, dopo aver praticato nei mesi scorsi il conflitto e l’azione diretta, tastare il polso dei suoi sostenitori. E ha prodotto la più grande manifestazione che la valle ricordi, ma anche la più grande mobilitazione politica che questo paese abbia visto in questi anni recenti. Pablo Neruda, in uno dei suoi scritti, affermava: "La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose, il coraggio per cambiarle".
E i No Tav sono riusciti a fare di questo aforisma una splendida realtà, mobilitando un'intera comunità umana, non solo una comunità territoriale. Hanno saputo soprattutto difendere tutti gli arrestati, rivendicando ogni azione e non cedendo al binomio manicheo violenza/nonviolenza.
Perché è pacifico che nel nostro Paese - e la recente sentenza Mills lo dimostra a dovere - troppo spesso la legalità non coincide con la giustizia e i No Tav lo sanno benissimo. Tutti gli arrestati o inquisiti sono parte integrante di questa comunità allargata e tutta la comunità ha gridato che lo scorso 3 di luglio a tagliare le reti e difendersi dai lacrimogeni CS non c'erano solo quei 26 ora in carcere ma le mani di tutti. E sabato erano quasi centomila.
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