il Fatto Quotidiano, nato il 23 settembre 2009, rappresenta un fenomeno da studiare. In un contesto di pesante calo della diffusione dei quotidiani – legato alla crisi economica – questo giornale, nei suoi primi tre mesi di vita, ha avuto una media di vendite “tra edicole e abbonamenti (…) di oltre 108.000 copie”1.
Tale risultato è stato mantenuto “anche nei primi quattro mesi di quest’anno”. Un altro dato in controtendenza è la forte percentuale di lettori giovani: “ben il 14,2 per cento dei lettori hanno tra i 18 e i 24 anni e il 25,7 tra i 25 e i 34 anni”.
Alto è il livello di istruzione: “oltre il 90 per cento ha un diploma o una laurea”. In termini più generali, si può dire che “il lettore tipo è un uomo, risiede nel centro nord in un comune di oltre 250.000 abitanti e svolge una delle cosiddette professioni di concetto (studente/impiegato/quadro o dirigente)”. La maggior parte deii lettori è legata alle varie componenti del centrosinistra, “ma c’è una percentuale molto rilevante, cioè il 18,3 per cento” che non rivendica collocazioni precise.
Certo, sarebbero necessari ulteriori approfondimenti. Ad esempio, quante copie sono state sottratte a concorrenti più blasonati? La tipologia di lettori sopra descritta sembra coincidere con quel “ceto medio riflessivo” che ha fatto la fortuna di un quotidiano come la Repubblica. Un’altra questione si lega all’alta percentuale di lettori giovani, che induce a chiedersi per quanti il Fatto rappresenti il primo avvio al rapporto con un quotidiano.
Di sicuro, contribuiscono al successo giornalisti di prestigio come Furio Colombo o noti presso il pubblico televisivo come Marco Travaglio, che garantisce un articolo al giorno, sempre collocato in prima pagina. Il legame con il piccolo schermo è stretto, poiché con la trasmissione politica di maggior successo degli ultimi anni (Annozero) si condividono sia alcune firme, che il modo di impostare certi problemi.
In più, il quotidiano è vicino ad un vasto movimento d’opinione, il “popolo viola”, impegnato soprattutto nella lotta contro l’impunità di Berlusconi e di altri potenti. Si può ritenere che la concezione della democrazia espressa da questo movimento sia riduttiva, poiché pone in secondo piano questioni come l’estensione dei diritti sociali e la creazione di nuove forme di partecipazione collettiva alla cosa pubblica. Ma il Fatto la condivide senza riserve.
In ogni caso, nel panorama della carta stampata italiana, questo giornale non emerge solo per il suo spiccato interesse verso le malversazioni dei politici. L’angolo visuale dei quotidiani nostrani è in genere così ristretto, che ci vuole poco per dare l’idea di affrontare la realtà nelle sue molteplici sfaccettature.
Solo per fare un esempio: il 6 maggio, su il Fatto una intera pagina è dedicata al congresso Cgil, con un resoconto puntuale di Giampiero Calapà (Epifani: non siamo come la Grecia ma quasi) ed un articolo più analitico di Enrico Fierro (La frontiera del nord). Nelle due pagine sulla crisi greca, poi, una cronaca degli avvenimenti di piazza del giorno precedente (Morti d’economia), dovuta a Salvatore Cannavò2, restituisce alcune differenze interne al campo della protesta.
Basta parlare del più grande sindacato italiano senza limitarsi a riferire dei battibecchi a distanza tra Epifani ed i segretari di Uil e Cisl, o affrontare la protesta greca dimostrando di conoscerne gli attori politici, per distinguersi positivamente rispetto a tanti giornali.
Questioni di share
Grande è l’importanza che il quotidiano attribuisce alla televisione, in quanto strumento di manipolazione delle masse e come campo di battaglia dove si scontrano forze diverse.
La convinzione da cui si muove è che il successo di Berlusconi sia dovuto esclusivamente al suo dominio televisivo, che gli consente sia di creare un preciso immaginario, sia di restituire ciò che vuole della realtà a milioni di italiani, contribuendo all’involuzione del paese. Su questo piano si estremizza l’opinione prevalente nelle forze di opposizione.
