Un anno fa, il 12 gennaio 2010, s’è abbattuta su Haiti la più grande catastrofe naturale della storia moderna. 250mila morti e un milione e mezzo di senza tetto sono il bilancio del devastante terremoto del settimo grado Richter che ha colpito la capitale Porto Principe e i sobborghi distruggendo o danneggiando l’80% dei suoi edifici. Il paese più povero dell’emisfero occidentale tornò indietro di trent’anni in un solo minuto devastante. Il palazzo presidenziale e quasi tutte le altre sedi dei poteri dello Stato crollarono. Per qualche giorno l’isolamento fu totale fino al ripristino delle telecomunicazioni e all’arrivo di oltre diecimila militari statunitensi che ebbero sin dal principio un ruolo controverso: salvatori per alcuni, invasori per altri. Probabilmente entrambe le cose.
Nelle ultime settimane s’è parlato di Haiti a singhiozzo, sempre per qualche tragedia come il colera, che da ottobre ha già fatto 3800 morti, o per mostrarequanto sarebbero violenti e incivili questi haitiani che non riescono nemmeno a organizzare le elezioni politiche. Dopo un mese a Porto Principe, ospitato da un’associazione per la difesa dei diritti dell’uomo (Aumohd) nel febbraio 2010, posso dire di non aver mai visto un popolo così dignitoso e forte nell’affrontare i suoi drammi, pacificamente. Altro che barricate e sciacallaggi.
Dopo il sisma gli aiuti internazionali e la solidarietà non si fecero attendere e nel giro di poche settimane venne raccolta tra somma mai vista: 10.2 miliardi di dollari gestiti da una Commissione ad Interim per la ricostruzione presieduta dall’ex presidente americano Bill Clinton. Molti paesi, tra cui l’Italia, annunciarono la cancellazione del debito con Haiti, ma poi? Purtroppo meno del 10% dei fondi totali previsti dall’Onu è stato effettivamente destinato (il che non significa che sia stato già interamente speso, anzi…) alla ricostruzione del paese e ci sono state innumerevoli polemiche sulla natura dei progetti intrapresi che avrebbero favorito le grandi multinazionali, soprattutto americane, canadesi e francesi, interessate al business della ricostruzione (Vedi Link approfondimento). Il popolo haitiano è chiaramente il grande escluso dalla partita. Solo il 42% dello stanziamento previsto solo per il 2010 (poco più di 2 miliardi di dollari) è stato versato. Persino la multinazionale Monsanto ha generosamente donato un po’ dei suoi semi transgenici e brevettati per “aiutare” ed essere presenti ad Haiti, soprattutto quando i coltivatori avranno bisogno, un domani, delle nuove sementi e dei relativi pesticidi.
Anche per questo ho spesso parlato degli “aiuti selettivi” e della necessità di favorire il contatto diretto tra le realtà della società civile haitiana attive sul territorio e le associazioni, le Ong e le agenzie governative dei paesi donatori. Inoltre gli aiuti divennero da subito selettivi nel senso che le piccole associazioni haitiane, i gruppi organizzati di cittadini e in generale la popolazione dei 1150 campi di rifugiati di Port-au-Prince non hanno avuto voce in capitolo nella gestione dei fondi disponibili dell’Onu e delle altre “multinazionali della solidarietà” presenti in loco. Ad Haiti c’è chi va ad aiutare stando in hotel di lusso, rimasti magicamente intatti in mezzo a cumuli di macerie, e c’è chi cerca di aiutare partendo dai quartieri, dai campi di sfollati, scavando tra quelle stesse macerie e cercando di raccimolare qua e là qualche centinaio di euro per chi ne ha bisogno e non riceve nulla (Vedi iniziativa Haiti Emergency).
La “Perla dei Caraibi” è anche detta la “Repubblica delle ONG” per la presenza di circa 10mila(!) Organizzazioni Non Governative (ma anche agenzie statali provenienti da paesi terzi e militari delle Nazioni Unite) che svolgono senza un coordinamento centrale tutte le funzioni cui lo Stato ha da tempo rinunciato, specialmente salute, sicurezza ed educazione. Haiti ha oggi il sistema scolastico e sanitario più privatizzato del mondo ed è il peggiore d’America. La storia racconta che da decenni (o secoli?) il popolo haitiano è in balia di classi dirigenti corrotte e non certo democratiche (3 colpi di stato in meno di 20 anni di democrazia, due dei quali allo stesso presidente, Jean-Bertrande Aristide nel ’93 e nel 2004), di centinaia di sette e chiese eterodirette oltre che delle potenze straniere, Usa in primis, che da sempre influenzano pesantemente la politica dei paesi caraibici. Sembra quasi che queste non le abbiano mai perdonato il peccato originale d’essere stata la prima colonia dopo gli Usa a dichiarare la sua indipendenza nel lontano 1804 quando s’emanciparono dalla Francia.