I lettori – in osmosi con il quotidiano – sono del medesimo avviso. Lo testimonia, tra le altre, una lettera pubblicata il 28 febbraio 2010, a firma di Francesco Falco, un aspirante giornalista (“Lettera di un ragazzo al Tg1”). Vi si protesta perché si è fatta passare la prescrizione nei confronti del corrotto Mills per un’assoluzione: “Quello che non mi è stato possibile accettare (…) la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la Menzogna (…) Quella che, in nome del potere, fa sì che venga raccontata e giunga nelle case di milioni di italiani, una versione delle cose altra, che si sottrae al pur deprecabile esercizio di modulazione di un fatto (…) e rovescia il fatto medesimo”.
Nello stesso giorno, la quotidiana rubrica sui Tg (Tgpapi) curata da Paolo Ojetti ha un titolo infelice: “C’è il Cile (il viola no)”, legato alla circostanza per cui il devastante terremoto in quel paese ha oscurato una manifestazione del “popolo viola”. Commentando il Tg1 si parla del processo Mills e di come viene affrontato da Ghedini, che in casa di Minzolini si trova a suo agio (“ci fosse un giornalista, uno solo che abbia la forza di stopparlo, di portarlo a una parvenza di riflessione, di discussione”). Riferendosi al Tg2 ci si riscatta, in parte, dalla gaffe insita nel titolo, parlando di un “obbligatorio sviluppo del terremoto cileno”, ma poi ci si lamenta della mancata informazione (“né un’immagine né una citazione”) sulla manifestazione viola di Piazza del Popolo.
Ora, c’è da chiedersi: a parte la legittima recriminazione rispetto all’omissione della notizia del “viola day”, sul terremoto in Cile non c’era proprio nulla da rilevare? Ad esempio, i telegiornali, evidenziato quanto il disastro sia stato dovuto, più che alla furia della natura, a condizioni socio-abitative di estremo disagio? Problemi simili sembrano estranei ad Ojetti, che nella sua rubrica si concentra prevalentemente sulla questione giudiziaria, quasi che l’indipendenza dell’informazione si misuri sul terreno esclusivo delle cronache processuali.
Fin qui abbiamo parlato della televisione come luogo dell’omissione di notizie, ma cosa ci dice il Fatto su questo potente media come terreno di scontro?
Vediamo un articolo dal titolo esplicito: “23 a 13 per Santoro” (26 settembre 2009, a firma di Wanda Marra). Giubilando, vi si parla di una vittoria nella battaglia dello Share, riportata nei confronti del programma Porta a Porta: “(…) ben uno spettatore su 3, come accade solo nelle fiction più seguite, è rimasto incollato dall’inizio alla fine a Annozero. Una bella lezione per Berlusconi., Il monologo del Premier sull’Abruzzo aveva ottenuto il 13,47%, ma partiva (…) dalle medie di Rai1”.
Siamo di fronte all’espressione tipica di una mentalità. Il riferimento alla “bella lezione per Berlusconi” rimanda all’illusione che una vittoria negli ascolti televisivi sposti i rapporti di forza nel paese. L’idea di fondo, d’altronde, è quella, già accennata, secondo cui il motivo esclusivo della forza del Cavaliere sarebbe il suo monopolio televisivo. Ci si dimentica dell’essenziale. E’ vero, Berlusconi usa la tv per modificare la percezione della realtà e per creare un immaginario attraverso forme di comunicazione che vanno attentamente analizzate; ma omettere dei fatti non è sufficiente a garantirsi il consenso sociale ed un immaginario, per imporsi, ha bisogno anzitutto di soggetti sociali che siano disposti a farlo proprio. Dietro le vittorie elettorali del Cavaliere c’è un preciso blocco sociale che vede i propri interessi difesi dal Pdl e di conseguenza si riconosce nei “valori” che questo partito propugna. Dunque, è pronto ad accogliere l’immaginario modellato dalla tv berlusconiana. Questa situazione non può certo essere modificata dalle vittorie, negli ascolti televisivi, di qualche “program-ma amico”.
I graffi di un ribelle.
Se le priorità sono ribadite di continuo, il giornale è comunque attento ad offrire un ventaglio di punti di vista, accogliendo diversi battitori liberi. E’ il caso di Massimo Fini, un intellettuale che si è formato su grandi pensatori reazionari: Ezra Pound, Heidegger, Junger.
Un simile orientamento culturale può sorprendere, in un giornale che ha molti lettori nel “popolo della sinistra”, ma va detto che gran parte dell’intellettualità che un tempo di questo popolo era riferimento si è convertita all’esaltazione del libero mercato. Di conseguenza, un Fini può acquistare credibilità nel presentarsi come fiero anticonformista.
Prendiamo ad esempio un suo scritto del 20 aprile (“Perché faccio il tifo per il vulcano”), in cui si riferisce alla nube di cenere, proveniente dall’Islanda, che ha bloccato il trasporto aereo. Per Fini, la natura, oltre a ricordare all’uomo che “non è il padrone del mondo”, mette a nudo la fragilità del sistema integrato in cui viviamo. L’autore segnala che “il vulcano islandese esplose già, con la stessa violenza, due secoli fa ma nessuno se ne accorse (,,,) mentre oggi sta mandando in tilt l’intero pianeta”.
L’Occidente ha uniformato il mondo al suo modello e ciò comporta che quando vi è un problema in una qualsiasi località (nell’articolo viene citata pure la crisi greca), i suoi effetti si riverberano in ogni dove.
Quando questo sistema imploderà, si salverà chi ne è fuori, come quegli indigeni delle Andamane, che sono sopravvissuti allo tsunami perché “invece di affidarsi a ottusi strumenti tecnologici sanno ancora guardare il mare con occhio umano, ascoltarlo con orecchie umane, sentirlo con cuore umano”.
L’articolo rivela la capacità di Fini di condensare in poche righe un pensiero articolato, segnato dal rifiuto della società tecnologica e dal rimpianto nei confronti di epoche lontane.
I lettori coinvolti in lotte territoriali contro uno “Sviluppo” che favorisce pochi, leggeranno con piacere una provocazione come questa. Rimane il problema che il giornalista in questione, sconfinando nella misantropìa, nega a monte le possibilità di un’azione di massa.Tanto che nell’articolo i greci attuali, colpiti dalla crisi, sono definiti “stupidi come tutti gli uomini di oggi”. Negli scritti di Fini affiora un’oscillazione. Da un lato sembra che la critica alla società occidentale sia anche autocritica, perché rivolta ad un mondo di cui si fa parte. Dall’altro, emerge la tendenza a rappresentarsi come un ribelle, in un senso vagamente jungeriano3, come persona che, pur condannata alla sconfitta e ad una vita in minoranza, riesce a sottrarsi all’istupidimento ed ai processi di massificazione indotti dalla società tecnologica.
Fini gode di grande considerazione nel giornale: il 6 maggio una pagina intera era riservata all’uscita di una raccolta di suoi articoli4. Ma la visibilità e le qualità di scrittura dell’autore possono contribuire ad alimentare la confusione, ad esempio introducendo un elemento di idealizzazione del passato in discorsi – come quello ambientale – che invece dovrebbero rimandare alla critica della logica del profitto. E così, il quotidiano ci guadagna l’immagine di organo culturalmente plurale, senza che il suo impianto di fondo ne risulti smentito.
Il lavoratore nel “paese anormale”.
Su il Fatto le lotte dei lavoratori ricevono una certa attenzione. Tra le firme più quella di Beatrice Borromeo, giovane giornalista lanciata da Annozero, un programma che, rispetto agli standard televisivi, ha sempre dedicato un certo spazio al mondo del lavoro. Diverse puntate della trasmissione di Santoro sono partite da interviste ad operai impegnati nella difesa dell’occupazione, nel segno della critica ai datori di lavoro, rei di investire poco pur ricavando lauti profitti.