Le forze di “pace” dei caschi blu ad Haiti si chiamano Minustah (Missione delle Nazioni Unite per Stabilizzazione di Haiti) e svolgono compiti militari e di sicurezza interna insieme alla polizia haitiana. Si tratta di 12mila soldati stranieri, sotto il comando brasiliano, che sono visti come una forza d’occupazione. Sono numerosi i casi documentati di violazioni ai diritti umani e di vere e proprie operazioni di guerra urbana che la Minustah ha compiuto in passato. Alcuni li descrivono, invece, come gli unici baluardi dell’integrità delle istituzioni e del mantenimento dell’ordine perché in qualche modo sostituiscono la corrotta polizia nazionale.
A un anno dal terremoto le scosse continuano ancora. Le tragedie non hanno smesso di colpire Haiti e come sempre dove c’è più povertà, l’impatto di qualunque evento naturale s’amplifica a dismisura. La stagione delle piogge e degli uragani s’è portata via le vite di decine di persone: 21 morti solamente il 5 novembre dopo il passaggio dell’uragano Tomas.
Poi il colera con migliaia di morti e oltre 170mila contagi (ne sono previsti 400mila per il prossimo anno). A novembre e dicembre l’indignazione e la disperazione della gente si sono fatte sentire nelle manifestazioni contro i caschi blu, specialmente contro il contingente nepalese, accusati di aver importato il colera come dimostravano gli studi di alcuni esperti. Le reazioni e gli spari tra la folla dei soldati Onu hanno provocato almeno 3 morti accertati. Certo è che le condizioni igieniche della popolazione prima e dopo il terremoto erano talmente insalubri che ci si aspettava lo scoppio di un’epidemia da un momento all’altro.
Dopo le elezioni del 16 dicembre scorso altri 5 manifestanti sono morti negli scontri seguiti a una giornata elettorale contestatissima. La candidata Mirlande Manigat, ex first lady e costituzionalista, e il candidato del potere Jude Celestine, sostenuto dall’attuale presidente Renè Preval, andranno al ballottaggio in data da definirsi. Le proteste dei sostenitori del candidato Michel Martelly, arrivato terzo, e le denunce di brogli hanno portato la OSA (Organizzazione Stati Americani) a fare una valutazione del voto e a “squalificare” Jude Celestine dal secondo turno aprendo, di fatto, una crisi istituzionale importante. Resta al consiglio elettorale haitiano la decisione. Intanto si prova a campare. Almeno 810mila persone sono ancora nei campi di rifugiati censiti. Solo il 5% delle macerie sono state sgomberate.
Ma come fare? Liberarsi da povertà e dipendenza non è semplice. Il modello corporativo può funzionare soprattutto nelle campagne e nei settori leggeri come il tessile come dimostrano molti progetti avviati, il decentramento di attività dalla capitale alle altre province può “redistribuire” lavoro e risorse. Si propone la riappropriazione progressiva del sistema educativo e di salute da parte dello stato, la lenta ma decisa ritirata delle forze Onu in concomitanza con la formazione di una polizia professionale, la co-gestione, dicesi anche joint venture, tra imprese haitiane e straniere della ricostruzione. Esistono piani interessanti di riconversione energetica “casa per casa” e per l’industria per sfruttare il sole e rendere Porto Principe una città più pulita (la dipendenza dal petrolio di Haiti è altissima). Altre possibilità vengono dal salto tecnologico, educativo e digitale che potrebbe farsi con investimenti specifici di medio periodo in infrastrutture moderne di telecomunicazione, in parte già funzionanti, anziché prevedere solo spese immediate per derrate alimentari che Haiti può produrre internamente. Altri due settori interessanti e poco valorizzati sarebbero il turismo sostenibile gestito da haitiani in associazione con stranieri (l’isola possiede migliaia di chilometri di coste vergini nel mar dei Caraibi, basti pensare alla vicina e turistica Repubblica Dominicana) e la riforestazione dell’interno del territorio che non ha praticamente più vegetazione.
Ricordo le strade, i cortili e le chiese piene di gente che cantava e ballava disperatamente. Ricordo la catarsi collettiva a Porto Principe e l’aria di rinascita che si respirava il 12 febbraio 2010, giorno in cui si commemorava il primo mese dal terremoto. I canti spensero per un po’ il dolore e i balli sfinirono anime e corpi per farli dimenticare. Oggi spero che Haiti voglia ancora reagire. Forse a ragione, tra speranze e delusioni, non sono pochi gli haitiani che chiedono al mondo di essere dimenticati e lasciati soli, padroni del loro destino.
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