Bene, l’approccio de il Fatto è simile e gli articoli di Borromeo e di altri tendono a privilegiare quelle situazioni che più si prestano alla denuncia di un’imprenditoria che non si comporta come dovrebbe, presentando tratti anomali o addirittura banditeschi. In quest’ottica, è esemplificativo il brano seguente: “54 milioni di euro è la cifra cui ammontano i trattamenti di fine rapporto che Eutelia avrebbe dovuto pagare ai suoi lavoratori, se li avesse licenziati. Vendendo il ramo d’azienda Agile a Omega in cambio di un prezzo (…) simbolico, Eutelia ha evitato di pagare. La regia (…) è della banca Monte de’ Paschi di Siena: “Questo istituto- spiega Gianni Seccia della Fiom – è il principale creditore di Eutelia, che è esposta nei confronti di “Monte de’ Paschi, guarda che coincidenza, proprio per 54 milioni di euro” (Così Eutelia riesce a stanare Palazzo Chigi, 18 novembre 2009). Alla vicenda di Eutelia, che vede un complesso intreccio di interessi, con tanto di coinvolgimento dell’azienda di Berlusconi5, Borromeo ha dedicato una serie di articoli. Un buon lavoro, sul piano informativo, che però conferma la tendenza del quotidiano a vedere nell’operaio che si difende come può, magari occupando lo stabilimento, non un soggetto portatore di bisogni, bensì l’indicatore dei problemi di un paese dove regna il malaffare.
Che il Fatto non auspichi una ripresa del conflitto, lo chiarisce un editoriale del direttore Antonio Padellaro, uscito per la festa dei lavoratori (“A schiena dritta, 1 maggio 2010). In quel giorno, il titolo d’apertura del quotidiano ne conferma le ossessioni:“Nel paese dei furbi Scajola la fa franca”. Ma la festa dei lavoratori è richiamata nell’articolo di Padellaro e in un riquadro con un disegno di Giacomo Manzù (“Il nostro domani si chiama lavoro”). All’interno, il discorso sul mondo del lavoro è sviluppato in due pagine: si parte dall’iniziativa a Rosarno dei sindacati confederali, con un articolo di Enrico Fierro sulla condizione di un Meridione che ha bisogno di legalità (“Nuova fuga dal Sud, Un primo maggio da anni settanta”). Poi, ci sono due interviste: una ad un rosarnese illustre, il direttore della Scuola Normale, Salvatore Settis (“Basta genuflessioni. La sinistra offra un sogno”, realizzata da Giampiero Calapà), l’altra a Susanna Camusso della Cgil (“Mezzogiorno abbandonato, la Fiat rilanci Pomigliano”, a cura di Salvatore Cannavò).
Il taglio meridionalista permette di associare i temi del lavoro ad altre emergenze tipiche della parte più disagiata del paese ed è ripreso da Padellaro nel suo editoriale, che ricorda due dirigenti comunisti. Uno, Valarioti6, vittima della ‘ndrangheta nel 1980, l’altro, Pio La Torre, assassinato dalla mafia due anni dopo: “Ci piacerebbe che questo 1 Maggio fosse celebrato nel nome degli uomini e delle donne con la schiena dritta. Di quelli morti. E di quelli vivi. Non gli eroi, ma le persone normali. Quelle che ogni mattina affrontano l’esistenza, accompagnano i bambini a scuola, si recano al lavoro. Ma se non ne hanno uno, la schiena devono averla ancora più robusta”. Il disoccupato, continua l’articolo, è oppresso dal senso di inutilità, “ma più di tutto, peggio di tutto” lo scoraggia “l’idea di un mondo che gira al contrario, che premia i furbi e gabba gli onesti”.
Per questa via, diviene naturale la citazione del caso del sontuoso appartamento di Scajola al Colosseo, condita da un demagogico richiamo “a chi si svena per l’affitto o viene strangolato dal mutuo”.
Dunque, i lavoratori non sono mai veramente protagonisti, nemmeno quando è la loro festa. La madre di tutte le battaglie rimane quella per la legalità, per un’Italia ed un Meridione che, non più strozzati dalle mafie e dall’illegalità endemica, possano creare nuovi posti di lavoro.
Proprio qui si delinea in modo nitido un’aspirazione che affiora in tante pagine del Fatto. Quella legata ad un paese normale, senza più strapotere mafioso, senza l’anomalia rappresentata da Berlusconi e dal connubio tra potere politico e mediatico che questi porta con sé.
Dunque il giornale e coloro che lo scelgono ogni mattina vogliono solo un capitalismo “migliore”, più vicino a quello di altri grandi paesi europei? Se, per quanto riguarda i lettori, è difficile esprimersi in maniera univoca, per quanto riguarda la redazione si è tentati di dare una risposta affermativa.
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